Nel 2014 ricorre il centenario della pubblicazione di Pianissimo, l’opera principale di Camillo Sbarbaro e uno dei libri più importanti della poesia italiana del primo Novecento
Cento anni di Pianissimo. La modernità di Sbarbaro.
di Claudia Crocco
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio. ………………………….Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata. ……………………Noi non ci stupiremmo
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato… …………..Invece camminiamo.
Camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioja e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto. ………….Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio. ………………………….Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata. ……………………Noi non ci stupiremmo
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato… …………..Invece camminiamo.
Camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioja e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto. ………….Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
1. Taci, anima stanca di godere viene pubblicata per la prima volta nel marzo del 1913 su “La Riviera Ligure” col titolo Pausa. L’anno successivo diventa il testo incipitario di Pianissimo
(Firenze, Edizioni de “La Voce”), il secondo e il più importante libro
di poesie di Camillo Sbarbaro (1888-1967). Si compone di ventisei versi:
sedici sono endecasillabi tradizionali (ad esempio, il verso 4), altri
sono settenari (v. 18); ma sono presenti anche versi più brevi e non
canonici, fino al trisillabo (v. 14). Gli endecasillabi sembrano
sottotono: a volte sono scanditi soltanto da tre o addirittura da due
accenti (vv. 5, 10), mentre la lirica di tono alto e tragico (ad esempio
quella di Leopardi, che pure è per Sbarbaro punto di riferimento
costante, come vedremo) è connotata da una accentazione più fitta. Nel
lessico si notano parole polisillabiche, ad esempio le sdrucciole a fine
verso («miserabile», «sonnambuli»); sempre in uscita troviamo alcuni
vocaboli deboli («come», «quello»). L’altro elemento con cui il verso
viene umiliato è la sintassi, che in Pianissimo è spesso ipotattica e ricca di enjambements. Se rileggiamo i versi 9-10, 12-13, 17-19, ad esempio, notiamo che le spezzature hanno un ruolo strutturante all’interno di Taci, anima stanca di godere.
Anche l’assenza di rime indica una reazione alla lirica tradizionale.
Dal punto di vista retorico, si nota solo l’uso dell’anadiplosi («Invece
camminiamo. / Camminiamo io e te come sonnambuli», vv. 15-16; «deserto.
/ Nel deserto», vv. 24-25), della geminatio («la sirena del mondo, e il
mondo è un grande», v. 23) e della tautologia («E gli alberi son
alberi, le case / sono case, le donne/ che passano son donne, e tutto è
quelllo / che è, soltanto quel che è», vv. 17-20).
2. Queste poche note sullo stile del
testo sono sufficienti a metterne in rilievo un aspetto importante: i
versi seguono il movimento del pensiero di chi parla, più che le regole
della metrica tradizionale, alla quale pure alludono. Il modello di
questa forma di scrittura è senz’altro Leopardi. L’incipit in cui l’io
si rivolge alla propria anima, d’altronde, guarda in modo palese a A se stesso,
con il quale coincide anche il contenuto della riflessione di Sbarbaro.
Lo stato d’animo di chi parla è di «rassegnazione disperata» (v.10); il
mondo circostante è un deserto («[…] Amaro e noia/ la vita, altro mai
nulla; e fango è il mondo» si legge in A se stesso). Chi prende
la parola lo fa per osservare la mancanza di senso di ciò che lo
circonda: le cose rivelano solo se stesse, non preannunciano altro. La
tautologia segna la fine del mito simbolista delle corrispondances;
questi versi testimoniano «la perdita d’aura della realtà, e la perdita
d’aureola del poeta; ormai cosa fra le cose, l’io non gode di uno
statuto ontologicamente e gnoseologicamente privilegiato» (Pellini).
Pianissimo si apre con la
focalizzazione dello sguardo sull’interiorità del poeta. Eppure questa
poesia non può essere considerato metafora di avvio di un canzoniere
inteso come diario intimo. Dalla tradizione lirica Sbarbaro riprende la
forma esteriore: il dialogo con la propria anima o (per sineddoche) con
il proprio cuore ha origini illustri, soprattutto in un contesto
spaziale di isolamento (Petrarca, Leopardi). Ma non è questo il senso
dell’autoscopia preannunciata da Taci, anima stanca di godere.
Uno degli elementi di modernità è la presenza di un io inserito in un
ambiente tipicamente novecentesco, uno spazio urbano; qui si aggira
oscillando fra partecipazione disforica (come nelle poesie Esco dalla lussuria; Talor, mentre cammino per la strada; Nel mio povero sangue qualche volta…)
ed esclusione dal flusso vitale («La vicenda di gioja e di dolore / non
ci tocca»). In quegli stessi anni le città moderne vengono
rappresentate con esperimenti avanguardisti dai futuristi italiani, e
anche da Palazzeschi. Sbarbaro trasmette la vertigine e la sensazione di
solitudine della vita urbana in modo molto diverso, più simile a quanto
fanno i contemporanei Campana e Gozzano. Ci riesce grazie alla presenza
di un altro modello, oltre a quello di Leopardi: la poesia di
Baudelaire.
