26 maggio 2022

QUESTIONI DI STILE

 



È da poco uscito per Carocci Teoria della letteratura. Campi, problemi, strumenti, a cura di Laura Neri e Giuseppe Carrara. Proponiamo qui un estratto del quinto capitolo dedicato a un inquadramento teorico sul concetto di stileL’indice del volume è consultabile qui


QUESTIONI DI STILE

di Enrico Testa

Le antinomie dello stile 

Nel Grande dizionario della lingua italiana, alla definizione e illustrazione dei vari significati del termine stile sono dedicate sette colonne fitte su tre pagine per un totale di diciotto accezioni. Non potrebbe esserci testimonianza più evidente del fatto che  parola e concetto siano marcati da una certa polisemia di fondo, la quale risalta anche nella prima e generale descrizione dell’area semantica del lemma:

 

Insieme di tratti formali (identificabili in abitudini grammaticali e sintattiche, modi di articolazione delle frasi, scelte lessicali, usi retorici) che caratterizza in maniera significativa e costante il linguaggio di un autore, di un’opera, di un genere letterario o di un tipo di scritto, di un movimento o di un periodo della storia della letteratura e che risulta da una scelta consapevole e deviante dall’uso o dalla norma correnti (e tale insieme, che in età medievale comprende anche elementi di contenuto in precisa relazione con quelli della scrittura, presentando un preciso aspetto normativo e precettistico ereditato dalla scuola e dalla retorica antiche, inizia, a partire dal manierismo e dal barocco, ad assumere il valore di resa individuale e ingegnosa di una materia comune e giunge dal romanticismo a significare la novità e l’originalità espressive che distinguono un autore, la sua personalità artistica e la sua visione del mondo).

 

Come si può vedere, stile ricopre un ampio ventaglio di possibilità del significato anche in contrasto tra loro o che comunque, nel corso della storia e dei cambiamenti culturali, hanno indicato realtà opposte: il particolare (comportamento linguistico del singolo autore o, addirittura, di una sua singola opera o testo) e il generale (tratti uniformi a una corrente o periodo letterario) e, quindi, l’espressione individuale e quella collettiva, la libertà sino all’arbitrio (in realtà, a rischio dell’incomunicabilità, sempre ‘vigilata’ dalle regole del sistema della lingua naturale che si utilizza)  e la gabbia di regole dal valore, in certe fasi, rigidamente prescrittivo. Inoltre, in sintonia con l’etimo del termine (dal latino stilus, con ampliamento semantico da ‘strumento scrittorio’ allo ‘scrivere’ e poi al ‘modo di scrivere’), la definizione appena riportata ascrive il fatto stilistico al solo dominio della scrittura. Ma qui interviene un’altra polarità: si sa, almeno a partire dalle opere fondamentali di Charles Bally (1905; 1909; 1913), che anche la lingua comune, non letteraria e non scritta, è ricca di «effetti naturali» e di «effetti per evocazione». È esperienza di tutti, se ci si ascolta parlando e si presta attenzione alla parola altrui, che le strategie espressive dell’oralità, non mediate dalle programmazioni che improntano un’opera con ambizioni estetiche, producono anch’esse tratti che non possono che dirsi stilistici. Elementi ricorsivi, citazioni, abitudini lessicali sintattiche prosodiche, storpiature a fini di rafforzamento o attenuazione della propria parola sino al limite della neo-coniazione, segnano nel profondo il comportamento del parlante e, in generale, sono propri di quel «linguaggio in azione» a cui Roman Jakobson ha dedicato pagine indimenticabili.

