In un breve saggio
Marco Revelli tenta una interpretazione della realtà politica
italiana che tenga conto delle profonde trasformazioni avvenute negli
ultimi anni. E' un ulteriore approccio al tema del “populismo”
oggi tanto dibattuto. Revelli ne vede bene le caratteristiche non
solo di movimento di opposizione (Grillo, Salvini), ma anche di
metodo di governo (Renzi). Un libro interessante, come interessante è
la critica (che ne fa Marco Bascetta nella recensione che
riprendiamo) di sottostimare i mutati rapporti tra le classi sociali
che del fenomeno populista sono la causa prima.
Marco Bascetta
Un frammento del
politico
Gli anni della grande
crisi hanno recato in Italia evidenti novità politiche. Imponendo
scenari inediti, ma anche portando a compimento processi
e tendenze in corso ormai da molti anni. Tra questi due corni,
tra continuità e rotture, si svolge la narrazione della più
recente storia politica italiana che Marco Revelli condensa in un
breve saggio (Dentro e contro, Laterza, pp. 140, euro 14) con
l’intento di ricostruire i passaggi e le condizioni che
hanno condotto all’attuale stile di governo, alle forme della
politica su cui poggia, al suo programma di ridisegno degli assetti
istituzionali e delle relazioni sociali.
Programma che ruota
attorno all’opportunità di cavalcare l’evidente crisi della
democrazia rappresentativa indirizzandola verso l’instaurazione di
un rapporto tra governanti e governati fondato sulla
subordinazione consensuale dei secondi ai primi a tutto
vantaggio dell’efficienza competitiva del «sistema-paese» sul
mercato globale.
È in questo quadro
che si inscrive lo svuotamento dei corpi intermedi, partiti
e sindacati, e delle assemblee elettive, in primo luogo il
Parlamento, a favore di un costante rafforzamento
dell’esecutivo. Il quale assume, tanto sul piano ideologico quanto
su quello operativo la forma di un «populismo dall’alto», o
«istituzionale», o «di governo» che si appella al rapporto
diretto tra il premier e la «gente», rappresentata dalla
platea sempre più risicata e imbrigliata degli elettori. Se
scrivo «gente» non è per caso.
Il regno del «fare»
Si tratta infatti di un
«populismo» assai singolare non facendo riferimento alcuno all’idea
di «popolo» in quanto soggettività politica, sia pure astratta
o immaginaria, e fonte della sovranità. Il che rende non
poco problematico il ricorso estensivo a questa categoria
politica nel descrivere un potere che si rivolge a quel regno
borghese e operoso del «fare» e del mercanteggiare che
siamo soliti chiamare, con indulgente simpatia, non «popolo» ma
«società civile». È alle corporazioni che la compongono (con
un occhio di riguardo per le più potenti), agli interessi e agli
appetiti che la attraversano, alle pulsioni che la agitano, agli
scambi che vi si svolgono, che la retorica governativa si rivolge,
cercando di blandirne, di finanziaria in finanziaria, questo o quel
segmento mascherato da «interesse generale». Di qui discendono
quelle doti (e quella posizione sempre arrischiata e pericolante)
di «funambolo» o di «illusionista» che Revelli riconosce
a Matteo Renzi. Insomma un governo centralizzato e decisionista
della frammentazione e della precarietà, attento a coglierne
inclinazioni e potenzialità produttive, umori e paure, ma
anche sempre esposto all’imprevisto.
Qualcosa di alquanto
discosto, dunque, dall’afflato unificatore e omogeneizzante
del populismo, del quale persiste semmai una robusta mano di vernice
mediatica. Il «partito della nazione» e il suo condottiero
emergono al termine di una vicenda almeno trentennale, «come la
forma politica – scrive Revelli – con cui giunge a compimento
la crisi terminale della democrazia rappresentativa. Non la produce,
certo, quella crisi (perché essa è il risultato di un processo
lungo di deterioramento, svuotamento e degrado). Ma la mette in
sicurezza, per così dire. La certifica e la dichiara normale
e definitiva.» Resta da spiegare però cosa abbia determinato
quel deterioramento, svuotamento e degrado perché questo, e non
la loro certificazione finale, è l’elemento su cui poggia il
successo del nuovo corso intrapreso dalla fu sinistra italiana.
Pretese di governabilità
Si tratta di quella serie
ininterrotta di sconfitte del movimento operaio, radicata nella
profonda metamorfosi del lavoro, della sua natura e della sua
percezione, che ha travolto forme politiche e organizzative,
aspettative e strategie di vita. Sconfitta affrontata invano per
un verso dai compromessi sempre più suicidi delle socialdemocrazie
e per l’altro dalle illusioni resistenziali di una sinistra
convinta di poter ripristinare condizioni ormai tramontate, di
mantenere posture etiche private del loro fondamento culturale.
Sono il materiale umano
e i rapporti sociali prodotti da questa profonda trasformazione
ciò a cui il renzismo mette mano per normalizzarli e ricondurli
nell’alveo della competitività di mercato, sulla base di un
liberismo padronale non particolarmente innovativo. Vi mette mano
anche, per altri versi meno convenzionali, il movimento di Grillo
che, a dispetto del suo ideologismo giacobino, riesce comunque
a tastare il polso del disagio sociale e a veicolarne il
risentimento e il riflesso d’ordine.
