Rabbia poetica. Nota su Pier Paolo Pasolini
Pubblichiamo un estratto del saggio di Georges Didi-Huberman apparso sul nuovo numero di “Carte Semiotiche. Rivista Internazionale di Semiotica e Teoria dell’Immagine” (La Casa Usher), dedicato a “Anacronie. La temporalità plurale delle immagini” e curato da Angela Mengoni.
Ne La Rabbia, il suo mirabile documentario di montaggio realizzato nel 1962-1963, Pier Paolo Pasolini ha voluto sviluppare, quasi come culmine delle sue prese di posizione sulla situazione politica del mondo contemporaneo, una profonda riflessione sulla bellezza: la bellezza messa a confronto con la ricchezza (perché la borghesia ha bisogno di “appropriarsi” della bellezza?), la bellezza messa a confronto con la morte o, anche, la bellezza come “male mortale” (nel lungo brano elegìaco sulla morte di Marylin Monroe, scandito dai versi di una poesia appositamente composta da Pasolini e letta dalla magnifica e dolce voce in poesia di Giorgio Bassani)[1].
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È qui che, in una delle ultime sequenze del film – intitolata Sequenza della disgrazia in miniera [2] – la gente del popolo, i minatori, riemergono dal fondo del film, come se risalissero dalle profondità della loro miniera. È qui che affiora l’altra bellezza, la bellezza stranamente bella di portare quel proprio altro che è il dolore più antico. Ventitré minatori sono estratti dal fondo della miniera, i loro cadaveri portati dai compagni e pianti dalle loro spose o madri. È questo che si vede anzitutto, come esatto contrappunto alle vite «cariche di gioielli» dei borghesi all’opera, o alla morte della stessa Marylin sotto forma di «polvere d’oro». Qui si vedono delle donne in grigio, in nero, delle donne che si dibattono nel lutto, che piangono, tacciono con dignità o lanciano i propri gesti di collera contro le autorità capaci solo di “gestire l’incidente”.
Pasolini compone qui, in «voce di poesia», qualcosa come un thrènos, un umile canto funebre per questo popolo colto dal colpo del grisou:
E la classe degli scialli neri di lana,
dei grembiuli neri da poche lire,
dei fazzoletti che avvolgono
le facce bianche delle sorelle,
la classe degli urli antichi,
delle attese cristiane,
dei silenzi fratelli del fango
e del grigiore dei giorni del pianto,
la classe che dà supremo valore
alle sue povere mille lire,
e, su questo, fonda una vita
appena capace di illuminare
la fatalità del morire[3].
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.Ma perché Pasolini ha avuto bisogno di comporre, in versi poetici, questo canto funebre in cui l’evocazione del passato – con i suoi «urli» giunti direttamente dall’antichità pagana e i suoi «pianti» consacrati dall’intera tradizione cristiana – sembra quasi relegare in secondo piano l’analisi storica e la presa di posizione politica? Come potrebbe quest’ultima parola conferita alla «fatalità del morire» servirci da arma polemica e da strumento emancipatore per il presente? Ecco, tuttavia, nonostante i sospetti e le avversioni – che siano opera di “tradizionalisti” irritati che si potessero scrivere, come Pasolini ha esplicitamente tentato, delle «poesie marxiste» o di “avanguardisti” costernati dal suo ricorso alle forme più antiche di scrittura poetica –, ecco, tuttavia, ciò che Pasolini ha voluto assumere frontalmente in questa esperienza di scrittura politico-poetica. Non c’è forse, nelle Poesie marxiste del 1964-1965, una piccola raccolta di epigrammi (questa forma antica di poesia funebre che Bertolt Brecht aveva già ripreso, da parte sua, nell’ABC della guerra) come anche un lungo testo intitolato “Poesia in forma di polemica”?[4] Una delle più belle poesie mai scritte, forse, da Pasolini, non ha forse avuto per tema una manifestazione politica[5]?