 

L’indagine di questi fenomeni è stata distinta (lo stesso Bally non aveva uno specifico interesse per i fatti letterari, anche se a lui si deve l’individuazione del discorso indiretto libero) da quella che, prima con Karl Vossler e poi soprattutto con Leo Spitzer, si è rivolta ai testi della letteratura. È intervenuta allora la necessaria partizione tra stilistica della lingua e stilistica letteraria. Indispensabile a non confondere il campo d’analisi ma, per tanti versi e tanto più col trascorrere del tempo, non poco surrettizia se si tiene conto di quanta incidenza abbiano la lingua tout court e la sua storia sul definirsi dell’attività letteraria: i rapporti tra i fatti formali di quest’ultima e quelli della lingua come fenomeno sociale infatti non vanno sempre e necessariamente considerati secondo lo schema dell’antagonismo, presentandosi piuttosto relazioni più sottili, sfuggenti e ‘porose’ – anche in senso bidirezionale – tra i due domini (cfr. Coletti, 2016).

 

In ogni caso, la categoria dello stile si è arricchita così, nel corso della sua vicenda millenaria, di un’altra polarità. Accanto a quelle di individuale e collettivo, libertà e norma, anche quella di orale e scritto. A cui va aggiunta, in un ideale repertorio introduttivo, quella di ornamento o fregio, da una parte, e di forma di conoscenza, dall’altra, ben espressa, quest’ultima, da Contini già nel 1935 allorché scriveva che «ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica» (1935, p. 243). Ma la questione è più antica e per illustrarla è sufficiente fare due nomi: Stendhal e Goethe.

Rileggendo, tra il 1840 e il 1841, la Chartreuse, Stendhal dedica alcune pagine del suo Journal allo stile: dopo aver polemizzato con «lo stile nobile», caro ai «padri di famiglia, i fabbricanti, i commercianti», difende di fronte al tribunale del suo io il proprio «stile naturale» e giunge, nota dopo nota e giorno dopo giorno, a formulare una liquidazione globale dello stile: «Sono i poveri di idee che hanno inventato lo stile» (1977, pp. 605-607). Quest’ultimo è qui interpretato come postura retorica, figura della «gonfiezza», esibizione dello strumento linguistico che vale soltanto da ostacolo alla trasmissione del narratum e delle sue vicende. Contrapposto alle «cose» da dire, ai «pensieri veri» – quelli necessari a costruire «solidamente la volta» – è visto come un dato ornamentale, un condimento che appesantisce la ‘ricetta’ della scrittura.

 

Cinquant’anni prima – nel 1789 – Goethe esprimeva una posizione diametralmente opposta. A parer suo lo stile poggia «sulle più profonde fondamenta della conoscenza, sull’essere delle cose, per quanto ci è concesso di riconoscerlo in forme visibili e tangibili» (1954, p. 68). Un elogio che sottrae la nozione di stile a ogni ipostasi ornamentale e che la salda sia ai principi dell’attività conoscitiva dell’uomo che a quelli, ontologici, dell’essere. Senza dimenticare che nelle concezioni di Stendhal e di Goethe si riflettono, oltre che visioni diverse della scrittura, anche diverse impostazioni culturali (il fastidio per il ‘bello scrivere’ della tradizione settecentesca francese nel primo, e la concezione romantica che nello stile vedeva il punto più alto del genio artistico nel secondo), la dialettica che s’intravvede in filigrana tra i due può insegnare, o ricordare, alcune cose.

 

Se pensiamo che, in fondo, nessuno dei due ha ‘torto’ (quante opere compiaciute del proprio fasto verbale e prive di ogni altra risorsa affollano gli scaffali; e, contemporaneamente, quanta parte ha lo stile nella costruzione di romanzi e poesie e altre scritture percepite come indispensabili alla nostra esistenza), se ne può, in prima battuta, cavare una lezione di sano relativismo e, con essa, alcuni corollari. Il gioco o il dramma delle antinomie è consustanziale a una nozione così larga e gravida di storia come quella di stile. Foscolianamente, anche lo stile o gli stili e le loro nozioni – come ogni altra attività umana – «traggono qualità da’ tempi». E detto questo, si potrebbe anche chiudere qui.

