L'ultimo film di Ken
Loach. Una ballata malinconica su una Irlanda poverissima e ingiusta
dove la rivoluzione nazionale ha vinto, ma quella sociale è ancora
di là da venire. Un film da vedere.
Cristina Piccino
Per Ken
Loach la rivoluzione è un passo di danza
Ken Loach, prima di
presentarlo allo scorso Festival di Cannes,
dove era in concorso, aveva annunciato che sarebbe
stato il suo ultimo film, intenzione che il regista
inglese ha poi accantonato, almeno per ora. Non sarà
dunque il titolo finale della sua filmografia
questo Jimmy’s Hall, scritto come sempre da
Paul Laverty (insieme a Donal O’Kelly), e ispirato
alla figura storica poco conosciuta di James Gralton
(sullo schermo Barry Ward). Irlandese, militante
repubblicano, in prima linea nella guerra di
indipendenza contro gli inglesi, e poi nella
guerra civile, Gralton era stato costretto a lasciare
il Paese quando l’Ira nazionalista aveva
accettato la divisione dell’isola rinunciando
alla repubblica. Lo manderanno a New York,
dove tornerà ancora una volta, e di nuovo esiliato
senza processo né colpe, negli anni della Grande
Depressione, diventando un leader sindacale
tra i combattivi wobblies.
Il film inizia
col ritorno di Gralton in Irlanda nel 1932. La madre
è ormai anziana, ed è rimasta sola a badare
alla fattoria, lui vuole prendersene cura
e dal resto, cioè dalla lotta politica, ha promesso
a sé stesso di tenersi lontano. Non ci credono
però i politici della contea, e tantomeno
il prete, molto allarmati da questo ritorno, e nel
profondo non ci crede neppure lui. Che infatti
nonostante gli sforzi ricomincerà a essere
un riferimento per chi vuole che qualcosa cambi,
a cominciare dalle giovani generazioni
soffocate da bigottismo, oppressione
sociale della chiesa cattolica, privilegi
feudali dei proprietari terrieri. E cosa
di più potente, e destabilizzante di un
music hall dove insegnare Marx, la lotta di classe, il
disegno, a ritmo di ballo — e sono quelle anche
le scene madri del film.
La storia
è bellissima, e la figura di Gralton
appare perfettamente sintonizzata
con l’universo del regista di Terra e libertà:
comunista, dalla parte dei deboli, lucido nelle sue
scelte e con la bellezza dell’utopia nel cuore.
Eppure anche se si parla di libertà e di ribellione
il film appare invece piuttosto convenzionale,
privo della sgangheratezza di una proletaria
di verità. Tutto procede come la scrittura —
prevede: scontri, entusiasmi, tradimenti,
«citazioni» fordiane e un eccesso di
sentimentalismo tra vite mancate
come gli amori, e occasioni perdute si
intrecciano senza nessuno spazio vuoto, nessun
margine possibile di ruvida conflittualità.
Loach ha già
raccontato la storia politica
dell’Irlanda e la sua guerra contro l’Impero
britannico in Il vento che accarezza l’erba (con
cui ha vinto la Palma d’oro), dove però la dissacrazione
dell’inglese, lui stesso, tirava fuori la rabbia
e l’ambiguità della Storia. Jimmy’s Hall si
svolge invece in una sorta di «schema» del film impegnato
in cui tutti i personaggi — e gli attori
sono molto bravi, peccato che il pubblico italiano
li vedrà per lo più doppiati perdendo così, come
sempre nel nostro mercato, una buona metà del film —
sono rigidamente inquadrati nel loro ruolo,
e persino lui, il rivoluzionario
Gralton, bello e irruento, non sembra avere dalla
regia le armi per sfuggire, almeno un poco, a sé
stesso.
Il
film,applauditissimo sulla Croisette, si fa trascinare
dalla musica gaelica, si immerge nei paesaggi verde
smeraldo, inanella lane grosse e caschetti anni
Trenta, ammicca alla narrazione emotiva e però
non sembra trovare un contrappunto, un
conrocampo, qualcosa in cui lo spettatore
non venga sempre assecondato e soddisfatto
nella sua indignazione (anche se persino la
chiesa farà un po’ ammenda del suo operato). Non restano
dubbi, si sa subito da che parte stare e sarebbe
impossibile il contrario. Detto questo
la figura di Gralton meritava comunque di essere
raccontata, Loach ne fa l’eroe di una ballata
malinconica, un po’ amara ma con tenerezza.
Il Manifesto – 17
dicembre 2014
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