La dodicesima busta, ovvero: il Diario postumo di Montale è sotto accusa e la sua storia allegramente cambia
di Federico Condello
Da qualche mese si è tornati a discutere del cosiddetto Diario postumo[1],
raccolta poetica incautamente attribuita a Eugenio Montale, dedicata
alla poetessa lombarda Annalisa Cima ed edita in forma definitiva da
Mondadori nel 1996, per le cure critiche di Rosanna Bettarini, dopo
undici anni di pubblicazioni rateali a cura della Fondazione Schlesinger
di Lugano. Si ricorderà il rumoroso caso: fra il 1986 e il 1996, la
Cima centellinò un presunto lascito postumo di Montale, e sulla base di
altrettanto presunte consegne orali e scritte del poeta offrì al mondo
sei poesie inedite all’anno, quasi tutte ispirati elogi della Cima
medesima o del suo selezionato entourage. Ad alcuni parve una perfida beffa del poeta, ad altri un trascurabile byproduct della
sua vecchiaia, a molti un pegno toccante d’amicizia, se non addirittura
d’amore. Nella primavera del 1997, ai sensazionali 84 inediti poetici
si aggiunsero documenti giuridicamente ben più onerosi, provenienti
ancora dal forziere svizzero della Cima: 24 fra legati, prelegati e
testamenti, due dei quali designavano la poetessa erede unica di Montale
e indiscutibile plenipotenziaria delle sue opere. Nel luglio del 1997,
dalle colonne del «Corriere della Sera», Dante Isella lanciò il suo
fermo verdetto, giudicando la silloge postuma un mediocre falso[2].
Egli fu il primo e il più coraggioso, ma non fu il solo, come oggi
interessatamente si sostiene: dalla sua parte furono subito studiosi
come Armando Petrucci, Romano Broggini, Pier Vincenzo Mengaldo[3]. Contro, ovviamente, l’editrice critica del Diario,
Rosanna Bettarini – che nella polemica fu la più fegatosa – oltre a
Maria Corti, Angelo Marchese, Giuseppe Savoca, e numerosi altri. La querelle –
dopo centinaia e centinaia di pezzi giornalistici, fra l’estate del ’97
e l’inverno del ’98 – finì nel silenzio. Annalisa Cima, di quando in
quando, è tornata a far sentire la sua voce in lode del Diario postumo, che nel frattempo ha occupato il suo posto, pur collaterale, entro il canone montaliano[4].
Studiosi come Alberto Casadei, Maria Antonietta Grignani, Giovanna
Ioli, Paola Italia e Niccolò Scaffai non hanno mai smesso di ribadire,
in questi anni, il carattere molto dubbio dell’attribuzione a Montale[5]. Per lo più, però, si è preferito lasciar correre. La recente voce Eugenio Montale del DBI, firmata da Franco Contorbia, è un buon esempio dell’evasività con cui la questione è troppo spesso trattata[6].
L’edizione mondadoriana commentata delle poesie montaliane reca al
proposito, in ciascuno dei suoi volumi, una significativa
frase-standard: «l’autenticità di questa raccolta è stata contestata da
alcuni studiosi». Sic.
Alla questione, non trascurabile, mi è
capitato di dedicare un volume, seguito da un fitto e illuminante
Convegno tenutosi a Bologna, presso la Biblioteca dell’Archiginnasio, lo
scorso 11 novembre (data natale di Dante Isella)[7]. Quali le novità emerse? Ne elenco qui, per brevità, solo alcune:
1) l’insostenibilità di quanto ci è stato fin qui raccontato dalla Cima circa la trasmissione del Diario postumo,
che Montale avrebbe consegnato alla sua Musa suddiviso in 11 buste da
aprirsi, una all’anno, a partire dal quinto anno dopo la sua morte[8];
2) il carattere autocontraddittorio di
tutti i resoconti forniti dalla Cima in merito alla genesi della
raccolta e dei suoi corredi essenziali, ivi compresi i 24 testamenti
pubblicati nel 1997;
3) l’inconciliabilità del Diario postumo con
le abitudini espressive di Montale, anche in merito al suo presunto
“autocitazionismo”: come ben vide Isella, e come un’analisi a tappeto
dimostra, il Diario postumo è in gran parte un meccanico collage del
Montale più celebre; con analogo taglia-e-cuci, del resto, Montale
avrebbe confezionato, chissà perché, molti altri testi per Annalisa
Cima: specie testi in prosa, emersi poco per volta fra il 1997 e anni
recentissimi;
4) il carattere del tutto anomalo delle grafie in cui appaiono vergati tanto il Diario postumo quanto i testamenti, stando alle riproduzioni che la stessa Cima ha reso disponibili[9].
