Riprendo dal sito http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/ la Prefazione dell'amico Antonino Contiliano al libro di poesie di Gianmario Lucini.
VILIPENDIO
di Antonino Contiliano
Se “Vilipendio”, l’ultima fatica poetica di Gianmario Lucini, – come lui stesso si affretta ad anticipare (Nota dell’autore),
– non «è un libro di poesie “civili”», in quanto «epica della
coscienza, dei suoi conflitti e dei sentimenti che li agitano»,
piuttosto che il sentire individuale dei singoli “cives” e insieme delle
contraddizioni paradossali e/o aporetiche che ne attanagliano stile di
vita e destino solo personali, è anche vero che questa raccolta di nuovi
testi poetici ha una dimensione etico-politica pubblica di indubbia e
rilevante rivelazione “estetica”. Rilevante, la funzione estetica, in
quanto rivela simultaneamente un’incidenza etico-politica di pubblico e
comune interesse. L’aisthesis poetica di questo lavoro, infatti,
avvia a una lettura e un’interpretazione che non è solo
artistico-poetica, o riconducibile alla sola autonomia linguistica
autoreferenziale. Anzi, si potrebbe dire che la percezione
artistico-poetica di questi testi de il “Vilipendio” risalta per un
rovesciamento tipico di quel che viene suggerito nei dis-corsi dei versi
del ductus subtilis. La strategia che propone come tema
dell’idea l’inverso di quello che si vuole dimostrare per testimoniarne
l’insostenibilità. Il vilipendio – scrive infatti il poeta Lucini (Nota dell’autore,
p. 8) – è solo una provocazione: «una dichiarazione di ostilità intesa
come sommo atto d’amore». È il disprezzo (vilipendio) che si rovescia
nel suo contrario: la scelta dell’innocenza e dell’amore
trascendenti/trascendetali come bene – «Lasciami settembre dalla tiepida
aria / rammentare le nostre sventure / nella carezza del sole che
deterge lo sgomento / per ciò che siamo e che potremmo essere. Il cuore
// … Insegnami, settembre, l’arte di obbedire / alla benedetta collera
del cuore //… pronta a scattare / non appena l’uomo dimentico della
morte / la vada a cercare. Questo è il dovere /del poeta capace di
amare» (Congedo, p. 75).
Il vero nemico è allora il “Male” che, “dimentico della morte”, fantasmizza il “Bene” e lo vanisce con il potere assoluto del dominio politico (la politica che ha perso il politikos
– il sapere della vita in comune – nell’impolitico del potere come
coercezione legittima e, al tempo stesso, gratuità della violenza che
nega l’amore. La crudeltà esercitata fino alla morte gratuita dello
stesso innocente/incolpevole. La malvagità di Auschiwtz che si
esistenzia nel “far male” fino ad abbracciare toto corde la morte
per sterminio di chi crede attenti, pur incolpevole, alla propria
potenza di vivere come diritto in esclusiva. Il diritto di chi –
«imponendo una volontà dominante e muscolare o (come in Palestina) una
condizione esistenziale umiliante e insopportabile» (Nota dell’autore, p. 8) – chiama tutto questo pace e identifica guerra e pace: si vis pacem para bellum”. Invece «Il principio vero, il cambiamento insomma, consiste nel si vis pacem este innocens, este mansuetus. Saranno i miti a possedere la terra, non gli eserciti. Non sono i potenti a garantire la pace, ma gli innocenti» (Ibidem).
Così, nel nostro poeta, piuttosto che
ingiurie e disprezzo, la collera del cuore genera l’amore per le
vittime (ingiustamente sacrificate/li) e lo porge come il dovere
del poeta. È l’occhio del poeta che vede l’oltre degli odii di parte. Il
poeta che si fa portavoce e testimone di una “innocenza” primordiale
come valore comune e ordine universale. Un combinato come un solo
criterio di giudizio. Univoco!
Il poeta non se ne sta in disparte. È
, come nel “teatro epico” di B. Brecht, “una coscienza epica”, ovvero
un estraneamento critico che induce il lettore/spettatore a prendere le
distanze da un simile modello biocida. Giudica e agisce come un uomo di
parte che si affida all’azione della parol-azione. La parte
in azione che, come gli “ammazzati” e oppressi e i destinati allo
sterminio, è egualmente l’infinità dell’innocenza (postulato
fondamentale del poeta G. Lucini, e “intercessore” in altri libri di
poesia, come ne Il canto dei bambini perduti (2013), costruito
sulle chine del pittore siciliano Giacomo Cuttone) e dell’amore
universale e progressivo; cosa che l’umanesimo occidentale, in preda
alla democrazia cazzuta e dei muscoli, ha messo da parte in nome e per
conto di: mors tua, vita mea.
