27 dicembre 2014

ATENE, ieri e oggi.


Atene: 180 anni di storia

Atene. La città è un’immensa colata di bianco. Nel cielo spazzato dalla tramontana che ha finalmente portato il freddo, scintillano infinite distese di scaldabagni solari, canne fumarie coperte da cappelli eolici metallizzati, complicati grovigli di antenne, immense parabole e milioni di motori per l’aria condizionata. Dalla collina di Filopappo, Atene è uno spettacolo che dà alla testa. Le catene montuose la rinchiudono come in un enorme catino punteggiato da picchi rocciosi e scoppiante di vita convulsa verso il mare del Faliro e del Pireo. L’Imetto a est, Pendeli a nord est, Parnitha a nord e infine Egaleo a ovest: non si esce dal contenitore che gli assestamenti geologici hanno distribuito attorno alla più antica città d’Europa. Tutto quel che si poteva costruire lo si è costruito. Il blu dell’Egeo che monta sulla città in festa per il centottantesimo compleanno da capitale, delinea la colata bianca sotto cui scorre incessante un sottofondo che sembra onde di mare e invece è il traffico inesorabile. Quasi cinque milioni di persone vivono in questa area urbana. Centottant’anni fa, erano quattromila.
Quando Ottone di Wittelsbach, figlio di Ludovico I di Bavaria, arrivò qui, tra i monti che contengono questo sublime catino attico c’erano solo campi e fiumi e un ammonticchiare di case orientaleggianti alle pendici dell’Acropoli. Si racconta che il diciassettenne designato dalle grandi potenze per regnare sulla Grecia da poco libera dopo quasi quattro secoli di dominazione ottomana, di fronte allo spettacolo che lo accoglieva, fu preso da un entusiasmo che l’età gli impedì di nascondere. Le malelingue sostennero che fosse l’incoscienza della giovinezza. I più attenti immaginarono invece che avesse subodorato le infinite possibilità di grandezza offerte da tanto vuoto. Ricostruire la grande Atene. Progettare quasi dal nulla, attorno alla roccia del Partenone, quella che era stata la culla della civiltà occidentale.
Oggi, a noi viene spontaneo pensarla in tutt’altro modo. “La storia non si fa con i se e con i ma”, diceva Benedetto Croce. Eppure è difficile resistere alla suprema tentazione antistorica di immaginare quella città antica e gloriosa ancora deserta. I due fiumi, l’Ilisso e l’Eridano, scorrevano tra campi dominati dai mandriani. Le arterie della città che aveva dominato culturalmente molto più a lungo dei decenni di primato politico e militare erano conservate sotto tonnellate di terra e prati. La via Panatenaica attraversava il Ceramico e saliva su fino ai Propilei dell’Acropoli. La via Sacra invece si allontanava in direzione Eleusi. Immense mura collegavano la città al Pireo, il porto dei commerci attraverso cui Atene aveva conosciuto il mondo, si era aperta a costumi diversi, fino a immaginare una forma di governo che avrebbe dominato culturalmente nei secoli fino a oggi, la democrazia. L’Atene antica, nel momento del massimo splendore, aveva ospitato più di 400.000 abitanti. Nel 1834, dopo l’impero bizantino, i saccheggi dei saraceni, l’occupazione della Quarta Crociata e i Turchi – i Turchi che dal 1453 al 1827 dominarono quasi incontrastati – Atene era svuotata e deserta. E se i sogni di gloria di Ottone non l’avessero riportata al centro, adesso la vecchia capitale Nafplio (per noi italiani Nauplia) sarebbe forse un’immensa colata di bianco e Atene invece un gioiello puramente archeologico.
Ma chi l’ha detto che Atene oggi non è un gioiello, fuori dalle rotte antiche? Ottone prese casa in una piccola palazzina che, unica, per i primi anni poteva accogliere un simulacro di casa reale. In piazza Klafthmonos, la prima residenza reale ospita oggi il Museo della Città, il modo migliore per introdurci nell’Atene neoclassica. Date pure un’occhiata alle stanze dove Ottone visse e nel 1837 accolse la donna che aveva preso come moglie, Amalia di Oldenburg. Ma quel che importa è nei piani regolatori che sono esposti al pianterreno. L’idea di città che due architetti, un greco e un tedesco (Stamatis Kleanthis e Eduard Schaubert), cominciarono a formulare, nelle sue molteplici varianti, girava attorno al triangolo che si sarebbe formato fra l’Acropoli, il Ceramico (l’antico cimitero) e il Palazzo Reale in costruzione. Fu a un bavarese come lui che Ottone affidò il compito: Friedrich von Gärtner completò il palazzo nel 1843 proprio quando il re fu costretto a concedere una costituzione ai cittadini insofferenti della forma di protettorato che s’incarnava in monarchia assoluta.