Quando, nel 1968, Pasolini volle riassumere per lo storico Jon Halliday il proposito inerente al film La Rabbia, non esitò dinanzi al paradosso che consisteva, disse, nello scrivere «in versi» la sua «denuncia marxista della società del tempo»: «Scrissi questi testi poetici espressamente [per il film] e li lessero Giorgio Bassani – che doppiò Orson Welles ne La ricotta – e il pittore Renato Guttuso»[6]. Due anni prima e in un contesto tutto italiano – un’intervista con Giorgio Bocca pubblicata ne Il Giorno del 19 luglio 1966 –, a Pasolini era stato intimato di spiegarsi con gli “avanguardisti” di sinistra che gli rimproveravano la sua poesia arrabbiata come attitudine neoromantica, inefficace rispetto alla politica rivoluzionaria necessaria nel contesto delle lotte sociali di quel periodo. Il giornalista apriva l’intervista descrivendo così il suo interlocutore: «Già, il vecchio Pasolini Pier Paolo, cinquanta chili di una rabbia che è solitudine, amore, timidezza, incontinenza, paura, genio. Cinquanta chili di uomo»[7]. Dopodiché poteva porre la sua domanda principale: «Volevo chiederle, seriamente, qual è la differenza fra arrabbiato e rivoluzionario»[8]. Reazione fisica di Pasolini: «Si passa la mano sul viso e socchiude le palpebre come uno che soffra di un’emicrania permanente». Poi arriva una risposta, ma una risposta in due tempi. Dapprima, Pasolini ammette che il rivoluzionario vuole apportare un cambiamento al sistema politico esistente «sul piano del reale», mentre l’arrabbiato non cessa di scontrarsi con le sbarre di un sistema di cui può essere considerato il prigioniero. D’altra parte, il rivoluzionario vuol sostituire al sistema esistente un altro sistema del quale l’arrabbiato ha tutte le ragioni di credere che esso restaurerà ciò che Pasolini chiama allora il «moralismo e il perbenismo» di ogni sistema vigente, fosse anche sorto da un precedente sistema abolito. Il rivoluzionario (il cui tipo, agli occhi di Pasolini, è Lenin) sarebbe dunque in attesa di un nuovo conformismo, mentre l’arrabbiato (il cui tipo sarebbe piuttosto incarnato da Socrate) soffre di tutti i conformismi possibili, in tutti i possibili sistemi [9].
Ora, ciò non è senza conseguenze per il linguaggio stesso, per la lingua scelta per proferire la contestazione di tali sistemi vigenti. Si capisce meglio, allora, che Pasolini abbia raddoppiato la prosodia del suo commento, ne La Rabbia, tra una «voce di prosa» (piuttosto rivoluzionaria) e una «voce di poesia» (arrabbiata nella sua stessa dolcezza, nella sua dolorosa dolcezza). Ecco perché, secondo il poeta cineasta, ogni guerra deve essere condotta su due fronti («io conduco una guerra su due fronti»), a costo di esser maledetti dai “puri poeti”, da un lato, e dai “puri rivoluzionari” dall’altro [10]. E a coloro che gli rimproverano il suo atteggiamento – «è ridicolo arrabbiarsi in versi alessandrini» – Pasolini risponde che le forme del passato – le Pathosformeln o le Toposformeln dell’antichità pagana o del Medioevo cristiano – possono, al contrario, apparire come «una novità rispetto alle codificazioni più recenti» [11].
[…]
*
Pessimismo e dolore,
certo. Rassegnazione certamente no. Bisogna sempre fare i conti, in
Pasolini, con la doppia dimensione di ciò che egli chiama, in una famosa
poesia, la sua «disperata vitalità»[12]. Ora, il cinema non rappresenta
forse la forma stessa di questa inalienabile vitalità? Basterebbe
ricordare lo straordinario film filosofico La sequenza del fiore di carta in
cui la “vitalità” di Ninetto Davoli si addobba di un gran fiore rosso –
rosa o, piuttosto, finto papavero – la risposta, gioiosa e provvisoria,
disperata dunque, ai disordini del mondo che compaiono in
sovraimpressione al corpo danzante del giovane attore: poesia naïve,
senza dubbio, e del resto Ninetto, nel film, sarà messo a morte da
qualcosa come la trascendenza della storia. Ma il cinema avrà, almeno,
saputo trasformare la sterile rabbia del «demone della storia» in rabbia poetica, come fanno le sequenze sulla morte di Marylin e sulla disgrazia in miniera nel film La Rabbia..