«Sono
la scimmia europea che pena / e sbrana unghiando la neve / quando la
furia dissacra ogni scampolo di cielo / deflagra in ogni brandello di
muro // a scimmia del rantolo e della vergogna / che si umilia e risorge
/ schiumando disgusto e croci di ferro. // Umanismo e cultura / pietà
per puttane e ragazzini / nel torpore del giudizio / a proteggermi dal
gelo del gennaio / e di spiagge italiane il ricordo. // La morte precede
e io sto al passo. // Mi sveglierò al tepore del sonno / in un coro di
angeli di ghiaccio / e infine saprò come si vive / l’ultimo istante
felice / prima dei cori del vento / e dei silenzi». (Stalingrad, p. 60).
In questo particolare momento storico
del nostro tempo, – quello in cui per la propria sopravvivenza ognuno
(singolo o popolo) esercita violenza e morte (male) nei confronti
dell’altro (fratello o straniero) –, per essere fruite “esteticamente”,
queste poesie di Lucini obbligano il lettore (quei 4 o 5, scrive il
poeta) a non ignorare l’altra e diversa funzione non estetica: dissenso,
resistenza, ribellione, conflitto. Perché «il testo, per essere fruito
esteticamente, deve avere obbligatoriamente una funzione non solo
estetica» (Jurij M. Lotman). È la funzione est-etico-politica che invita
a riflettere sui nodi del bene e del male e a giudicare, come fa la
stessa filosofia contemporanea che ne riprende la questione
teorica e pratica (sia lo Stato o i singoli, associati o meno, il
soggetto). Del resto, il nostro autore (in nota), non dimentica di
ricordare la vicinanza di verità tra filosofia e poesia.
La vicinanza che li rapporta nell’aisthesis del corpo sia singolo sia collettivo che rifiuta il male (la violenza, la paura e il terrore delle sopraffazioni del “potere”) e opta per la scelta del bene,
il comune del cuore e dell’amore nel senso più alto del senso. Una
ragione (e non solo del cuore…, Pascal) che non può mancare nelle poesie
come “spazio di senso” alternativo e, tecnicamente, veicolato
attraverso le diverse isotopie semantico-sonore e ritmiche che
qualificano poeticamente questi testi di Vilipendio.
E su questo versante della nostra
analisi, succinta quanto modesta, un lieve dissenso sulla dichiarazione
del nostro autore circa il linguaggio umile – come al solito ho
«usato un linguaggio umile, per farmi capire da tutti senza equivoci,
laddove scrivo che la guerra è un crimine e i soldati sono marionette» (Nota dell’autore, p.
7) –, se il linguaggio della poesia, pur impiegando un certo
vocabolario comune, è un’espressione tale che l’espresso non è nulla al
di fuori dell’espresione stessa che lo esprime, e gli aggregati
sensoriali (estetici) che sono campi semiotici che iconizzano concetti e
valori, e immagini che hanno bisogno di essere pensate come “idee”
prima di essere viste, appunto, come immagini da vedere («un brandello
di muro; una parola che si inarca come un arco»). Una costruzione dove
l’umile linguaggio non è certo umile nella sintassi e nello stile propri
del fare “creativo” della poesia moderna; di quella poesia che non
consente più, appunto, di gerarchizzare socialmente il linguaggio in alto, medio, umile, basso. Non è certo umile, ancora, la sintassi della parola “Kefiah” e “Kippah” dove il senso rimanda il lettore ad una sapienza metonimica, oppure all’enjambement
o di altri luoghi tipici (allitterazioni, assonanze…) della scrittura
poetica. Di fronte ai testi di “Kefiah” e “Kippah” il lettore deve
essere capace, se vuole gustare il testo poetico, di rendersi conto che,
nella guerra arabo-palestinese e israelina, non è certo in gioco una
sfilata di modelli autunno/inverno o primavera/estate. Kefiah e Kippah sono
sì rispettivamente il copricapo dei palestinisesi e quello degli ebrei,
ma non stanno a dirci della moda, bensì di un scontro biblico che
risale alla lotta Giacobbe/Israel (il Dio degli eserciti), una guerra
politica e territoriale di un popolo che non è più un popolo (il “popolo
che non c’è”, Paul Klee) e di un altro che ne soffoca la nascita e la
sovranità, perché considerate una minaccia e un male per la propria vita
e sopravvivenza.