A Bologna molto altro è emerso, con salutare franchezza: la Grignani ha ribadito che più mani hanno vergato i manoscritti del Diario postumo,
nel quale tutt’al più si potrà cercare qualche brano orale del poeta
impropriamente convertito in testo autografo. Luca Zuliani ha mostrato,
con dati computazionali invero impressionanti, che la metrica del Diario postumo contraddice non solo gli usi del Montale più “classico”, ma anche e soprattutto quelli del Montale presunto coevo, fra Satura e il Quaderno di quattro anni.
Alberto Casadei e Francesca Koban hanno evidenziato che scelte
lessicali e stilistiche della silloge non hanno, in Montale, paralleli
plausibili. Pasquale Stoppelli ha ottimamente descritto le tecniche di collage adibite
per la composizione delle liriche postume. E così via. Per non dire di
Antonio Riccardi, della casa editrice Mondadori, che ha ammesso la
scarsa presenza di materiale montaliano nel caotico magma della
raccolta, pur auspicando (e gli diamo ragione) che la ricerca prosegua.
Risultato? «Una pietra tombale», ha commentato il «Corriere della Sera».
Di lì a pochi giorni, il Sistema Bibliotecario Nazionale ha deciso di
espungere il Diario postumo dalle opere del poeta genovese[10].
Questo lo stato dei fatti. Di fronte a
tutto ciò, Annalisa Cima – orgogliosa dedicataria della raccolta e
gelosa proprietaria dei relativi autografi – ha reagito con nervosismo e
ha replicato con durezza. E il nervosismo, va da sé, umanamente si
comprende. Eppure, al di là del dato umano, le repliche meritano
un’analisi attenta. Esse offrono indizi illuminanti: forse più
illuminanti di quanto l’autrice desiderasse.
Andiamo con ordine. La più robusta reazione della Cima si è registrata su «La Stampa» del 19 novembre 2014 (http://www.lastampa.it/2014/11/19/cultura/il-mio-montale-nella-bottiglia-BcgxTlWxd5oyHADmc5wCPP/pagina.html).
L’articolo è corredato da vivaci ingiurie all’indirizzo di vivi e di
morti, nonché da numerose dichiarazioni non documentate né
documentabili. Vale la pena censirle, onde scoraggiarne la diffusione:
1. I primi sei autografi del Diario postumo si troverebbero presso la casa editrice Mondadori. Purtroppo alla casa editrice ciò non risulta[11]. Che gli autografi siano andati smarriti?
2. Dante Isella, fra il 1986 e il 1988, avrebbe avallato la pubblicazione del Diario postumo
e ne avrebbe addirittura vidimato le bozze; poi avrebbe cambiato idea e
denunciato la falsità della silloge per puro livore nei confronti della
Cima e della Bettarini. La disinvolta affermazione non è nuova. Essa fu
messa in circolazione dalla Cima già nel 1997 (cf. «La Stampa», 21
luglio 1997, p. 16), ma questo non la rende più credibile. Circa le
reiterate calunnie ai danni del grande filologo, la figlia Silvia Isella
ha da poco risposto come il caso merita (http://www.lastampa.it/2014/12/04/cultura/diari-postumi-di-montale-la-battaglia-pi-feroce-si-sposta-su-wikipedia-521qNPZlXKWGyaA5AGRRWP/pagina.html)[12].
3. Armando Petrucci, che giudicò implausibili le grafie sia del Diario postumo,
sia dei 24 testamenti, avrebbe telefonato alla Cima e alla Bettarini,
«dicendo di non aver emesso alcun giudizio, di non essersi mai occupato
di autori contemporanei, di essersi offeso perché nominato a sproposito
da Isella». Isella, dunque, avrebbe allestito una falsa expertise di Petrucci e l’avrebbe spavaldamente edita sul «Corriere della Sera» (27 luglio 1997, p. 23), per poi includerla nel suo Dovuto a Montale.
Petrucci ne avrebbe rinnegato la paternità, ma solo per telefono.
Storia interessante. Forse Annalisa Cima ignora che il Professor
Petrucci è vivo.
