Uno studio della UIL
dimostra come il Jobs Act renda economicamente vantaggioso assumere
per poi licenziare. Se ci è arrivata la UIL (che come sindacato non
è proprio il massimo dell'estremismo), figurarsi i padroni.
Valentina
Conte
Oltre 6000
euro a chi assume e licenzia dopo un solo anno Jobs Act a
rischio boomerang
Cosa ci guadagna
un’impresa ad assumere e licenziare nel giro di pochi mesi? Ora
come ora, solo grane giudiziarie. E il rischio di reintegrare e
risarcire il lavoratore, se così decide il giudice. Dal primo
gennaio, belle cifre. Per uno stipendio medio (22 mila euro lordi
annui), dai 5 ai 16 mila euro, a seconda se si licenzia dopo uno o
tre anni. Ma si può arrivare anche a 6.600 euro dopo appena dodici
mesi.
È l’effetto matematico
e paradossale degli sconti su Irap e contributi previdenziali
inseriti nella legge di Stabilità, da una parte. E degli indennizzi
previsti dal Jobs Act per il nuovo contratto a tutele crescenti,
dall’altra. Gli incentivi sono assai cospicui, mentre l’esborso
dovuto in caso di licenziamento illegittimo - ora che l’articolo 18
di fatto non esiste più - è davvero risibile. Una mensilità e
mezzo per anno lavorato, secondo l’ipotesi più accreditata (ma le
associazioni imprenditoriali puntano a meno). Così, visto che il
lavoro oramai ha un prezzo, al datore conviene davvero il contratto
nuovo. Più che le tutele, a crescere sarà solo il suo conto in
banca.
Si dirà, è un’ipotesi di scuola. Se prendo un lavoratore e lo tengo tre anni, perché licenziarlo? Per lo stesso motivo per cui ora i contratti a termine durano pochi mesi. Porte girevoli. La crisi è tutta qui. Lo sconto Irap (deducibilità del costo del lavoro) è permanente. Quello sui contributi previdenziali per i neoassunti (con un tetto a 8.060 euro annuo) vale fino al 2017. Entrambi non hanno vincoli.
Né alla stabilizzazione
del lavoratore, né a creare posti aggiuntivi. Tantomeno prevedono
riserve, ad esempio ad aziende meritevoli che investono in ricerca o
che non hanno licenziato nel recente passato (la sinistra dem diceva
di voler inserire paletti alla Camera, non è stato fatto). Dunque
perché rinunciare ai soldi pubblici dati a tutti, se poi licenziando
anche in modo illegittimo si deve sborsare appena una mensilità e
mezza per anno lavorato?
Viva il contratto a tutele crescenti, dunque. Il saldo a favore delle imprese, calcolato per diversi livelli di reddito dal Servizio politiche territoriali della Uil, lascia sgomenti. Dopo un solo anno, si possono intascare oltre 6 mila euro. Dopo tre anni, quasi 19 mila. Il massimo al Sud, perché lo sconto Irap è più generoso, grazie alla norma Monti. A proposito di Sud, i fondi per coprire il bonus contributivo sui neoassunti (3 miliardi e mezzo nel triennio) sono stati scippati dal Piano azione e coesione creato dall’ex ministro Barca. Fondi europei, dunque. E fondi destinati proprio al Sud, ora spalmati su tutta Italia (con presumibile maggiore beneficio al Nord, laddove si assumerà di più). Il paradosso nel paradosso.
Impossibile che gli imprenditori italiani non facciano questi calcoli. Nel giro di tre settimane, quando il primo decreto delegato del Jobs Act sarà ormai messo a punto, il quadro emergerà ancora più nitido. Il decreto dirà, finalmente, come funziona il contratto a tutele crescenti. E cioè che a crescere sarà solo l’indennizzo, visto che di riavere il posto dopo il licenziamento benché illegittimo neanche a parlarne (spetta solo se c’è discriminazione e in selezionatissimi casi disciplinari). Ma come crescerà, l’indennizzo? Una mensilità e mezzo per anno lavorato è davvero poco.
La legge Fornero ora in
vigore prevede fino a 12 mensilità, a prescindere dall’anzianità,
e il reintegro: entrambi decisi dal giudice al termine della causa di
lavoro. Per le aziende sotto i 15 dipendenti il reintegro non c’è
ed è sempre il giudice a decidere un risarcimento tra le 6 e le 12
mensilità. In tutti e due i casi, una situazione certo migliore,
specie per i precari con poca anzianità, di quanto si profila con il
Jobs Act. Qualcosa davvero non funziona.
La Repubblica – 9
dicembre 2014
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