L’impegno ermeneutico spinge invece ad aggiungere, senza negarla, altre considerazioni a quella appena fatta. Intanto, all’analisi formale o stilistica letteraria mal s’attaglia un quadro teorico rigido: se il suo «compito prioritario» è «mettere in rapporto buccia e polpa, interno ed esterno, testo e ‘mondo’», meglio è lasciarla «allo stato fluido, senza inglobarla in modelli fissi e onniaccoglienti» (Mengaldo, 2001, p. 7). In secondo luogo, appare più fruttuoso, nella lettura, affidarsi – fatti tutti i censimenti necessari dei fenomeni – non a una visione atomistica dello stile (che, in buona sostanza, favorisce un’estetica manierista suggestionata dallo strano e dal bizzarro) ma a una prospettiva a largo raggio.

 

Se si guarda agli interventi teorici e alle ricostruzioni storiche degli ultimi decenni (tra cui Compagnon, 1998; Molinié, 1993; Molinié, Cahné, 1994; Bottiroli 1997 e 2006; Mancini, 2015; e, per un quadro della critica stilistica in Italia, Mengaldo, 2010 e D’Onghia, 2011) ci pare che se ne possa trarre – anche contravvenendo ad alcune delle posizioni espresse in essi – la convinzione che sia necessario allargare, riprendendo Segre (1985, p. 325) la nozione di stile alla totalità linguistica del testo.

La tendenza alla ricerca degli effetti locali e alla certificazione del predominio della parola (magari preziosa o, comunque, deviante) o di altri aspetti, a qualsiasi livello, isolati appartiene a una determinata configurazione ideologica e a un orizzonte del sapere e delle pratiche interpretative di una precisa fase storica. Aperta dal romanticismo e dalla sua concezione dell’opera come espressione assoluta della soggettività e della sua visione del mondo, questa prospettiva incontra, già sul finire dell’Ottocento, una diagnosi precoce, che ne mette in risalto gli aspetti atomistici a scapito del testo come insieme linguistico. Si tratta di una pagina del Caso Wagner di Nietzsche, in cui si possono percepire in filigrana sia le tendenze compositive di tanta letteratura otto-novecentesca sia, all’interno di una comunità interpretativa solidale nei suoi elementi essenziali, le procedure e i modelli di una stilistica affascinata dalla teologia dello ’scarto’ o écart (un nodo teorico problematico su cui converrà ritornare):

 

Da che cosa è caratterizzata ogni décadence letteraria? Dal fatto che la vita non risiede più nel tutto. La parola diventa sovrana e spicca un salto fuori dalla frase, la frase usurpa e offusca il senso della pagina, la pagina prende vita a spese del tutto, – il tutto non è più tutto. Ma questa è l’allegoria di ogni stile della décadence: sempre anarchia atomistica, disgregazione del volere, ‘libertà dell’individuo’. (Nietzsche, 1888, p. 22)

 

Il brano, con i suoi riferimenti al potere sovrano della parola, alla dispersione dei frammenti, al risalto concesso all’individualità, allude, dalla sponda della critica totale scelta da Nietzsche, anche a un sistema di valori, caratteristici, più di altri, del pensiero occidentale, della sua estetica e delle sue riflessioni sullo stile. Proviamo a elencarli brevemente:

 

il concetto di un senso primo e originario, definibile solo grazie al suo riconoscimento operato attraverso una collezione di dettagli (dall’evidente in microscopia a ciò che è macroscopico ma nascosto), mentre sempre più forte è, invece, alla coscienza contemporanea la percezione che «ogni restaurazione dell’origine è illusoria» (Bottiroli, 1997, p. 96);

il concetto di singolarità e unicità dell’evento che ha per mira ultima quella di saltare sul traballante carro della memoria, con la funzione stilistica che agisce da dispositivo mnemonico e con lo stile che opera da promessa di un rinvio e di una sopravvivenza (cfr. Weinrich, 1994);

il concetto di proprio come definizione di una regione in cui vige il principio del possesso del sé, attentato solo dallo spossessamento della morte.