Dal 1929 il Palazzo ospita il Parlamento mentre la piazza continua a portare il nome di quella prima costituzione: Syndagma. Atene intanto cambiava a vista d’occhio. Nel 1837 era stato inaugurato il Politecnico e tre anni dopo Amalia aveva visto realizzarsi il sogno di un grande parco: oggi il Giardino Nazionale. Ma le più grandi opere sarebbero sorte nella seconda metà del secolo. Il capolavoro è la cosiddetta “Trilogia”. L’Università al centro, e ai due lati la Biblioteca nazionale e l’Accademia. Al danese Christian Hansen che progettò l’Università si unì il fratello Theophil che assieme al tedesco Ernst Ziller completò la trilogia. Theophil Hansen e Ziller sarebbero poi diventati gli artefici principali del volto della nuova Atene. In questi giorni, quasi duecento disegni di Theophil Hansen sono in mostra alla Theochrakis Foundation fot the Fine Arts (“Hellenic Renaissance: The architecture of Theophil Hansen”, fino al 18 gennaio), mentre tra le opere di Ziller sparse per la città è imperdibile il palazzo progettato per l’amico Heinrich Schliemann il geniale mercante/archeologo che scoprì Troia. Ribattezzato Iliou Melathron (Palazzo di Troia), ospita oggi il Museo Numismatico (Panepistimiou, 12).
A inizio Novecento, Atene era ormai la capitale che Ottone aveva sognato e su cui il successore, Giorgio, secondogenito di Cristiano IX di Danimarca, aveva continuato a investire. Passate le prime olimpiadi moderne (1896), con la grandeur del primo ventennio, la città arrivò a superare i 400.000 abitanti. Una magnifica mostra fotografica racconta questo epocale cambiamento metropolitano (“Le metamorfosi di Atene”, Galleria Herakleidon, Apostolou Pavlou angolo Iraklidon, fino al 31 gennaio). Sono gli anni in cui si comincia a non vedere più come un sogno la Megali Idea, ossia la Grande Idea di ricostituire una gloriosa Ellade fino a contenere Costantinopoli e Smirne e tutta l’Asia Minore così da ridare una patria ai greci che lì vivevano da millenni. La sorte del sogno espansionistico è nota e la racconta paradigmaticamente un’immagine: l’incendio e la distruzione di Smirne nel 1922. Sono centinaia di migliaia i greci in fuga dalle coste turche prima che con il Trattato di Losanna si assista a un vero e proprio scambio di popolazioni. Un milione e trecentomila è la cifra ufficiale dei greci accolti in un paese che contava in totale poco più di cinque milioni di abitanti. La maggior parte degli esuli sbarca nella capitale. Il Pireo diventa in pochi mesi un’affollata propaggine della metropoli. Attorno al centro di Atene, che da solo raddoppia i suoi abitanti sfiorando gli 800.000, sorgono quartieri che prendono il nome delle città perdute riconoscibili dal prefisso Nea. Il più famoso: Nea Smirni, Nuova Smirne.
Quel che segue – la guerra, l’occupazione nazista e la guerra civile – non è certo una parentesi, tuttavia il definitivo sconvolgimento demografico arriva tra i Sessanta e i Settanta. Dalle campagne alla città. Si costruiscono condomini e palazzoni ovunque. Si calpesta qualsiasi regola del buonsenso pur di inseguire il fantoccio dello sviluppo. Un’industrializzazione sgangherata inonda le campagne fra Atene e Eleusi. C’è un bellissimo film documentario di Phlippos Koutsaftis che racconta decenni di stravolgimento del territorio e delle tradizioni eleusine: La pietra che piange, curato da Lina Protopapa, è appena arrivato in Italia. Per Atene, una possibilità di resistenza è offerta da una legge che a fine anni Settanta finalmente impedisce che le palazzine neoclassiche vengano abbattute per far posto a palazzoni di enorme capienza e altrettanto enorme desolazione. Le antiche case vuote e decrepite con le loro antefisse decorative che chiunque oggi ammira passeggiando per la città sono ciò che resta di una legge che ha impedito l’abbattimento ma non ha favorito i restauri. Del resto, sappiamo tutti quale sia stato invece l’ultimo sogno della città.
Il centenario delle olimpiadi moderne viene soffiato dagli americani che lo portano a Atlanta. Atene si accaparra un risarcimento otto anni dopo. Sembra in arrivo un nuovo boom ma è l’ennesima bolla che prelude all’ennesima forma di protettorato, quello della Troika. Sorgono stadi fantasmagorici che cadranno in disuso, opere strabilianti del tutto inutili. Restano infrastrutture importanti, come strade, tangenziali, tram, bus, un’eccezionale metropolitana, e un bell’aeroporto. Il piccolo, eroico, aeroporto di città, invece non viene riutilizzato. Diventa il simbolo del presente. Erbacce prendono il sopravvento sui simboli dell’Olympic che Onassis volle per la sua Grecia. L’idea è vendere quei grandi spazi per fare cassa. Cosa sorgerà lì di fronte al mare dell’Atene che si espande in milioni di case verso sud? Altri palazzoni? Un casinò, forse? In mano a quale straniero? Nessuno fa previsioni, oggi. Atene resta una città magnifica, viva, vera, bella oltre ogni limite, anche lontano dai fasti del V secolo a. C. Ma i negozi svuotati dalla crisi sono già in mano a multinazionali, imprenditori stranieri. Abbondano paninoteche, fast food e negozi anonimi e colorati che appaiono come una bestemmia per chi è affetto dal “maldigrecia”. Sono le yoghurterie in serie, dove un bocchettone automatico spilla nel rumore sordo di macchina una densa crema definitivamente priva di memoria.

Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica. (Immagine: T’Serstevens, 1904. Panoramic view of Lysikratous square. © Yiakoumis Collection / Kallimages, Paris)
Noi l'abbiamo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/

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