27 dicembre 2014

UNO DEI LIBRI PIU' AMATI E ODIATI DI j. STEINBECK




Lo stato delle cose, dei campi abusivi e del gran “furore”.
di Beatrice Cassina
E' forse un amaro para­dosso che oggi, nel set­tan­ta­cin­que­simo anni­ver­sa­rio del libro più sof­ferto dello scrit­tore John Stein­beck, Furore (Gra­pes of Wrath), ci si trovi di fronte, di nuovo, a con­di­zioni di lavoro che spesso non ten­gono conto dei minimi stan­dard di diritti umani.

Ci ritro­viamo di fatto in molte parti del globo – qual­cuna anche troppo vicina per essere igno­rata -, e dopo decenni di lotte per otte­nere pic­cole grandi con­qui­ste di lavoro e benes­sere, ci ritro­viamo rica­ta­pul­tati indie­tro, a quando chi aveva biso­gno di lavo­rare e scap­pava let­te­ral­mente da con­di­zioni di vita senza spe­ranza, era dispo­sto a soprav­vi­vere in con­di­zioni che si avvi­ci­na­vano dram­ma­ti­ca­mente a con­di­zioni di schia­vitù.

Già, pro­prio come nella Cali­for­nia rac­con­tata in Furore, in cui John Stein­beck scri­veva, e auto­ma­ti­ca­mente denun­ciava, lo stato delle cose. «Que­sti sono delitti che tra­scen­dono ogni denun­cia. Que­ste sono tra­ge­die cui il pianto non può ren­dere testi­mo­nianza; e‘ un fal­li­mento che annulla le più belle con­qui­ste dell’umanità». E John Stein­beck si era avvi­ci­nato e aveva cono­sciuto le ter­ri­bili con­di­zioni di vita degli immi­grati che erano arri­vati sulla costa west, nella sua Cali­for­nia, dopo la grande sic­cità degli anni trenta. Migliaia di fami­glie, e anche la fami­glia Joad nel romanzo, aveva lasciato l’Oklaoma, dopo che le col­ti­va­zioni erano state rovi­nate, distrutte dal Dust Bowl, cioè da quelle tem­pe­ste di pol­vere e sab­bia che col­pi­rono, tra il ’31 e il ’39, le Grandi Pia­nure ame­ri­cane.

In Cali­for­nia, ci rac­conta il libro, nono­stante la grande pub­bli­cità fatta per cer­care nuova mano­do­pera, le cose non sareb­bero state migliori. «Gli alberi stanno ritti e sani in fila, i tron­chi sono robu­sti, la frutta matura. Ma i bimbi muo­iono di pel­la­gra per­ché da un’arancia il col­ti­va­tore non può trarre pro­fitto; e il coro­ner scrive sull’atto di morte «morto per denu­tri­zione» per­ché con­viene lasciar mar­cire la frutta». E la rab­bia dun­que cre­sceva, come cre­sce sem­pre e ovun­que, in ogni essere umano che non abbia più altra scelta se non quella di ribel­larsi. La gente che rac­conta Stein­beck è gente che abita un romanzo, un lungo romanzo, ma è anche e soprat­tutto la gente che pro­prio lui, ini­zial­mente nel 1936 in veste di gior­na­li­sta per il San Fran­ci­sco News, aveva incon­trato.

Come repor­ter e testi­mone, Stein­beck aveva viag­giato nei campi di soc­corso nella con­tea del Kent. Aveva visi­tato, anche gra­zie all’aiuto dell’amico Tho­mas Col­lins, a cui il libro è dedi­cato e che lavo­rava per il Farm Secu­rity Admi­ni­stra­tion, il Sani­tary Camp di Arvin (nel romanzo chia­mato Weed­patch Camp). Que­sto campo era tra i 15 rea­liz­zati con i fondi del Governo, e sicu­ra­mente tra quelli che fun­zio­na­vano meglio. Ma aveva visi­tato con Tom anche quelli abu­sivi, dove le con­di­zioni erano dav­vero dif­fi­cili e dove lo squal­lore e la povertà si accom­pa­gna­vano a epi­de­mie, mal­nu­tri­zione, fame.

Nell’ottobre del 1936, il gior­nale pub­blicò quindi una serie di sei arti­coli inti­to­lati The Har­vest Gyp­sies. Ogni arti­colo era stato accom­pa­gnato dalle dram­ma­ti­che, silen­ziose foto­gra­fie di Doro­thea Lange, che lavo­rava per la docu­men­ta­zione delle situa­zioni dispe­rate dei migranti per il FSA — Farm Secu­rity Admi­ni­stra­tion — già dal 1935, e che incon­trò Stein­beck solo a libro pub­bli­cato. Pochi mesi dopo la rea­liz­za­zione di que­sti arti­coli e di que­ste espe­rienze dram­ma­ti­che, nel dicem­bre di quello stesso anno, Stein­beck aveva deciso e sapeva che il suo pros­simo libro sarebbe stato pro­prio una sto­ria sulla vita dei migranti.