4. Maria Antonietta Grignani avrebbe
smentito Isella, e smentito se stessa. L’intervento cui la Cima allude
si legge in appendice agli Atti del Seminario sul «Diario postumo» di Eugenio Montale (Lugano 24-26 ottobre 1997),
Milano, Scheiwiller, 1998, pp. 165s. Esso eterna – ma senza che
l’autrice abbia mai potuto vederne le bozze, come lei stessa ha
raccontato a Bologna – un coraggioso intervento dal pubblico che sciupò,
con disturbante stonatura, l’unanimismo del Seminario luganese. Basta
leggere l’intervento per intero: e si appurerà come la Grignani abbia
denunciato per inverosimile lo sgangherato “autocitazionismo” del
Montale postumo.
Infine, quanto a Gianfranco Contini, fa
piacere apprendere ora, per la prima volta, che egli avrebbe
personalmente designato la Bettarini editrice della raccolta postuma. La
Cima probabilmente dimentica di aver più volte rivendicato la scelta
della Bettarini come decisione autonoma (per es. «Il Secolo XIX», 26
luglio 1997, p. 11). Ma al modo in cui il nome di Contini è stato
impiegato nel corso della querelle ho dedicato altrove un piccolo excursus[13]. Aggiungiamo questo ennesimo episodio agli altri: la quantità, purtroppo, non fa verità.
Tuttavia, accanto a queste dichiarazioni
di contorno – che sarebbero futili, se non offendessero la memoria di
chi non è più fra noi – alcune spiccano per il loro carattere
sostanziale. Ed è qui che assistiamo a una vera e propria riscrittura
dei fatti da parte di Annalisa Cima: dei fatti, beninteso, come lei
stessa li ha raccontati per quasi vent’anni. Il passo su cui va
richiamata l’attenzione è il seguente:
dodici, tredici [scil. poesie del Diario postumo]
mi furono donate direttamente da Montale, quando andavo a fargli visita
in via Bigli. Scritte in bagno (dov’era solito, anche, dipingere) su
foglietti versicolori fornitigli da Vanni Scheiwiller e da me depositate
in una cassetta di sicurezza. Quindi suggerii a Montale, per le
successive, di provvedere lui stesso a porle sotto sigillo. Era il ’79
(le liriche vennero composte fra il ’69 e quell’anno), allorché, di
fronte a un notaio italiano e a un notaio svizzero le distribuì in
undici buste, che esistono, eccome.
Tralasciamo i dettagli relativi al luogo
(il «bagno») in cui le poesie sarebbero state composte: si tratta, in
fin dei conti, di un luogo letterariamente rispettabile, almeno da
quando Eschilo vi ambientò l’assassinio di Agamennone. Notiamo piuttosto
i discreti ma notevoli ritocchi apportati alla versione ufficiale fin
qui fornita. Ovvero:
1. Montale avrebbe donato di persona
alla Cima soltanto «dodici, tredici poesie», e la Musa le avrebbe
prontamente «depositate in una cassetta di sicurezza»; le altre (ben 72 o
73!), su suggerimento della Cima, sarebbero state messe «sotto sigillo»
da Montale, senza preventivi passaggi ‒ se ne desume ‒ per le mani
dell’ispiratrice.
2. Nel 1979, «di fronte a un notaio
italiano e a un notaio svizzero», Montale distribuì le poesie nelle
famose, famigerate «undici buste». Il numero delle buste non sorprende,
ma sorprende il numero dei notai: sono due. Se ne prenda nota. E si
prenda nota che la Cima non c’entra nulla: il poeta, per i fatti suoi,
se la sbriga con i suoi legali.