Certo è allora che qui l’umile
linguaggio non è più tale ma sfida di pensiero – leggere tra le righe e
non più per semplice parola, o nozione, o termine – per decifrare la
sintassi e la semantica di «l’incespicare della lingua in brandelli di
muro /… / e per la collera non chiedo / non voglio perdono. // Non ho
altro che questa / sgangherata rivalsa della parola che si inarca / …» (Kefiah, p. 49). Analogo è il discorso per la parole in versi, fra l’altro corsivizzate, del testo poetico Kippah: «L’intimità
sventrata degli ultimi / l’intimità rivoltante dei poveri con le loro
camicie aperte / e le urla e i gesti sgangherati / la loro fame
oltraggiosa e il loro confuso / brulichìo di insetti incomprensibili / …
/ e quell’odore di cibo a buon mercato e animali e polvere // tutto
questo non è nostro / e dunque scaveremo un baratro / vi pianteremo un
muro.» (Kippah, p. 53).
Ma guai “alla collera dei vinti / al loro insano moto di rivolta” (ibidem,
p. 54), scrive il poeta Lucini. Una carsica sintonia, ci sembra,
d’amorosi sensi con «Carta d’identità» del poeta palestinese Mahumoud
Darwish: «Ricordate! / Sono un arabo / E la mia carta d’identità è la
numero cinquantamila / Ho otto bambini / … Ricordate! / Sono un arabo / …
/ impiegato con gli operai nella cava / Ho otto bambini / Dalle rocce /
Ricavo il pane, / I vestiti e I libri. / Non chiedo la carità alle
vostre porte / Né mi umilio ai gradini della vostra camera /… / Non odio
la gente / Né ho mai abusato di alcuno / ma se divento affamato / La
carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo. / Prestate attenzione! /
Prestate attenzione! / Alla mia collera / Ed alla mia fame!».
Lucini, infatti, congedando il suo
“Vilipendio”, nella poesia “Congedo” (già, avanti, citata), scrive:
«Insegnami, settembre, l’arte di obbedire / alla benedetta collera del
cuore / a tenerla sospesa in un angolo pronta a scattare / non appena
l’uomo dimentico della morte / la vada a cercare. Questo è il dovere
/del poeta capace di amare» (Congedo, p. 75). Il dovere del poeta
che sa della verità del far male del potere perché: «Non sono i potenti
a garantire la pace, ma gli innocenti» (Nota dell’autore, p. 8).
Sembra, e qui ci fa piacere notare l’assonanza, che la poesia di Vilipendio
(nella sua est-etica), nell’attuale fase governamentale dei dispositivi
automatici della civilizzazione global-mercantile-liberista, ovvero
della sopravvivenza dei “forti”, sia anche, in cammino sintonico (non
c’è spazio qui, naturalmente, per un discorso sulle differenze) con la
riflessione teorico-pratica sulla politica della biopolitica, e dentro i rapporti tra verità e potere politico. Un nodo che la studiosa Simona Forti ha affrontato ne I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere (2012), e sulla cui ipotesi si sono soffermate le letture di Enrico Donaggio (Un’ostinata volontà di vivere) e di Laura Bazzicalupo (Genealogia del Male ovvero il compito etico del pensiero,
in “Iride”, XXVII, n. 72, Maggio-Agosto 2014). Così, chiudendo questa
nostra nota, poiché ci sembra in sintonia con il pensiero poetico di
Lucini espresso in Vilipendio, ci congediamo anche noi riportando
un passo tratto dall’interpretazione di Laura Bazzicalupo: «Il soggetto
etico è quello fedele alla verità, quello che la testimonia,
smascherando il male. Se il bene è un fantasma del male, non restano che
il pensiero e la verità come luoghi dell’etica. Le pratiche del dissenso in nome della verità sono l’etica per la politica, in quanto denunciano la negatività nel regime vigente di verità sempre totalitario».
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