Numerosi furono gli antifascisti savonesi andati a combattere in Spagna in difesa della repubblica. Considerati sovversivi dopo la guerra (e la caduta del fascismo) continuarono per anni ad essere spiati e schedati dagli apparati dello Stato democratico.
Giorgio Amico
Antifascisti savonesi
nella Guerra di Spagna.
Quarant'anni fa, il 20
novembre del 1975, moriva dopo 36 anni di dittatura Francisco Franco.
Con il crollo del regime falangista, ultima sopravvivenza del
fascismo storico, si chiudeva un'epoca buia per la Spagna e l'Europa.
Iniziava un processo di transizione che avrebbe riportato la
democrazia nel paese iberico. Un percorso non privo di
contraddizioni. Secondo José Álvarez Junco, professore di Storia
del pensiero e dei movimenti sociali all’Università Complutense di
Madrid, la destra, che non aveva un progetto né un leader, «si
assicurò che non ci sarebbero state epurazioni nella polizia, tra i
militari e nella magistratura; la sinistra, dinanzi a un regime
franchista comunque ancora forte e strutturato e al rischio di una
nuova guerra civile, ottenne l’amnistia e le elezioni democratiche»
(Il Sole 24Ore del 15 novembre 2015).
Un accordo, definito il
“Patto dell'oblio” che di fatto rimuoveva dal dibattito politico
il passato franchista. Calava un velo su quattro decenni di
violazioni dei diritti umani e di crimini efferati, mentre gli
esponenti più giovani del regime continuavano tranquillamente la
loro carriera nei partiti del centrodestra. Un fenomeno che ricorda
molto da vicino la mancata epurazione dell'apparato statale dopo la
Liberazione in Italia.
Secondo Almudena Grandes,
una scrittrice molto impegnata politicamente conosciuta e apprezzata
anche in Italia, la Spagna soffre ancora oggi per l'occasione
mancata quaranta anni fa di democratizzare radicalmente il paese. Per
lei la crisi di rappresentanza dello Stato spagnolo, evidenziata sia
dal successo di Podemos sia dalla crisi catalana, trova le sue
ragioni in una transizione alla democrazia che non ha saputo
realmente fare i conti con il passato:
“Credo che la crisi che
la democrazia spagnola sta vivendo sia legata alla transizione
democratica che ha reso la Spagna un Paese fragile: non ci fu una
rottura estesa ed efficace con la dittatura, le istituzioni
conservano molto di quell’epoca. C’è dunque all’origine un
problema sentimentale e morale, e il problema territoriale è la
manifestazione di un Paese che non si riconosce nei simboli nazionali
spagnoli, perché non si è fatto un progetto rotondo e la
transizione è stata ambigua». (Il Sole 24Ore, cit.).
Particolarmente sentito
il problema dei caduti repubblicani. Sono infatti centinaia le fosse
comuni sparse nel Paese, molte delle quali mai aperte. 150mila
cadaveri restano senza un nome, mentre più di 1000 famiglie di
caduti riconosciuti non possono recuperarne i corpi. Una ferita
aperta a cui la legge della «Memoria histórica», approvata alla
fine del dicembre 2007 dal Governo Zapatero, aveva cercato di dare
soluzione, ma che il governo di centrodestra di Mariano Rajoy ha
sostanzialmente congelato.
Contraddizioni della
transizione che emergono anche dalle pagine di un libro appena edito
a cura dell'ISREC di Savona e dedicato alla figura di Umberto
Marzocchi, esponente di primo piano del movimento anarchico italiano
e internazionale, fiorentino per nascita, ma savonese d'adozione,
avendo risieduto nella nostra città dal 1921 fino alla morte nel
1986, con l'interruzione forzata dell'esilio (1923-1945) in Francia e
appunto nella Spagna repubblicana e rivoluzionaria.
Leggiamo infatti di come
Marzocchi, già dirigente dell'ANPI e della Camera del Lavoro,
recatosi nel 1977 ad un convegno anarchico a Barcellona venisse
arrestato assieme a un altro antifascista savonese [Oreste Roseo,
recentemente scomparso] da poliziotti in borghese con i mitra
spianati.
“In quell'istante –
ricorda Marzocchi in un'intervista ripresa nel volume – abbiamo
pensato a una carneficina, ritenendo si trattasse di un commando
fascista. Fummo caricati su auto cellulari, condotti al commissariato
principale di via Layetana e rinchiusi in celle separate, isolati gli
uni dagli altri, fino al momento del rilascio , avvenuto la sera del
4 febbraio. Dopo aver confermato al giudice il verbale dei nostri
interrogatori, siamo stati espulsi ed accompagnati dalla polizia
fino alla frontiera francese”. (Vincenzo D'Amico- Giuseppe Milazzo-
Giacomo Checcucci, Umberto Marzocchi, ISREC, p. 39-40)
Liberato dopo cinque
giorni di prigionia grazie ad una mobilitazione internazionale
subito attivatasi, Marzocchi denuncerà i limiti della transizione
postfranchista in una grande manifestazione antifascista convocata a
Savona dalle associazioni partigiane che vede la partecipazione di
Umberto Terracini.