 

Difficile per noi dire se tali concetti debbano o no passare agli archivi e se siano stati sostituiti da un diverso ordine del pensiero o da nuovi paradigmi. Sono stati però indubbiamente scossi, ‘turbati’ e, talvolta, messi in gioco da almeno due elementi: quello «di un’eccedenza, o di un ‘supplemento’, che dice, fuori degli schemi, la non totale contenibilità di quei concetti medesimi dentro gli schemi» (Agosti, 1978, p. 29) e quello di una mancanza, di un venir meno dell’unico, dell’identico e del proprio. Così, ad esempio, l’iterabilità ha intaccato il concetto di senso primo e il concetto di proprio è stato messo all’angolo da una folta schiera di figure dell’altro, nelle varie accezioni che tale termine porta con sé. Ora, non è difficile scovare una parentela tra i principi cardine del pensiero prima elencati – soggetto, singolarità, identità – e quelli che stanno al centro dell’indagine stilistica condotta dai grandi maestri del Novecento. Ma dedurre da tutto questo la fine della critica stilistica ci pare un poco azzardato.

 

La ricca eredità consegnataci – anche da visuali diverse – da Spitzer studioso di grandi autori come dell’italiano popolare e di comunicazione, e da Auerbach con i suoi imponenti  affreschi, e da Starobinski, Contini e Nencioni oltre all’importanza dei risultati raggiunti da altri che ancora si impegnano, magari non iscrivendosi alla ‘scuola’ dell’antica stilistica e operando, nell’analisi degli scrittori, sottili e pertinenti distinzioni tra lingua e stile, inducono a una certa prudenza nell’emettere verdetti liquidatori e a vedere in testi ormai classici più che una landa desolata da abbandonare, un terreno su cui far crescere nuove piante o, fuor di metafora, nuove interpretazioni. E poi è talmente preziosa e insostituibile l’analisi della lingua dei testi – e la lingua è il primum, non dimentichiamolo, con cui abbiamo a che fare nella lettura e con cui dobbiamo misurarci nella fase anteriore a ogni elucubrazione critica, magari condotta poi sotto il segno dell’‘emozione’ – che metterla da parte in nome di presunte debolezze di metodo, equivarrebbe  – per usare un modo di dire – a gettare il bambino con l’acqua sporca. Difficile trovare un’altra strada che, come questa, consenta di cogliere rapporti e conflitti tra significanti e significati, tra parola e storia, tra armonia e dissonanza e, in sintesi, una complessità del testo che non s’esaurisce mai in sé stessa pur restando legata alla lettera. A patto però, crediamo, di mantenersi in una dimensione riluttante all’instaurazione di tipologie soffocanti, e di tornare a ripensare i principi avuti in eredità. Da qui, come si fa in botanica ampliando e restringendo i tratti di una specie consegnata da altri alla tassonomia, si è prospettata implicitamente una sorta di analisi stilistica emendata; che proviamo qui, attingendo a indagini precedenti, a rendere più chiara e articolata. Convinti che rinunciare per intero alla nozione di stile sia ora avventato – in parziale autocritica di Testa, 2002 – tanta è la sua forza, pur per accordo o convenzione, operiamo questo tentativo attraverso l’analisi o messa in rilievo di alcune questioni.

