A cosa serve la storia dell’arte?
Anna Pistuddi
In
questi giorni ho comprato dopo tanto tempo una rivista d’arte alla quale
ero abbonata durante gli anni dell’università, grazie alla quale ho
potuto approfondire i temi proposti dalla materia che avevo scelto come
principale nel mio corso di studi. Si tratta di Artedossier, edita dalla Giunti di Firenze e diretta attualmente da Philippe Daverio.
Ho acquistato il numero di gennaio 2012
attirata da un richiamo di copertina, che annuncia un tema decisamente
interessante, che recita “MATERIALI, NATURA E IMPEGNO POLITICO DAL
QUATTROCENTO AL CONTEMPORANEO”. Mi sono seduta sul divano, ho sistemato i
cuscini e inforcato gli occhiali, ho tolto il cellophane, tagliandolo
pazientemente in un angolo e facendolo frusciare via, presa dalla
frenesia della curiosità. Uno sguardo al sommario e una sfogliata
veloce, una “sniffatina” al profumo delle pagine… finchè la mia
attenzione non è stata catturata letteralmente dal pezzo a p. 16.
Voglio ora parlare in libertà lasciando
uscire dallo stomaco le reazioni che mi ha provocato (perché mi sono
proprio sentita provocata) la lettura dell’articolo. E lo faccio
consapevole che magari cadrò anche in qualche banalità. Correrò il
rischio e, nel caso ciò accadesse, me ne scuso fin d’ora.
Ma voglio partire da una premessa/auspicio, virgolettando l’affermazione di Tomaso Montanari che chiude il pezzo:
Ma voglio partire da una premessa/auspicio, virgolettando l’affermazione di Tomaso Montanari che chiude il pezzo:
“Se,
nonostante le mille difficoltà, la scuola pubblica italiana insegnerà
ai nostri figli che in Italia c’è anche un’altra lingua – una lingua
fatta di palazzi, chiese, quadri e statue che appartengono a tutti -, e
insegnerà che quella lingua non serve a divertire i ricchi, ma serve a
farci tutti eguali, allora non solo salveremo il nostro patrimonio
storico-artistico: forse riusciremo a salvare anche il nostro paese”.
E nonostante si tratti di un vero e
proprio grido di dolore di chi è pienamente consapevole dello stato
dell’arte in Italia, leggere le righe finali ha fatto si che la
pressione tendesse a ritornarmi a livelli più normali, dopo l’altalenare
di forti sensazioni che mi hanno attraversato durante la lettura.
Tranquilli, non ve le racconterò tutte: mi soffermerò brevemente solo su
due di queste.
Il primo pugno nello stomaco l’ho
ricevuto dall’impatto col titolo del pezzo: “L’eclissi della storia
dell’arte”. Da ottimo oratore Montanari mi ha fatto cadere nella sua
trappola, attirando “violentemente” la mia attenzione di lettrice
interessata con l’apparente e subitanea demolizione di quelli che erano e
rimangono le ragioni fondamentali per cui ho investito nello studio
della Storia dell’Arte la mia vita universitaria e continuo a farlo, in
altra forma, oggi. Mi sono chiesta, di pancia, senza ragionarci troppo,
mi sono chiesta se tutte le mie ragioni, tutta la fatica, tutto
l’impegno e la passione profusi nello studio di questa meravigliosa
disciplina non siano divenuti improvvisamente, chiaramente vani. Perché
il vero dramma è il rischio della scomparsa dell’insegnamento della
storia dell’arte dai programmi ministeriali di tutti gli indirizzi
scolastici della Repubblica, e quindi una voragine nella formazione
delle future generazioni. La perdita, a mio avviso, di un’importante
chiave di lettura di noi stessi e di una “lingua” con la quale
esprimersi.
Il secondo pugno nello stomaco, e lì
proprio mi sono ribellata definitivamente, è arrivato nell’istante in
cui ho letto la lucida esposizione di alcuni dei motivi di questa
eclissi:
- l’autoreferenzialità che rende il mondo di chi studia Storia dell’Arte un universo per eletti e impenetrabile ai più;
- il ruolo assunto dalla disciplina, che è diventata “industria dell’intrattenimento culturale”, riducendo alle ragioni del puro marketing il senso originario della valorizzazione dell’arte;
- l’analfabetismo figurativo della classe dirigente.
E io tutto questo proprio non posso
accettarlo, nella misura in cui ho sempre creduto (e continuo a farlo)
nel valore della divulgazione seria, del coinvolgimento delle
persone-cittadini in iniziative utili ad accrescere in tutti il grado di
consapevolezza della ricchezza culturale che abbiamo ereditato e che in
parte ancora (nonostante tutto) produciamo. Non posso accettare quelle
affermazioni, per un processo del tutto umano che coglie tutti noi
quando ci scopriamo “corresponsabili” (seppure involontariamente) di
qualcosa che ci sembrava, invece, di subire. Quella dura presa di
coscienza dei limiti evidenziati (riferiti ovviamente a tutto il mondo
della storia dell’arte italiana nel suo insieme) è difficile da
accettare perché sono limiti dolorosamente e
spesso veri. Veri anche e soprattutto in quanto permettiamo che vengano
sottaciute realtà che invece a questa crescita collettiva (democratica,
quindi, nel pieno rispetto dei dettami costituzionali) mirano con
impegno ogni santo giorno, lottando contro continui tagli di bilancio,
contro l’incomprensione e anche contro la tentazione della disillusione e
del conseguente disimpegno. E parlo soprattutto delle scuole, delle
università, delle tante associazioni (anche giovanili), di molte
istituzioni pubbliche e private, insomma, di tutti quelli che si
sforzano costantemente di comunicare l’arte e di farne un patrimonio del
nostro quotidiano.
Allora, forse questa provocazione è stata
salutare per me e mi auguro che lo sia per tutti, perchè a volte
chiamare le cose col loro nome è il modo più corretto, più giusto ed
efficace di correggere i propri errori. Nelle poche pagine dell’articolo
(che riassume l’intervento il cui link si inserisce qui in calce:
ascoltatelo, perchè ne vale davvero la pena!) Tomaso Montanari, docente
di Storia dell’Arte Moderna all’Università Federico II di Napoli, con
passione a volte ironica e arguta, sempre consapevole e dotta pur senza
rivestirsi di linguaggio per pochi, disegna un percorso che spiega in
modo esemplare, critico, caustico e disarmante, quali siano i
presupposti civili, politici e sociali dell’attuale stato dei Beni
Culturali in Italia, segnatamente in riferimento al patrimonio
storico-artistico. Ripercorre in poche battute il senso che a
quest’ultimo ha dato l’Assemblea costituente nell’immediato secondo
dopoguerra; ci spiega perché la conoscenza dell’arte ci renda cittadini
più consapevoli; ci dice (caso mai ci fosse bisogno di ribadirlo) che il
patrimonio artistico del nostro Paese è proprietà dello Stato e quindi
di tutti e di ognuno di noi e che la sua conoscenza è al contempo un
dovere e un diritto irrinunciabile.
Anna Pistuddi
Testo tratto da: http://unaltrasestu.com/2012/01/04/a-cosa-serve-la-storia-dellarte/
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