Eppure si continua a far retorica sulla grande guerra di popolo e retorica miserabile
Antonio Polito
1915-2015, è
l’ora di fare giustizia
Meno male che c’è la
prova d’appello del 2015. Eh sì, perché il «nostro»
anniversario della Grande guerra arriva un anno dopo, l’anno
prossimo, esattamente il 24 maggio (quando il Piave mormorava calmo e
placido al passaggio dei nostri fanti). E dunque c’è speranza che
si risvegli una riflessione politica e culturale su quello che è
stato, seppur mezzo secolo dopo l’Unità, un atto fondativo della
nazione Italia.
Nonostante l’interesse dei media, le istituzioni hanno finora guardato quasi con indifferenza a questo centenario. Al Sacrario di Redipuglia, dove sono sepolti i morti nel fango del Carso, c’è andato il Pontefice, ma non il premier. Altri Paesi, come la Francia e il Regno Unito, hanno un rapporto più risolto con la loro memoria. In fin dei conti, per i francesi è l’ultima guerra veramente vinta, e per gli inglesi quella più dolorosa. Chiunque si sia trovato a Londra alle ore 11 del giorno 11 dell’undicesimo mese dell’anno, e abbia assistito al minuto di silenzio che ferma spontaneamente e letteralmente tutto il Paese, sa che significato ha tuttora per quel popolo l’armistizio che mise fine alla Grande guerra.
Noi italiani invece, pur avendola vinta, non amiamo ricordarla. Ci sono almeno tre buone spiegazioni di questa rimozione collettiva. Ed è proprio su di esse che varrebbe la pena di riaprire un dibattito nazionale.
La prima ragione è il pacifismo-irenismo che è diventato la religione civile della nostra cultura popolare. Ogni guerra è ingiusta, figurarsi quella marchiata a fuoco da Benedetto XV come un’inutile carneficina, e che nella storiografia viene sempre più presentata come il frutto di un impazzimento collettivo, la conseguenza irrazionale del comportamento di un gruppo di Sonnambuli , secondo il titolo del fortunato bestseller di Christopher Clark (Laterza).
Come sostiene Mario
Silvestri nello splendido Isonzo 1917 (Bur), un grande libro di
storia scritto da un grande profano (l’autore era un docente di
Impianti nucleari del Politecnico di Milano), nel discutere della
Grande guerra «siamo ancora sotto il ricatto dell’enorme
sacrificio compiuto», e della convinzione che «tale sacrificio fu
sterile, anzi devastatore, che i caduti morirono invano e per ragioni
ingiuste». Eppure, ciò nonostante, il nostro sentimento dovrebbe
essere quello così ben riassunto da uno scrittore francese: «Odio
la guerra, ma amo coloro che l’hanno fatta».
È infatti amore ciò che
non può non sentire chi provi oggi a fare i conti con la memoria di
quegli uomini, leggendo la vasta letteratura che — anche grazie
all’iniziativa editoriale del «Corriere» — ha raggiunto le
librerie e le edicole; o anche solo visitando i luoghi nei quali la
tragedia si è consumata. Sono stato in pellegrinaggio quest’estate
sul Pasubio, nel Trentino, dove si è combattuta per anni una guerra
di così alta quota come mai prima e mai dopo nel mondo, tra la neve
e il ghiaccio, prima che tornassero i prati, per parafrasare il
titolo del film di Ermanno Olmi; una guerra nella quale, ancor più
che il nemico, i Kaiserjäger , alpini austriaci, si sfidava la
natura.
Ebbene, basta guardare
dal basso il Canalone Battisti, la stretta gola lungo la quale
l’irredentista trentino si inerpicò con un centinaio di uomini,
trascinando su una pendenza impossibile armi, artiglieria e muli,
solo per essere catturato dagli austriaci una volta in cima e poi
impiccato come traditore; basterebbe quella storia per amare chi ha
fatto la guerra. E per chiedersi perché mai di Battisti, di Damiano
Chiesa, di Fabio Filzi, nomi che ancora affiorano dalla mia memoria
di scolaro alle elementari, oggi non parli più nessuno.