Leg­gendo il libro Wor­king Days. The Jour­nal of Gra­pes of Wrath (Pen­guing Books), un dia­rio dei giorni di lavo­ra­zione del libro a par­tire dal mag­gio del 1938, si vede, si sente la grande sof­fe­renza di uno scrit­tore che era stato for­te­mente segnato dalle situa­zioni che aveva visto e di cui aveva scritto negli arti­coli per il San Fran­ci­sco News. Quasi non potesse capa­ci­tarsi che in Cali­for­nia, la sua Cali­for­nia, potes­sero suc­ce­dere certe ver­go­gne. E non poteva nep­pure far finta di non aver vis­suto in prima per­sona, nel feb­braio del 1938, l’orrenda espe­rienza dell’inondazione dei campi di Visa­lia e Nipomo.

Furore è pro­ba­bil­mente stato scritto anche a causa, come disse poi nel 1952 in un’intervista alla radio Voice of Ame­rica, dell’enorme rab­bia che lui stesso aveva pro­vato. Certe pagine non pos­sono evi­tare di rac­con­tare la realtà. «E gli occhi dei poveri riflet­tono, con la tri­stezza della scon­fitta, un cre­scente furore. Nei cuori degli umili matu­rano i frutti del furore e s’avvicina l’epoca della ven­dem­mia».

Que­sto libro, che fu pre­miato nel 1940 con il Pre­mio Puli­tzer e gra­zie anche al quale Stein­beck rice­vette, nel 1962, il pre­mio Nobel, ha ancora oggi tanto da dire e inse­gnare. A tutti e in ogni luogo.
Rico­no­sciuto come il più grande, corag­gioso e con­tro­verso libro di John Stein­beck, Furore era stato scritto, dopo molte prove e ten­ta­tivi, in una ver­sione finale a par­tite dal mag­gio del 1938. Ed è stato, forse soprat­tutto, un libro spesso rite­nuto popu­li­sta e rivo­lu­zio­na­rio che, in qual­che modo, pro­fe­tiz­zava un grande cam­bia­mento nelle con­di­zioni sociali dell’individuo.

La sto­ria alla fine aveva pre­miato le lotte per i diritti, sia dei lavo­ra­tori che delle fami­glie. Ma che la sto­ria si ripeta, acci­denti, è una verità incon­te­sta­bile, soprat­tutto quando i van­taggi otte­nuti non sono più tute­lati con rigore. Set­tan­ta­cin­que anni per arri­vare oggi a una spe­cie di un ultimo salto car­piato rove­sciato… che riporta a volte più indie­tro di quando si era par­titi.

Susan Shil­lin­glaw, inse­gnante di inglese e diret­trice del Cen­ter for Stein­beck Stu­dies all’Università di San Jose (che pos­siede la più vasta col­le­zione di mate­riale su Stein­beck al mondo) spiega come il libro venne attac­cato da più parti. «Parte dello shock ini­zial­mente fu nella resi­stenza di cre­dere che ci fosse quel tipo di povertà in Ame­rica. … Altri pen­sa­rono che Stein­beck fosse un comu­ni­sta e quindi non apprez­za­rono il libro» Anche il cam­bio di ottica dall’«io» al «noi» non era pia­ciuto. Per­ché era un attacco all’individualismo ame­ri­cano.



«Furore forse rap­pre­senta una sorta di mito senza tempo. Stein­beck aveva visto gli espro­pri come un tema e come una sto­ria molto più grande di quella solo cali­for­niana. …Tom Joad esce dal romanzo dicendo ‘ci sarò, ovun­que la gente ha fame…’ che è come se dicesse che, nel tempo, ci sarà ancora biso­gno di lui».