 

Lo scarto e lo standard linguistico

 

Il punto cardinale, la vera architrave, della stilistica letteraria è la nozione di scarto, quale marca distintiva di un autore connessa a valenze psichiche ed emotive («l’etimo spirituale»). Deviazione dall’uso linguistico normale che aggetta su uno stato di eccezionalità psichica. Famoso il «postulato» con cui Spitzer enuncia questo principio:

 

A qualsiasi emozione, ossia a qualsiasi allontanamento dal nostro stato psichico normale, corrisponde, nel campo espressivo, un allontanamento dall’uso linguistico normale; e, viceversa, […] un allontanamento dal linguaggio usuale è indizio di uno stato psichico inconsueto. Una particolare espressione linguistica è, insomma, il riflesso e lo specchio di una particolare condizione dello spirito. (Spitzer,  1931, p. 46)

 

Uno dei «nodi teorici non pienamente sciolti da Spitzer» (Segre, 1993, p. 28) è proprio questo. Le ragioni sono molteplici. La prima è molto intuitiva: ognuno ha incontrato opere in cui si procede per continue infrazioni al cosiddetto linguaggio usuale sino ad arrivare – punto di somma delibazione critico-stilistica – alla creazione di parole nuove o «parole d’autore» (su cui cfr. Colussi, Zublena 2019); ma altrettanto frequente è avere a che fare con opere importanti in cui le deviazioni sono invece rare o addirittura assenti. C’è poi una ragione che rimanda a generali dinamiche sociolinguistiche: la differenziazione della lingua della poesia o del romanzo dalla lingua comune o standard, pone subito il problema del rapporto con quest’ultima e della sua definizione. Qui, nel corso della navigazione, s’incontrano due scogli contro i quali la navicella dell’interpretazione può schiantarsi. Il primo è questo: «lo standard è sempre un prodotto con un certo grado di artificialità»; non esistendo «in natura varietà di lingue standard» (Berruto, 2010, p. 729), esso appare il risultato della convergenza di più fattori che collocano questa nozione più nell’orbita dell’astrazione modellizzante che in quella degli effettivi usi linguistici. Inoltre, accettando pure la coincidenza tra standard e una sorta di «norma statistica […], vale a dire ciò che è più frequente, il comportamento esibito di fatto dalla maggior parte delle persone» (Berruto, 2017, p. 72), oppure, in altri termini, convenendo su una lasca identificazione tra standard e base comune di una lingua – in sostanza quanto permette d’intenderci al di là di particolarità geografiche, sociali, culturali ecc. – non si può nascondere come questo, tanto più in tempi recenti, vada modificandosi rapidamente, per cui farvi riferimento come a una terraferma sicura su cui far risaltare eccezioni è, in realtà, percorrere un sentiero tra le paludi. E, proseguendo e argomentando, la superficie verbale su cui si postula emergano gli scarti è apparsa – altrimenti come potrebbero essere visibili i toni accesi dell’inconsueto? – come un dominio grigio e indistinto della piattezza linguistica, come uno sfondo atto solo a dar rilievo ai picchi dell’invenzione letteraria, trasformandosi qui lo standard in una catena produttiva di termini e enunciati anonimi marchiati dall’identico. Un’invenzione troppo comoda per essere vera. Che trascura la complessità della comunicazione, l’intreccio delle ragioni e degli impulsi che stanno dietro una singola parola, la varietà delle situazioni in cui avviene lo scambio verbale. Leggiamo in proposito quanto ha scritto un intellettuale e poeta molto sensibile ai fenomeni della lingua ‘ordinaria’:

 

La comunicazione linguistica (la comunicazione umana, in genere) è tutto un continuo traffico intersoggettivo che dovrebbe essere segnalato all’innocente improvvido da un cartello che dica, sull’aria di un ‘lavori in corso’, un evidente ‘interpretazione in corso’. Il più piatto ‘ciao’, il più distratto, può avere infinite sfumature. Un testo agisce grazie al contesto, non soltanto verbale, ma latamente esistenziale (Sanguineti, 2004, p. XV).

