19 dicembre 2014

SCRITTURA, MAGIA E FELICITA' IN KAFKA




Scrittura, magia e felicità
di Luigi Sasso

Franz Kafka

Secondo Kafka – lo ha ricordato Giorgio Agamben – la magia non crea, ma chiama. La magia è cioè una scienza dei nomi segreti: «Ogni cosa, ogni essere ha, infatti, oltre al suo nome manifesto, un nome nascosto, al quale non può non rispondere. Essere mago significa conoscere ed evocare questo arcinome». Ma Agamben richiama anche un’altra tradizione «secondo la quale il nome segreto non è tanto la cifra dell’asservimento della cosa alla parola del mago, quanto, piuttosto, il monogramma che sancisce la sua liberazione dal linguaggio». Il nome segreto («pronunciandolo, i nomi manifesti, tutta la babele dei nomi va in pezzi») ci riporta alla condizione delle creature nell’Eden, che con quel nome venivano chiamate. Di qui il legame tra magia e felicità, in quanto il nome segreto «è, in realtà, il gesto col quale la creatura viene restituita all’inespresso». Insomma, la magia non è conoscenza dei nomi, ma «smagamento dal nome». Ciò spiega come mai il bambino non sia «mai così contento, come quando inventa una sua lingua segreta. La sua tristezza non proviene tanto dall’ignoranza dei nomi magici, quanto dal suo non riuscire a sciogliersi dal nome che gli è stato imposto. Non appena ci riesce, non appena inventa un nuovo nome, egli stringe fra le mani il lasciapassare che lo consegna alla felicità».
Dall’analisi di questa condizione infantile non è difficile giungere a una conclusione che ha il sapore di una sentenza: «Avere un nome è la colpa. La giustizia è senza nome, come la magia. Priva di nome, beata, la creatura bussa alla porta del paese dei maghi, che parlano solo coi gesti».
Queste osservazioni di Agamben marcano una differenza, un contrasto tra il nome – segreto – da un lato, e il linguaggio dall’altro. La società, i rapporti umani, gli scambi economici, i legami che uniscono o che mettono in contrasto tra loro gli individui, i passaggi di informazione, le gerarchie del potere politico: tutte queste realtà sono strettamente connesse col linguaggio. La sintassi, il lessico, i registri espressivi si inseriscono e a loro modo governano, come fili e in qualche caso come catene, la nostra esistenza quotidiana, costruendo una rete entro la quale ci muoviamo, ma che molto spesso finisce per condizionare azioni e comportamenti. Non parliamo allora, ma siamo parlati da una lingua, portati a vedere, ad ascoltare, a sentire attraverso il filtro di categorie linguistiche. A cominciare dal nome che portiamo.
Non è un caso, infatti, che le strutture del linguaggio abbiano fornito gli strumenti e costituito il modello a cui le altre scienze umane si sono a lungo ispirate, quasi che risultasse impossibile analizzare il mito, le credenze religiose, le usanze, i riti o i meccanismi dell’inconscio senza far ricorso alla morfologia, alle metamorfosi della lingua.
Il regno del nome segreto, invece, è un mondo liberato dal linguaggio. E ogni nome proprio che conosciamo è sostanzialmente, invisibilmente in conflitto col nome segreto. Oppure si potrebbe dire anche così: non esiste nome più proprio, più appropriato e strettamente connesso con la cosa, con l’individuo, del nome segreto. Quest’ultimo appartiene a una dimensione più profonda, più enigmatica, forse intangibile ma verso la quale è quasi inevitabile volgersi. La scrittura non esprime altro che questa tensione verso un aldilà del linguaggio, animata da uno slancio utopico, da un desiderio. Essa si fa dunque interprete di quell’aspirazione alla felicità che, da Kafka ad Agamben, passando per Canetti e Robert Walser, risiede in una dimensione finalmente liberata dal linguaggio, cioè da quel reticolo verbale che permette ma nel contempo aggroviglia ogni nostra situazione quotidiana. Di qui il paradosso di ogni pagina letteraria: dire e ribadire, a ogni riga, la propria aspirazione all’indicibile.
La scrittura è un gesto. Non un discorso che afferma, ma un movimento che, portandoci un po’ più lontano dal nostro nome, sembra alludere a una realtà sospesa, ombra o prefazione di un qualche paradiso.


Testo tratto da  http://rebstein.wordpress.com/2014/12/19/schedario-vi/

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