Molte intuizioni, in Pasolini, sembrano regolate da una sorta di sillogismo implicito: se è vero, da una parte, che «la poesia è nella vita»[13] e che, dall’altra, il cinema è un’arte della quale la vita in movimento costituisce, con tutta evidenza, l’oggetto principale[14] – tema ricorrente della raccolta Empirismo eretico pubblicata nel 1972 – si potrà allora dire che esiste senz’altro una possibilità per questo cinema di poesia di cui La Rabbia offre, proprio nel suo carattere storico e documentario, un magnifico esempio. È significativo che Pasolini, tra la sua poesia “La rabbia” e il suo film La Rabbia, abbia potuto, in una certo modo, disperare della scrittura pur continuando, per abgioia o «disperata vitalità», ad immaginare qualcosa che sarà tanto poesia visuale, quanto poesia verbale. Nella prefazione alla sua raccolta di poesie pubblicata da Aldo Garzanti nel 1970, Pasolini avvertiva così il suo lettore:
Non è qui il caso di fare un’analisi sull’equivalenza del “sentimento poetico” suscitato da certe sequenze del mio cinema e di quello suscitato da certi passi dei miei volumi di versi. Il tentativo di definire una simile equivalenza non si è mai fatto, se non genericamente, richiamandosi ai contenuti. Tuttavia credo che non si possa negare che un certo modo di provare qualcosa si ripete identico di fronte ad alcuni miei versi e ad alcune mie inquadrature[15].[…]
Ecco perché esiste un cinema di poesia di cui Pasolini, nel 1965, ha tentato qualcosa come un manifesto nel testo posto in apertura della sezione “Cinema” in Empirismo eretico[16]. Cos’è il cinema, in primo luogo, se non un campo, un veicolo, un medium di «immagini significanti» per le quali Pasolini oserà – del tutto provvisoriamente, com’è ovvio – il neologismo «im-segni»[17]? Ma in che senso si può dire di queste immagini che esse sono “significanti”, se non per ribadire, da una parte, che esse possono, attraverso il trucco del montaggio, comporsi al modo di parole in una frase e, d’altra parte, che ci toccano direttamente, ci interessano, ci riguardano?
Ed ecco che le immagini si costituiscono, anch’esse, come «modo di provare qualcosa». Ecco che esse toccano i nostri giudizi intellegibili (ordine della prova [ordre de la preuve]) e, al contempo, le nostre emozioni sensibili (ordine del provare [ordre de l’épreuve]). Ecco perché esse possiedono il doppio carattere di presentarsi al tempo stesso come documenti del reale (poiché il cinema, secondo Pasolini, resta un’arte fondamentalmente realista, ancorata ad una tecnica di registrazione, cosicché anche un film surrealista come Un chien andalou, evocato in quel testo, potrà essere considerato come documentazione perfettamente “realista” quanto alla forma delle natiche dell’attrice Simone Mareuil, del rasoio o delle biciclette nel 1928…) e come invenzione della psiche (poiché il cinema, per quanto sia documentario, fabbrica senza posa associazioni di immagini che sfuggono all’ambito limitato dell’inferenza razionale e forniscono materia ai nostri sogni più nascosti). Ciò spiega, dirà Pasolini, la profonda «qualità onirica» del cinema, come anche la sua natura, per così dire, oggettuale, assolutamente e necessariamente concreta, la sua «concretezza»[18].
Ora, esiste una sorta di articolazione dialettica o di operazione di conversione esemplare tra queste due dimensioni del cinema – reale e psicologica, concreta e onirica – menzionata da Pasolini: si tratta dei gesti o «segni mimici» che la macchina da presa, filmando gli esseri in movimento, arriva a captare per tramutarli in qualcosa che si dovrà ben chiamare, infine, un «patrimonio comune»[19]. Come negare che gran parte del cinema di Pasolini si sforzi di restituirci la poesia dei gesti di tutti coloro che filma, con la più grande attenzione e tenerezza, che si tratti delle farandole esuberanti di Ninetto nella Sequenza del fiore di carta o della danza minimalista della piccola Salomè nel Vangelo secondo Matteo? Anche La Rabbia, non presta forse un’attenzione cruciale ai gesti umani isolati – dal montaggio – in tutta la loro potenza di espressione? Ma, dunque, perché questo privilegio estetico e, anche, antropologico accordato ai gesti, privilegio che si trova, prima di Pasolini, nella nozione di Pathosformel di Aby Warburg[20] come anche, dopo di lui, nell’idea cara a Giorgio Agamben per cui «poiché ha il suo centro nel gesto […], il cinema appartiene essenzialmente all’ordine dell’etica e della politica (e non semplicemente a quello dell’estetica)»[21].
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[…]
*
Il «cinema di poesia» intenderebbe dunque produrre ciò che Walter Benjamin ha altrove chiamato immagini dialettiche:
esso ha, in effetti, dice Pasolini, la caratteristica di «produrre film
dalla doppia natura». Da un lato vediamo, il più delle volte, un film
che “si svolge”, cioè che si sviluppa, che racconta esplicitamente una
“storia”. Ma, «sotto tale film, scorre l’altro film» che, dal canto suo,
si presenta poeticamente nella misura in cui riesce a far passare la
sua natura «totalmente e liberamente di carattere
espressivo-espressionistico».[…]
I canti funebri proferiti ne La Rabbia prima dalla “voce poetica” a proposito di Marylin Monroe, poi dalle mogli dei minatori morti, questi poemi in versi, appaiono qui in tutta la loro necessità – sul piano estetico, come sul piano etico, politico e antropologico. Si tratta, dice allora Pasolini, di «una questione di ritmo temporale» poiché esso è costituito – ricostituito e reinventato, smontato e rimontato – nell’operazione di montaggio, quando essa non si accontenta di srotolare un abituale filo narrativo, ma si sviluppa come autentica poesia o «favola»[22].