 

E già Charles Bally, nel 1913, aveva presentato i quotidiani rapporti della comunicazione umana in maniera assai ‘trafficata’. Anzi, una «lotta», non incompatibile con la solidarietà e la simpatia. E aggiunge che, in tale contesto dinamico, il linguaggio – proprio quello comune – può agire come strumento per imporsi all’interlocutore e, a tale scopo ma anche solo per essere espressivo, deve «deformare senza sosta le idee, ingrandirle o rimpicciolirle» (Bally, 1913, p. 19). Anche negli enunciati di ogni giorno, insomma, la creatività linguistica, gli effetti stilistici, i «procedimenti dell’eloquenza» (ivi, p. 21), le mosse, pratiche e istintive, della persuasione e, insieme, del rimodellamento del patrimonio verbale la fanno da padrone. Questa dimensione del linguaggio è poi diventata, nei suoi vari aspetti, tema ricorrente nella linguistica pragmatica e in altri studi che puntano a sottolineare il coinvolgimento (o involvement) che impronta i vari comportamenti del parlato. Anche se era, in realtà, già stata messa in rilievo da Spitzer autore della Lingua italiana del dialogo, e posta al centro della teoria dell’enunciazione di Benveniste e, in Italia, della riflessione di Benvenuto Terracini. Il quale, oltre a scartare la strada del confronto della lingua di uno scrittore con un inafferrabile standard optando per quella del suo rapporto con i linguaggi delle varie tradizioni letterarie, parlava appunto – in termini più generali –  di «aspetto drammatico di una lingua colto nell’atteggiamento reciproco del parlante e dell’interlocutore» (Terracini, 1956, p. 194).

 

Ne risulta, in buona sostanza, che il tentativo di trovare l’incognita-scarto dell’equazione alla base del calcolo della stilistica si è rivelato insoddisfacente e che l’incognita non è stata trovata. E questo perché il termine di confronto su cui misurare le deviazioni della scrittura letteraria è apparso, nella sua disomogenea vitalità, inadeguato al compito affidatogli. Troppo intricata la lingua corrente e, in particolare, la sua fenomenologia conversazionale  per prestarsi a sfondo inerte su cui mettere in risalto i colori della letteratura: percorsa dall’insopprimibile esigenza del parlante di realizzare, per sforzi e invenzioni verbali, la propria identità in rapporto a coloro che lo circondano, essa non è riducibile a termine antagonistico fondato sul principio dell’antitesi (o, meglio, solo a termine antagonistico). La sua relazione con la scrittura letteraria è, piuttosto, ibrida, segnata ora da un mai definitivo congedo ora dal ritrovamento di essenziali parentele.

 

Vi sono stati dei tentativi di recuperare la nozione di scarto sottraendola al rigido dualismo con una norma o lingua comune. Starobinski, ad esempio, ha visto nel sentiero di sassolini segnato nel testo dagli écarts più che un percorso ascensionale che  condurrebbe al nucleo dell’esperienza immaginativa dello scrittore, dei semplici indizi utili al lettore nel cammino della sua interpretazione (1970, pp. 29-30): una saggia visione ‘strumentale’ dello scarto che però ne spoglia le originarie valenze euristiche e che «valorizza l’indiscussa genialità di Spitzer critico a spese della sua vitalità metodologica» (Segre, 1993, p. 29). Non esce dall’impasse Riffaterre (1971) allorché colloca l’infrazione stilistica in rapporto non a un codice preesistente, ma al contesto (nel senso di cotesto): «l’effetto di stile coincide con una rottura di prevedibilità, con il rilievo dato a determinati elementi della sequenza verbale in modo da imporli all’attenzione del lettore, così che questi non possa ometterli senza mutilare il testo, né decifrarli senza trovarli significativi e caratteristici» (p. 31). Si tratta, per certi versi, di una riedizione dell’antica nozione dello stile come ornatus – «enfasi (espressiva, affettiva o estetica) che si aggiunge all’informazione trasmessa dalla struttura linguistica» (ivi, p. 28) – che presuppone la presenza, in un’opera, di zone ‘non marcate’ e, in fondo, poco o affatto significative. È però assai difficile pensare che vi siano zone testuali, nella poesia come nel romanzo, in cui «non accade nulla di notevole» (Fish, 1980, p. 71). Viene spontaneo, in questo caso, dar ragione a un critico e teorico della letteratura oggi dimenticato, Henri Meschonnic, quando individuava nel principio dell’«isolamento» il dato fondante della stilistica (1973, p. 29).