Taci, anima stanca di godere inaugura,
di fatto, una genealogia di testi novecenteschi che descrivono la
realtà moderna evidenziandone gli aspetti di insignificanza e
ripetizione – si pensi a Montale e a Sereni – e lo fa con uno stile e
un’idea di poesia per i quali si rivela molto utile la categoria di
modernismo. Come ricorda Luperini (ad esempio qui e qui),
gli autori modernisti non partecipano a performance di gruppo, non
scrivono manifesti né articoli programmatici provocatori, non creano
movimenti; non identificano la propria esistenza con il gesto
letterario, e talvolta nella vita fanno tutt’altro. È il caso di Svevo, è
il caso di Gadda, è il caso di Sbarbaro. Questo è anche il primo motivo
per il quale non si può considerare Sbarbaro appartenente alla koiné
espressionista vociana, come pure è stato fatto. Del resto, ricorda
Montale poco dopo la sua morte, «Sbarbaro, uomo coltissimo, traduttore
formidabile, eccellente grecista sebbene non avesse proseguito gli studi
oltre il liceo, credeva fermamente che la vita fosse più importante
della letteratura». In questo senso il suo atteggiamento è un chiaro
rovesciamento di quello estetizzante dannunziano. La seconda ragione per
cui questa categoria non può essere applicata a Sbarbaro è di natura
stilistica: il concetto estetico di espressionismo presuppone una
deformazione della lingua che è del tutto estranea a ciò che vediamo in Pianissimo.
Se il modello dell’autobiografismo
empirico di invenzione romantica gradualmente, in un’epoca che va da
Leopardi all’età delle avanguardie, diventa ciò che identifica la poesia
moderna nel Novecento, questo si definisca soprattutto grazie ai poeti
modernisti. In particolare la poesia di Sbarbaro, facendo da anello di
congiunzione con Leopardi e grazie alla rielaborazione di Baudelaire, è
fondamentale perché la rappresentazione del disincanto dal mondo ne
diventi elemento caratterizzante.
3. Ritorniamo al testo di partenza. Oltre a Leopardi, nei primi versi di Pianissimo sono
evidenti altre due figure che esercitano una influenza su chi scrive:
D’Annunzio e, come anticipato, Baudelaire. Il primo è attraversato per
contrasto, con il rovesciamento di un testo famoso: in Maia si
legge «Nessuna cosa / mi fu aliena; […] Laudata sii, Diversità / delle
creature, sirena / del mondo! […] / però io son colui che t’ama / o
Diversità, sirena / del mondo, io son colui che t’ama»; in Pianissimo «[…]
Perduta ha la sua voce / la sirena del mondo». Il silenzio delle sirene
è un topos di molta letteratura modernista, da Kafka a T.S. Eliot.
Tuttavia senz’altro, per formazione culturale, Sbarbaro doveva avere in
mente l’esempio ben più tradizionale (e opposto, per significato) del Laus Vitae
dannunziano. Superare D’Annunzio, Pascoli e Carducci è il passo che
permette di definire, già nella mente degli storiografi dell’epoca, ciò
che ancora oggi consideriamo poesia contemporanea. Nel caso di Pianissimo, i luoghi in cui questo avviene sono ripetuti. Ma che idea della poesia propone Sbarbaro, all’opposto di quella del Laus vitae?
Per definirla, bisogna considerare
l’ultima citazione contenuta in questi versi. Il secondo autore molto
importante per Sbarbaro, dicevamo, è Baudelaire: «Que diras-tu ce soir,
pauvre ame solitaire, / que diras-tu, mon coeur, coeur autrefois
flétri»; «Résigne-toi, mon coeur, dors ton sommeil de brute. // Esprit
vaincu, fourbu! […] /Le printemps adorable a perdu son odeur!». Le
riprese puntuali dai Fleurs de mal costellano tutto il libro.
Sbarbaro riprende l’immagine del poeta come viandante traverso la città
(«Talor, mentre cammino per la strada / della città tumultuosa solo»;
«Nel mio povero sangue qualche volta / fermentano gli oscuri desideri. /
Vado per la città solo la notte /[…] Rasento le miriadi degli esseri /
sigillati in sé stessi come tombe»; «Quando traverso la città la notte /
io vivo la mia vita più profonda! »), la descrizione della folla
anonima che la abita («Fronti calve di vecchi, inconsapevoli / occhi di
bimbi, facce consuete / di nati a faticare e a riprodurre, facce volpine
stupide beate»), le avventure erotiche con prostitute (Esco dalla lussuria). Queste situazioni sono comuni a molta altra poesia italiana del primo Novecento, dove già si è creato un repertorio di topoi tratti dai Fleurs de mal.