Iniziativa non isolata,
ma ultima tappa di un costante impegno dell'antifascismo savonese a
fianco dei democratici spagnoli contro il regime di Franco,
testimoniato anche dalla pubblicazione nel 1961 a cura dell'ANPI di
un quaderno su “L'epopea antifascista spagnola. Cenni storici
sulla Guerra di Spagna”. Un impegno unitario che vede la
partecipazione di tutta la sinistra, comunisti, socialisti e
anarchici, al di là dei contrasti ideologici e delle lacerazioni
provocate dai tragici fatti di Barcellona del maggio 1937 e
dall'assassinio degli anarchici italiani Berneri e Barbieri.
Un conflitto aspro,
scaturito da due concezioni diverse della lotta in corso: quella
rivoluzionaria dei comunisti dissidenti del POUM e degli anarchici
che legava indissolubilmente la resistenza antifascista alla
partecipazione popolare dal basso, al potere dei consigli operai e
contadini e all'approfondimento del processo rivoluzionario a partire
dalla riforma agraria e dall'espropriazione di latifondisti e magnati
della finanza e dell'industria. E quella patriottica e repubblicana
del Partito comunista (e della Russia di Stalin) che non intende
andare oltre la fase antifascista e che in nome dell'unità nazionale
antifranchista respingeva fermamente ogni ipotesi di rivoluzione
proletaria. Da qui lo scontro fratricida in Catalogna e la messa
fuorilegge di anarchici e poumisti.
Una divisione destinata a
durare a lungo, se ancora nel 1962, in piena destalinizzazione,
Giacomo Calandrone, un altro savonese illustre impegnato nella guerra
civile spagnola, nel suo libro di memorie “La Spagna brucia”
ricostruiva contro ogni evidenza storica e la mole di materiali e
documenti ormai disponibili la rivolta del POUM a Barcellona come
opera di “agenti del nemico, lieti di coprirsi con una bandiera
politica, per poter meglio svolgere la loro opera di provocazione”.
Eppure, nonostante la
durezza dei contrasti, l'impegno antifascista a Savona riesce a
mantenersi unitario, come unitaria era stata la lotta ai tempi della
guerra civile, quando fra il settembre 1936 e l'estate 1937 ben 27
savonesi erano andati a combattere e a morire per la libertà del
popolo spagnolo, mentre altri 19 risultano essere stati inquisiti,
processati e confinati per attività di appoggio alla causa
repubblicana.
Vicende ricostruite in un
libro di Antonio Martino, “Antifascisti savonesi e guerra di
Spagna”, edito anch'esso a cura dell'ISREC. Una ricerca incentrata
sullo spoglio scrupoloso dei fascicoli della Regia Questura oggi
depositati presso l'Archivio di Stato di Savona. Dalle schede
biografiche dei personaggi studiati non emergono tanto le motivazioni
politiche e i percorsi individuali, quanto la vigilanza assidua
esercitata su di loro dall'apparato repressivo del regime (ma anche
in qualche caso dello Stato repubblicano). Un limite che si spiega
con la natura di carte di polizia dei materiali analizzati, più
rivolti alla scoperta della attività pratica e dei contatti
personali dei potenziali antifascisti che alla definizione delle loro
effettive posizioni politiche e ideologiche.
27 savonesi di cui 21 già
residenti all'estero, per lo più in Francia, espatriati per motivi
politici o di lavoro, in larghissima parte giovani e di condizione
operaia. Dati in sintonia con il quadro complessivo dei 4000
combattenti italiani in Spagna, in gran parte già residenti
all'estero (in Francia soprattutto, ma anche in Belgio, Svizzera,
Stati Uniti, Unione Sovietica e Argentina), con un'età media di
trent'anni, di condizione prevalentemente operaia.
Giacomo Calandrone
Giacomo Calandrone
Di questi 27 antifascisti
3 (Giuseppe Dughetti, Francesco Siri e Attilio Strazzi) cadranno in
combattimento , mentre altri 8, rifugiatisi in Francia dopo la caduta
della Repubblica, verranno consegnati alle autorità italiane dopo lo
scoppio della guerra e l'armistizio fra i due paesi. Elevatissimo è
il numero di coloro fra questi ex combattenti di Spagna che
continueranno la lotta armata antifascista nella Resistenza francese
dopo l'invasione nazista e poi dopo l'8 settembre 1943 in quella
italiana. Sono 14 (Emilia Belviso, Libero Bianchi, Giacomo
Calandrone, Tommaso Carpino, Costanzo Cecchin, Carlo Gazzaniga,
Stefano Giordano, Amedeo Isolica, Umberto Marzocchi, Italo Oxilia,
Pietro Pajetta, Vincenzo Raspino, Silvio Torcello, Luigi Vallarino) i
resistenti già combattenti in Spagna, alcuni di essi ricopriranno
incarichi di comando nella guerra partigiana grazie proprio
all'esperienza militare accumulata nella guerra civile spagnola.