È allora che Pasolini, in altri testi della stessa raccolta – tutti scritti nel 1967 – svilupperà il potente motivo di un «cinema di poesia» che sarebbe, fondamentalmente, un cinema di sopravvivenza [cinéma de survivance]: un cinema dell’energia vitale confrontata direttamente alla scomparsa delle cose e degli esseri.
[…]
Il cinema sarebbe dunque sopravvivenza – «il cinema in pratica è come una vita dopo la morte»[23],
scrive Pasolini citando quasi alla lettera delle formule celebri che,
dall’antichità al Rinascimento, hanno riguardato la pittura – nella
misura in cui esso si fa poesia, ossia un certo modo di praticare il montaggio
come un’arte delle rime, dei conflitti e delle attrazioni ritmicamente
declinate. Come arte del pensiero che si situerebbe al di là di ogni
dottrina, un’arte della politica che si situerebbe al di là di ogni
parola d’ordine, un’arte della storia che si situerebbe al di là di
ogni stretta cronologia. Si vedono, nelle stesse pagine, le parole
«vita», «morte», «storia» e «poesia» volteggiare letteralmente intorno
alla parola «montaggio»… a condizione, precisa Pasolini nella sua
diffidenza verso “l’arte per l’arte”, che la poesia resti ostinatamente e
intimamente articolata alla «realtà stessa» in quanto poetica («la
realtà stessa è poetica») [24].
Ecco forse perché esistono dei film documentari – come La Rabbia – che sono più poetici e politici di qualunque tentativo che creda di reinventare il mondo a partire da niente.
[Traduzione dal francese di Angela Mengoni]
[2] P. P. Pasolini, Tutte le opere. Per il cinema, I, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori 2001, p. 401.
[3] Ivi.
[4] P. P. Pasolini, Tutte le opere. Tutte le poesie, II, a cura e con uno scritto di W. Siti, Milano, Mondadori, 2003, pp. 960-962, 975-977.
[5] P. P. Pasolini, “Comizio” (1954), in Tutte le opere. Tutte le poesie, I, a cura e con uno scritto di W. Siti, Milano, Mondadori 2003, pp. 795-799.
[6] “Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday” (1968-1971), tr. it. di C. Salmaggi, ora in: P. P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori 1999, pp. 1283-1400; la citazione è a pagina 1327. Versione ampliata rispetto all’edizione originale: Pasolini on Pasolini, ed. O. Stack [pseudonimo di J. Halliday], Thames and Hudson, London-New York 1969.
[7] P. P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 1591.
[8] Ibidem, p. 1592.
[9] Ibidem, p. 1592-1593.
[10] Ibidem, p. 1595.
[11] Ibidem, p. 1594.
[12] “Una disperata vitalità” (1964), ora in: P. P. Pasolini Tutte le opere. Tutte le poesie, I, op. cit., pp. 1182-1209.
[13] P. P. Pasolini, “La poésie est dans la vie (entretien avec Achille Millo)” (1967), in “Europe”, n. 947, 2008, pp. 110-118.
[14] “La lingua scritta della realtà” (1966) ora in: P.P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull’arte, I, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori 1999, pp. 1503-1540.
[15] “Al lettore nuovo” (1970), ora in: P.P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull’arte, II, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori 1999, p. 2511.
[16] “Il ‘cinema di poesia’” (1965), ora in: P.P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull’arte, I, op. cit., pp. 1461-1488.
[17] P.P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull’arte, I, op. cit., p. 1463.
[18] Ibidem, pp. 1463-1464.
[19] Ibidem, p. 1461.
[20] Cfr. G. Didi-Huberman, L’image survivante. Histoire de l’art et temps de fantômes selon Aby Warburg, Paris, Minuit 2002, pp. 115-270; tr. it. L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Torino, Bollati Boringhieri 2006.
[21] G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino, Bollati Boringhieri 1996, p. 50.
[22] P. P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull’arte, I, op. cit., p. 1483.
[23] Ibidem, p. 1577.
[24] Ibidem, pp. 1579-1581.
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