Sbarbaro rielabora un aspetto più importante: la poesia di Baudelaire
costituisce l’archetipo dell’idea che nella modernità il contatto
incantato con il mondo naturale sia perduto per sempre («Le printemps
adorable a perdu son odeur»). Come spiega Polato, introducendo
l’edizione commentata di Pianissimo, «la poesia non poteva che
darsi nell’orizzonte della negazione, di una crisi che la coinvolgeva
direttamente, sottraendole la dimensione eroico-tragica della sfida che
era stata di Leopardi, a causa della condizione borghese che appunto
Baudelaire aveva annunciato e mostrato colla perdita dell’aureola e che
Benjamin ha magistralmente descritto». Per questo, secondo Polato,
Leopardi e Baudelaire costituiscono la jonction dalla quale ha
origine la poesia di Sbarbaro. Partendo da una analisi prettamente
linguistica, anche per Zublena «per dirla con una boutade, Sbarbaro è
l’incontro tra un Leopardi di città e un Baudelaire di provincia».
4. In alcune poesie Sbarbaro imita da
vicino Baudelaire, e cerca di ricostruire la «fourmillante cité» vissuta
con lo spettro della lussuria: c’è persino un testo in cui viene
evocata una passante sconosciuta (Io che come un sonnambulo cammino), che riprende in modo quasi pedissequo il celebre A une passante.
Tuttavia, scriveva Fortini, in realtà le poesie più autentiche e
riuscite di Sbarbaro sono quelle dedicate alla morte del padre: queste
ultime «vivono nello sforzo stilistico di comprimere con l’angoscia di
una rappresentazione dimessa un’energia, un’enfasi e un pathos persino aggressivi». Forse è vero; ma forse, invece, la parte più interessante di Pianissimo è
ancora un’altra. Sbarbaro recupera ciò che di più originale ha prodotto
la versificazione ottocentesca in Italia, cioè la poesia che si pone
domande sul senso del mondo e sul nulla eterno, a partire da un io
collocato nello spazio e nel tempo, e con endecasillabi sciolti
(Leopardi). Quindi crea un cortocircuito con la rappresentazione del
poeta che porta su di sé il senso di perdita dell’esperienza e di fine
di una possibilità, quella dell’io propriamente romantico – e questo è
Baudelaire. Il risultato è uno dei primi esempi italiani di
autobiografia psicologica in senso moderno: in Taci, anima stanca di godere il
lessico ha punte di pathos, ma non è usato per descrivere emozioni
intime o per nobilitare il colloquio con la propria anima, che si
conclude con una visione quasi pietrificata. Quando descrive se stesso
giacere accanto a una prostituta, più che esaltare la componente fisica o
di perdizione interiore, Sbarbaro scrive di sentirsi cadavere accanto a
cadavere (Magra dagli occhi lustri). Persino il sesso, dunque,
è solo una conferma dello straniamento dal mondo. A conclusioni simili,
negli stessi anni, arrivano alcuni testi di Gozzano e di Campana. Anche
questi sono modi di mettere in discussione lo statuto del soggetto
lirico romantico.
C’è poi un altro elemento di modernità.
Sbarbaro escogita un modo di descrivere la vita interiore diverso sia
dal classicismo modernista e dall’oggettualismo di Montale, sia dalla
pronuncia interiore ed esplosiva di Ungaretti, sia dal classicismo
paradossale di Saba: l’io parla di sé mimando un irraggiungibile sguardo
esterno, straniato dal proprio corpo, che lo porta a rivelare
un’interiorità sempre alienata. Il risultato è una via di uscita dalla
rappresentazione tradizionale e romantica dell’io lirico più in ombra
rispetto ai modelli forniti dal modernismo europeo di Eliot e Pound. A
questi ultimi guarderanno i molti poeti italiani che, da circa un
secolo, tentano di scrivere versi mettendo a tacere la prima persona; e
per farlo ricorrono al poema narrativo, a figure diverse dell’io, oppure
si affidano alla decostruzione violenta del linguaggio. Lo stesso
Montale, quando recensisce la prima opera di poesia in prosa di
Sbarbaro, Trucioli, parla di «un singhiozzo a stento frenato», e
sembra criticarne proprio la mancanza di mediazione fra verso e
soggettività profonda dell’autore. Montale, d’altronde, negli anni Venti
sta già percorrendo altre strade.
Secondo una lettura recente di Andrea
Lombardi, il passaggio di Sbarbaro alla prosa («la mia terraferma»)
avviene come conseguenza dell’impossibilità di dire io in poesia. Ciò
non toglie che le prose di Sbarbaro – come spesso è accaduto nell’ultimo
secolo – siano a volte intensamente liriche, tutt’altro che il
risultato di una fuga dal discorso poetico. Ma il discorso su Trucioli
e sulla poesia in prosa merita di essere affrontato altrove. Intanto
Sbarbaro ci ha già consegnato un’opera in cui la poesia è scavo
psicologico, sguardo straniato su di sé, e rivelazione del nulla. Sono
passati cento anni dalla pubblicazione di Pianissimo. Questo
modo di rappresentare la vita psichica è forse meno fecondo del monologo
autocitato o del dialogo fra parti dell’io, ma si rivelerà altrettanto
importante nel Novecento.
Testo tratto da: http://www.leparoleelecose.it/
Nessun commento:
Posta un commento