 

La singolare cartografia semantica di Riffaterre, fondata sullo scarto contestuale e sulla partizione del testo in regioni ricche e regioni povere, spinge a trattare brevemente, o meglio a riprendere, la seconda questione che desideriamo affrontare in queste pagine. Si potrà pure – ed è stato fatto con dovizia di particolari e riferimenti in Bottiroli (1993 e 1997, pp. XVIII-XIX) – parlare di stile come «linguaggio diviso», dominato da tre regimi di senso (semplificando molto: usi istituzionali della lingua, prevalenza del significante sul significato con incremento del tasso figurale, elemento «distintivo» in cui l’articolazione non sopprime la densità) e quindi, sul piano teorico, dedicarsi a rintracciare i meccanismi delle relazioni tra queste componenti, ma  ciò non esclude – a meno che non si voglia, come in Bottiroli (2006, pp. 336-387), seguire lo sdrucciolevole sentiero indicato da Heidegger – una minima ed elementare verità. Si tratta di quella formulata in Genette (1991, p. 120): «il ‘fatto di stile’ è il discorso stesso», e quindi l’insieme delle sue relazioni e tensioni tra i suoi diversi piani e componenti; relazioni che, se si istituiscono, in prima e ineliminabile battuta, nel testo, aggettano – ma è una considerazione banale talmente è ovvia per gli storici della lingua – fuori del testo: linguaggio ordinario, dinamiche antropologiche, mutazioni storiche, fonti, percorso genetico della scrittura, interpretazioni e ricezioni passate e presenti. Se il testo è «denso» (Bottiroli, 2006, p. 408) e se si può fare coincidere parte dello stile con la densità, vari sono però i modi di quest’ultima non coincidendo essa necessariamente con «la ricchezza figurale, l’eterogeneità degli stili semantici, ecc.». Così facendo, la vecchia e discussa e tanto riprovevole nozione di stile gettata fuori dalla porta, rientra – senza neanche cambiar abito – dalla finestra.

 

Mentre l’impegno primario, nella duttilità delle prospettive scelte (analisi del singolo testo o dell’organismo-libro, piano metrico, funzioni della punteggiatura, effetti del significante, realtà sintattica e via continuando), è mettere a fuoco il valore di un elemento verbale  nel suo rapporto con gli altri e non nella sua condizione di eccezione al cotesto. Da qui, all’interno di una prospettiva che vede operante l’impegno formale in ogni parte dell’opera, il distacco da ogni lettura tesa a sacrificare l’unità del testo all’idolo della frantumazione della sua compagine linguistica.

Non si dice nulla di nuovo affermando che pare indispensabile assumere ad oggetto d’analisi tutti i fenomeni del testo, abolendo eventuali distinzioni tra pertinente e non pertinente, significativo e non significativo. Con un acume e uno spirito autocritico raro tra i seguaci di successive teorie letterarie – stilistiche e no – o tra gli odierni  frequentatori di indagini che si sottraggono alla materiale concretezza dei dati linguistici optando per formule generiche e letture impressionistiche, l’ultimo Spitzer rifugge da ogni totalitarismo critico (della stilistica come di altri metodi), rimette in discussione i principi da cui era partito e allarga la sua prospettiva scartando da ogni ipnosi del particolare. Il riferimento è al saggio, postumo, su Aspasia di Leopardi:

 