Averli amati poco, questi eroi per scelta o per caso, fu del resto la colpa all’origine della seconda causa di questa rimozione collettiva: il fascismo. È anche per reazione all’enfasi retorica che il regime mise sulla Vittoria, ben testimoniata proprio dalla magniloquenza del Sacrario di Redipuglia, che oggi ne abbiamo pudore. È come se la coscienza democratica del Paese temesse ancora di confondere la memoria e il rispetto per i caduti con un cedimento alla propaganda nazionalista di Mussolini. Eppure fu proprio per non aver saputo amare quegli ex combattenti, quei reduci, la generazione più mutilata della storia, che perse gambe, braccia, mani, occhi, talvolta perfino il volto, perché scagliata come carne da macello contro la più letale artiglieria della storia, che in Italia il mito della «vittoria mutilata» venne regalato all’autoritarismo fascista (a proposito di mutilazioni, è da leggere l’inquietante Ci rivediamo lassù , romanzo di Pierre Lemaitre uscito quest’anno da Mondadori).
Ma per amare coloro che hanno fatto la Grande guerra bisognerebbe infine, e forse innanzitutto, riparare a un grande torto, riconoscendo formalmente le atrocità commesse nei confronti dei soldati italiani dai comandi militari. In due saggi di grande successo editi quest’anno da Mondadori, La guerra dei nostri nonni di Aldo Cazzullo e Italiani voltagabbana di Bruno Vespa, si riapre questo dolorosissimo capitolo.
L’occasione del centenario italiano deve essere usata per avviare un rigoroso processo storico di riabilitazione delle tante vittime innocenti di una disciplina militare sanguinaria, che credeva di poter forgiare una forza combattente con la minaccia delle esecuzioni, e giustificare ogni sconfitta scaricandone la colpa sulla vigliaccheria o il tradimento della truppa. Era un’epoca in cui dominavano le teorie militari del colonnello francese de Grandmaison, che predicavano l’«attacco a oltranza», l’offensiva per l’offensiva, l’assalto alla baionetta contro una potenza di fuoco mai vista prima sui campi di battaglia. La dottrina che portò nel 1916 alla follia di Verdun, descritta da Alistair Horne nel suo Il prezzo della gloria (Bur). E dunque chiunque esitava, o anche solo ragionava, prima di andare incontro a morte certa (l’80% della fanteria italiana di prima linea è deceduta in combattimento), veniva punito, e ogni insubordinazione sanzionata con la fucilazione.
Vespa cita statistiche
che assommano a 200 mila imputati per diserzione, 170 mila
condannati, e 750 condanne a morte eseguite in Italia, le più
numerose tra i Paesi belligeranti; cui vanno aggiunte almeno trecento
esecuzioni sommarie e migliaia di vittime di decimazioni molto spesso
scelte a sorteggio («Ho dato disposizione che alcuni soldati,
colpevoli o no, fossero passati per le armi», scriveva il Duca
d’Aosta, comandante della Terza Armata). Capitò perfino a uomini
appena arrivati al fronte di essere puniti per atti di diserzione cui
non potevano aver partecipato (Cazzullo racconta un processo farsa
non dissimile da quello narrato da Stanley Kubrick nel suo Orizzonti
di gloria ).
Il ministro Roberta
Pinotti ha insediato di recente una commissione «per far luce sui
soldati italiani fucilati, vittime di singole esecuzioni o di
decimazioni sommarie effettuate sul posto, senza processo». Il Pd ha
presentato una proposta di legge. È un buon inizio. Nessun discorso
nazionale sulla Grande guerra può infatti cominciare senza una
solenne riconciliazione della Repubblica con i discendenti e le
famiglie dei soldati il cui nome è stato infangato ingiustamente.
Amare è prima di tutto rendere giustizia.
Il Corriere della sera –
21 dicembre 2014
Proprio vero, aspettiamo di andare oltre la retorica delle celebrazioni, la guerra ha diviso,non unito, i popoli. E non ha portato giustizia. Una intera generazione è stata decimata, e la spagnola-che alla guerra si accompagnò- completò l'opera malthusiana. Il mondo del 1918 non era certo migliore di quello, già sofferente, del 1914.
RispondiEliminaHo segnalato questo articolo nel nostro blog,grazie!
Cara Grazia, sono io a ringraziare te per la cortese attenzione. Buon Natale anche per tuoi ragazzi
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