Quattro di essi (Cecchin, Pajetta, Raspino e Torcello) perderanno la
vita, fucilati dai nazifascisti o caduti in combattimento. Pietro
Pajetta “Nedo” sarà insignito della Medaglia d'oro al valor
militare.
Interessante anche
l'appartenenza politica dei volontari savonesi in Spagna,
rispecchiante perfettamente il più generale dato nazionale. Troviamo
infatti soprattutto militanti del Partito comunista, ma anche
socialisti, repubblicani, anarchici (Umberto Marzocchi). Fra loro una
straordinaria figura di donna, quell'Emilia Belviso, già militante
dell'apparato clandestino del PCI in Italia, poi voce di Radio
Barcellona, infine coraggiosa combattente partigiana nel maquis prima
a Parigi e poi a Nizza. Non mancano figure di primo piano
dell'antifascismo come il capitano Italo Oxilia, lo stesso che aveva
fatto espatriare Turati e liberato Rosselli, Nitti e Lussu dal
confino di Lipari o Leonida Campolonghi, figlio del primo segretario
della Camera del Lavoro di Savona, drigente della LIDU (Lega dei
diritti dell'Uomo) e riorganizzatore della Massoneria italiana
nell'esilio parigino.
Belle figure di
combattenti, uomini e donne che dedicarono con estrema coerenza e
dedizione totale la loro vita alla lotta per un'Italia libera,
democratica e giusta. Pericolosi sovversivi per uno Stato che,
nonostante la caduta del fascismo e l'avvento della repubblica,
continuava a mantenere nei posti di comando di polizia,
magistratura, forze armate, elementi formatisi durante la dittatura.
E così Libero Bianchi,
portuale savonese, risulta dal 1950 inserito nel Casellario Politico
Centrale del Ministero degli Interni come “comunista pericoloso”
e per questo costantemente seguito nei suoi spostamenti e spiato
nelle sue attività fino al momento della morte nel 1963. Eguale
attenzione nei confronti di Italo Oxilia, il cui fascicolo viene
chiuso solo nel 1971 e su cui si annota come vivesse “da solo in
modestissime condizioni economiche”, avendo impegnato l'intero
patrimonio di famiglia nella causa antifascista, “conservando le
sue ideologie di socialista saragatiano”. Evidentemente,
nonostante il PSDI fosse forza di governo dal 1948, la coerenza del
vecchio militante socialista continuava a risultare sospetta per
l'Ufficio Politico della Questura.
Umberto Marzocchi
Umberto Marzocchi
Ma Bianchi e Oxilia non sono i
soli a essere monitorati da quegli stessi apparati che li avevano già
spiati durante il fascismo, la vigilanza continuò per anni per molti
altri antifascisti. Solo fra il 1949 e il 1951 verranno revocati in
ottemperanza a disposizioni ministeriali molto tardive “i
provvedimenti di qualsiasi genere richiesti per motivi politici in
data precedente al 25 aprile 1945” nei confronti di Giovanni
Gismondo di Alassio, Carlo Spallarossa di Finale, Francesco Ferruccio
di Dego e Tommaso Carpino di Bardineto. E se questo era l'ordinario,
possiamo immaginare cosa fossero i controlli (e le schedature) nei
confronti di figure particolarmente in vista come Umberto Marzocchi o
Giacomo Calandrone, mandato nel dopoguerra a organizzare le lotte
bracciantili in Sicilia e deputato comunista fino al 1958.
Tutto questo mentre
fucilatori e torturatori repubblichini uscivano dalle galere e in
molti casi, vedi Almirante, riprendevano l'attività politica nelle
fila del MSI. Segni evidenti di quella incompleta democratizzazione
dello Stato, in Italia come in Spagna, che determinerà episodi
oscuri come Gladio e la strategia della tensione negli anni '70.
Vicende mai chiarite, ancora oggi senza colpevoli, che non
risparmieranno neppure Savona e che rendono ancora più necessario
mantenere viva la memoria di chi nelle galere e al confino fascista,
in terra di Spagna e poi nella Resistenza sacrificò la sua
giovinezza e in molti casi la vita per la la libertà di tutti.
Testo di Giorgio Amico, pubblicato su I resistenti n.3 2015, ripreso da Vento Largo.
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