Senza l’elaborazione, da parte del critico, della struttura saldissima di questa poesia, il suo valore non può, mi pare, essere discusso con utilità. Mi pare infatti che l’analisi della struttura sia stata in generale trascurata dai critici che apprezzano più o meno soggettivamente or questo, or quel verso o motivo e, particolarmente in quei commenti che seguono la poesia verso per verso, ne perdono di vista l’organismo totale, spezzettando quello che è un tutto obiettivo che si spiega davanti all’occhio interno del lettore. (Spitzer, 1963, p. 252)

 

Riproporre oggi queste parole non significa restaurare – come si potrebbe pensare isolando il ricorrente termine struttura nel brano di Spitzer – lontani metodi interpretativi. Significa piuttosto collocarsi in una posizione che tiene a distanza due suggestioni contrastanti. Da un lato, la pretesa scientificità della critica, l’aspirazione alla fondazione di un modello assoluto (un progetto che, comunque, i più avvertiti studiosi della stagione strutturalista non hanno mai coltivato e che è stato contrabbandato dai loro avversari prendendo spunto da posizioni estreme ormai cadute nell’oblio); dall’altro – solidali tra loro più di quanto possa apparire – ipertrofiche e parassitarie produzioni accademiche che hanno la loro legittimazione solo nell’alveo in cui s’inscrivono e – rovescio del diritto – disinvolte pratiche di lettura che assumono l’opera a pretesto di percorsi in cui l’io di chi scrive gloria sé stesso dimentico della lettera del testo da cui è partito.

 

Se la critica – e la critica disattenta ai dati formali o ‘stilistici’ o discorsivi, è una critica zoppa – è, in primo luogo, ricerca conoscitiva, leggere e rileggere, «leggere senza stancarsi» (Spitzer, 1931, p. 47), decifrazione di un senso di cui l’unica cosa certa in partenza è la sua non univocità, allora percorso e, insieme, orizzonte del cammino è il testo nella sua concretezza e nella molteplicità dei suoi piani e significati: «Una pluralità di livelli, una stratificazione di significati deve corrispondere alla modalità di una lettura critica, che da una parte renda ragione della complessità dell’opera letteraria, esaltando la responsabilità dei soggetti, ma dall’altra respinga l’idea che a una rappresentazione finzionale corrisponda lo svelamento univoco di un senso» (Neri, 2011, p. 203).

 

In assenza di una verità assoluta, l’analisi formale può dialogare con il testo ‘inventandosi’ una lettura che, almeno preliminarmente e adeguandosi alle domande e alle necessità che il testo pone e impone, non sacrifichi nessuno degli strumenti a disposizione. Ed è questo il terzo punto che ci sta a cuore rilevare: l’indagine della lingua di poesie e di romanzi si è per lo più affidata a pratiche consolidate, magistralmente sintetizzate in Mengaldo (2001): il metro, l’articolazione compositiva dell’opera, il suo tracciato intertestuale e interdiscorsivo e tanto altro. Su questi accessi al testo letterario, realizzati in saggi e libri divenuti fondamentali per chi si occupa di tutto ciò, esistono manuali e introduzioni inappuntabili. E di questo qui non ci occuperemo. Ci preme piuttosto, attraverso alcune letture di brani in prosa o in versi, dar conto dell’utilità di prospettive che, in parte già utilizzate nell’analisi e in parte non ancora appieno vidimate, non rientrano comunque, al momento, tra i metodi più canonici. Si tratta, in sintesi, di alcuni suggerimenti che provengono dalla linguistica pragmatica e da quella testuale, in connessione con aspetti interpuntivi e sintattici («generalmente la dominante [organizzatrice del resto] è la sintassi, ciò che gli studi di stilistica troppo spesso dimenticano» Mengaldo, 2001, p. 11), e dalla teoria dell’enunciazione e da recenti acquisizioni nel campo di studi che si dedica a vari fenomeni pregrammaticali o agrammaticali.

[…]

da https://www.leparoleelecose.it/?p=44248











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