La storia di questa
normalizzazione viene, tuttavia, da molto lontano, Fin dall’insorgere
di quella pretesa di «governabilità» che avrebbe messo fine alla
prima Repubblica, ma soprattutto ai conflitti sociali che la avevano
attraversata rappresentando un fattore di sviluppo, di diffusione del
benessere e di riduzione delle diseguaglianze. La magistratura,
con tutto lo strumentario repressivo ed emergenziale messo a punto
nel corso dei tardi anni Settanta, se ne sarebbe dovuta incaricare.
Ma come i Talebani messi in campo nella guerra fredda contro l’
«impero del male» i giudici schierati contro
l’insubordinazione sociale sarebbero presto sfuggiti di mano ai
loro stessi mandanti, finiti ingabbiati in quella opposizione tra
legalità e illegalità che doveva sostituire il conflitto
sociale e continua a pretendere di sostituirlo sotto le
bandiere a 5 stelle.
Probabilmente, però,
malgrado l’epopea dello scontrino, anche la stagione del
protagonismo giudiziario volge ormai al termine, vittima di quello
stesso principio di «governabilità» che era stato chiamato
a garantire. Laddove decisionismo, efficienza e competitività,
si affiancano e sopravanzano la retorica legalitaria sia pure
senza entrarvi, almeno per il momento, in rotta di collisione.
La frenesia riformatrice
del partito della nazione è tutta inscritta dentro questo
equilibrio tra principio d’ordine e disinibizione esecutiva
che si esprime, per esempio, nella soluzione prefettizia delle crisi
politiche locali.
Si arriva così a quella
manomissione della Carta costituzionale che si propone di conferire
un quadro stabile e blindato al principio di «governabilità»,
e che Revelli descrive con chiarezza in tutti i suoi
passaggi essenziali.
A questo punto si impone
però una domanda di fondo che fuoriesce dalla contingenza politica.
Una Costituzione (e ci riferiamo in particolare a quelle, come
la nostra, stabilite al termine del secondo conflitto mondiale) può
sopravvivere ai rapporti di forza tra le classi che ne hanno
determinato la genesi e la natura? Il giurista risponderà di sì
perché la Carta costituzionale non è solo un prodotto, ma
anche uno strumento, una proiezione verso il futuro, un linguaggio
comune, un quadro che non esclude evoluzione interna, un impianto
categoriale «a priori», insomma. E anche lo storico potrebbe
convenirne, ma dovrebbe onestamente aggiungere che questo è vero
solo fino a un certo punto. E questo punto non
è necessariamente, nel mondo contemporaneo, una rottura bellica
o rivoluzionaria.
Non sono certo serviti
i carri armati per inscrivere in Costituzione il pareggio di
bilancio. Lo stesso articolo primo della Costituzione italiana,
quello che nessuno si sognerebbe di toccare, rivela, a ben
vedere, le ferite subite dalla storia: il lavoro si è infatti
andato trasformando in qualche cosa sulla quale riuscirebbe
impossibile fondare oggi una Repubblica. Ha cessato di essere, per
dirla in estrema sintesi, una chiara soggettività politica
rappresentabile nello Stato.
Riconfigurazioni
istituzionali
Da questo angolo visuale
la crisi della rappresentanza appare sotto tutt’altra luce. Non
come tradimento dei rappresentanti arroccati nella cittadella della
«casta», o asserviti agli interessi dell’oligarchia, ma come
crisi dei rappresentati stessi, come trasformazione delle loro vite,
delle loro aspirazioni e delle loro attività in qualcosa che
non trova più il modo di incidere e pesare, né direttamente né
indirettamente, sulla produzione di norme e sulla decisione
politica.
Se i sindacati hanno
lasciato cadere fuori dalla propria sfera di pensiero e di
azione una fetta sempre più imponente di società, se i partiti
si sono trasformati in compagnie di ventura e uffici di
collocamento, questo non è l’effetto ma la premessa delle
riforme che stanno riconfigurando la geografia istituzionale
italiana. Se non si prende atto di questo sostrato la marcia
trionfale dell’«esecutivo» appare come qualcosa di
sostanzialmente abusivo, deviante, e dunque fragile.
La lettura tutta
politico-istituzionale di questi processi sfocia inevitabilmente in
una risposta politico-istituzionale. E cioè nell’idea che la
parte migliore della rappresentanza, cresciuta consapevolmente nella
crisi della medesima, torni a rappresentare attraverso una nuova
forza politica parlamentare e in prospettiva popolare, gli
sfruttati, gli svantaggiati e i cittadini defraudati degli
strumenti della democrazia. Laddove il discorso e il programma
anticipano le lotte quando non ne prendono direttamente il posto.
Una lettura focalizzata
sulle metamorfosi del lavoro e sui rapporti di classe che ne
conseguono sfocerebbe invece in quella idea di «coalizione sociale»
che nel reciproco riconoscimento delle diverse soggettività
investite dalla crisi e dalla sua governance liberista (nonché
dalla percezione dei loro limiti) troverebbe la sua immediata
politicità. Ma poiché di quest’ultima non è pronta a farsi
pienamente carico si arresta sulla soglia della sua stessa esistenza.
Pur ben fondata sul piano
dell’analisi resta incapace di continuità organizzativa e di
esercitare forza politica . Troppo «in alto» gli uni, troppo «in
basso» gli altri nella riproduzione perdente di quella distinzione
tra sfera sociale e sindacale e sfera politica del tutto
inadeguata a contrastare la poderosa fusione tra mercato
e potere. Solo un rimescolamento generale imposto da una
crescita fuori misura della pressione sociale sui livelli
amministrativi e di governo potrebbe forse superare questo
scarto. In Europa se ne vedono le tracce, in Italia assai meno.
Il Manifesto – 11
novembre 2015
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