Leg­gendo pagine vec­chie 75 anni, e poi le pagine di cro­naca di qual­siasi quo­ti­diano, ci si rende conto che que­sta mito­lo­gia, con cir­co­stanze e per­so­naggi diversi, sem­bra restare sem­pre la stessa e ripe­tersi ancora. Una cro­naca che ci rac­conta di discorsi in piazza dei diversi Grillo e Sal­vini, che cer­cano di rela­zio­narsi con­fu­sa­mente al peri­colo del nemico-immigrato. Ed è anche quella cro­naca (Cor­riere della Sera, 23 otto­bre) che rac­conta di cen­ti­naia di gio­vani operaie-schiave rumene (dai 20 ai 40 anni) nei campi sici­liani del pomo­doro dat­te­rino e cilie­gino. Gio­vani donne che vivono e lavo­rano 11 ore al giorno per poche decine di Euro, in con­di­zioni, anche igie­ni­che, degra­danti e umi­lianti, e forse anche molto peg­giori dei campi immi­grati.

Ma le cose sono cam­biate, oggi. Oh, certo che sono cam­biate. Le tem­pe­ste di sab­bia e la sic­cità oggi si chia­mano guerre e bombe che pio­vono dal cielo e distrug­gono tutto. I car­roz­zoni cari­chi di fami­glie affa­mate – come quello dei Joad, con un gio­vane Henry Fonda nel film di John Ford – oggi sono le bar­che che troppo spesso anne­gano nel mare. La bella Route 66, che arriva fino alle coste dell’allora Terra Pro­messa Cali­for­niana, e che veniva per­corsa da chiun­que volesse scap­pare dalla pol­vere, dalla sab­bia e dalla fame per arri­vare al benes­sere dell’estremo West, oggi si chiama Mar Medi­ter­ra­neo. Nel libro e negli anni Trenta gli immi­grati si chia­ma­vano Okie, oggi invece si chia­mano – anche – siriani.

Il libro par­lava dell’Associazione degli Agri­col­tori Cali­for­niani – una delle orga­niz­za­zioni più aggres­sive nella sto­ria ame­ri­cana – in modo molto diretto. Ci rac­con­tava dei grandi pro­prie­tari ter­rieri che ave­vano atti­rato migliaia di migranti in Cali­for­nia, in modo da poter man­te­nere i com­pensi al minimo. Rac­con­tava un inim­ma­gi­na­bile livello di povertà, di mise­ria, di man­canza di abi­ta­zioni, di fame. Si rac­con­tava del potere, delle ban­che e dei pro­prie­tari ter­rieri, per­ché in Cali­for­nia i più deboli, dal punto di vista del potere, erano, forse da sem­pre, i migranti: cinesi, giap­po­nesi, filip­pini, mes­si­cani e sì, anche gli «Okie». Il libro di Stein­beck ren­deva evi­dente che il sogno ame­ri­cano della Cali­for­nia e del West era fal­lito tra­gi­ca­mente, con tutte le sue ombre. E oggi, nella bella Ita­lia, che sicu­ra­mente si è com­mossa leg­gendo le pagine di Stein­beck, be’, adesso in Ita­lia ci sono padroni che, anche, vio­len­tano le loro cosid­dette «dipen­denti» rumene.



Furore era per for­tuna stato difeso da Elea­nor Roo­svelt dopo che, appena uscito, aveva sca­te­nato tan­tis­sime pro­te­ste. La first Lady aveva scritto: «Devo dire che ho appena finito un libro che è un’esperienza di let­tura indi­men­ti­ca­bile. Furore, di John Stein­beck, attira e allon­tana. Gli orrori della scena così bene rac­con­tati, fanno temere di comin­ciare il capi­tolo seguente, ma non si può posare il libro e nean­che sal­tare una pagina. Ho visto cri­ti­che che dicono che que­sto libro è con­tro la reli­gione, ma non posso in nes­sun modo imma­gi­nare di pen­sare a mamma Joad senza allo stesso tempo pen­sare all’amore. Il libro è cat­tivo in certi punti, la vita a volte è cat­tiva, ma la sto­ria è bella quanto lo è la vita».

Il libro, tra i più amati nella let­te­ra­tura ame­ri­cana, è stato odiato, ban­dito, bru­ciato. Ban­dito dalle scuole ame­ri­cane — molto spesso anche per la scena finale (assente nel film di John Ford) di Rose of Sha­ron che, perso il figlio, offre il pro­prio seno e latte a un uomo che sta morendo di ine­dia –, era stato spesso giu­di­cato immo­rale, degra­dante, privo di ogni verità.

Ma per for­tuna resta comun­que il fatto che oggi, all’età di 75 anni, que­sto capo­la­voro ha ven­duto più di 15 milioni di copie, con­ti­nua a ven­dere più di 100 mila copie all’anno, ed è stato tra­dotto in quasi tutte le lin­gue del mondo. Sì, forse Furore ha dav­vero ancora qual­cosa da insegnare….



Il Manifesto – 22 novembre 2014

Nessun commento:

Posta un commento