Quanto al primo punto, lasciamo pur
correre la sorprendente approssimazione (dodici o tredici? Si può
davvero stimare così a spanna?). Ricordiamo, piuttosto, che finora la
Cima ha sempre e monotonamente dichiarato di aver ricevuto tutte o gran
parte delle poesie da Montale in persona. Così per es. a «La Stampa –
TuttoLibri» del 13 settembre 1986, p. 1, a proposito della prima poesia
donatale da Montale: «fu la prima di una lunga serie. Tutte con dedica
ad Annalisa Cima, e firma del poeta; ciascuna legata a quelle
conversazioni. “Parlavamo di un tema e dopo sette o otto giorni arrivava
una poesia”». Le conversazioni, dunque, furono solo «dodici, tredici»? E
«dodici, tredici» formano «una lunga serie»? E ancora, poco dopo, a «Il
Corriere del Ticino» dell’11 ottobre 1986, p. 33: «Annalisa Cima
ricorda che le poesie nascevano da discussioni, conversazioni su temi
diversi, dalla musica alla serata passata alla Scala, dalla critica di
un libro appena uscito, all’incontro occasionale con amici. Gliele
consegnava mano a mano che le scriveva, salvo poi richiederle per
correzioni, per aggiungere una variante. Di alcuni di questi
componimenti esistono due o tre differenti versioni». Dunque, un
forsennato traffico di autografi: «mi donò le poesie “postume” dal ’69
al ’79, con fare furtivo, spesso infilandole in un libro. Versi che
andavano e venivano», come si esprime la Cima nel 1997 («La Stampa –
TuttoLibri», 7 agosto 1997, p. 2). Su «Millelibri» del luglio-agosto
1991, pp. 116-118, a una precisa domanda dell’intervistatrice («quando
ti diede la prima poesia?»), la Cima risponde purtroppo a questo modo:
Subito nel ’69. Poi
continuò a darmele alla spicciolata, una per volta, o anche tre o
quattro, qualche volta scritte a macchina, ma di solito a mano, per non
farsi vedere dalla Gina, che era la sua governante.
Fra doni isolati («una per volta») e
razioni più generose («anche tre o quattro» per volta), è difficile
rassegnarsi a una cifra finale limitata a «dodici, tredici» poesiole.
Inutile tediare il lettore con ulteriori citazioni: dal 1986 ad anni
recentissimi, la Cima ha ripetutamente corroborato l’idea di donativi
poetici costanti e seriali[14].
Del resto, come dimenticare la celeberrima dichiarazione resa da Maria
Corti, alla quale tanti si aggrapparono e tuttora si aggrappano? Su «la
Repubblica» del 4 settembre 1997, p. 33, la Corti si disse testimone
oculare di una consegna pressoché en bloc delle poesie composte
fino al 1973: nell’autunno di quell’anno – a dire della studiosa –
«Montale consegnò alla Cima un notevole gruppo di fogli manoscritti,
ciascuno della misura media di una normale busta da lettera; alcuni
erano fogli bianchi, altri gialli paglierino, altri azzurri, oltre a
cartoline su cui erano scritti dei versi e fodere di buste da lettera
spiegazzate, anch’esse con versi a matita e a penna». Sono qui elencati
cinque diversi tipi di supporto; ciascuno è rappresentato da più
esemplari («alcuni […], altri […], altri, etc.»). Si tratta del resto di
un «gruppo di fogli manoscritti» definito «notevole». Delle due l’una: o
la Corti vide Montale consegnare poesie diverse da quelle confluite nel
Diario postumo; o la somma delle poesie donate di persona alla
Cima – e questa sarebbe solo una delle tante consegne! – sarà
difficilmente uguale a «dodici, tredici»[15].
E allora: perché questa improvvisa e drastica riduzione del corpus direttamente
noto alla Cima, cioè concretamente consegnatole da Montale? La domanda è
legittima, e anzi obbligata. Ed è qui che entrano in gioco i notai. I
notai, come si è visto, sarebbero due: «un notaio italiano» e «un notaio
svizzero». Peccato che finora la Cima abbia avvalorato una diversa
ricostruzione: Montale, nel 1979, sigillò il proprio corpus postumo
– debitamente spartito in undici buste – entro un’unica, corposa
super-busta finale, di fronte a un solo notaio; il notaio era italiano e
si chiamava Raffaele Meneghini. Egli sarebbe stato presentato a Montale
dall’avvocato Blasco Morvillo, a sua volta consigliatoli da Raffaele
Mattioli. La super-busta (recante peraltro ben tre firme: di Montale,
della Cima e del notaio, finora unico) fu addirittura esposta a Lugano,
nell’ottobre del 1997, durante la ben sorvegliata esibizione degli
autografi che avrebbe dovuto tacitare definitamente gli scettici. Non
solo: ad una con la super-busta, a Lugano fu esibita una lettera
dell’avvocato Morvillo, datata 12 ottobre 1980, secondo la quale tutti i
documenti destinati a postumo exploit – poesie, testamenti e molto altro – sarebbero stati spediti da poco al «notaio di Lugano»[16].
Dunque, apprendiamo ora per la prima volta un dato ragguardevole: il
«notaio di Lugano» (presumibilmente John Rossi, colui che “autenticò” le
trascrizioni del Diario postumo e dei testamenti attributi a Montale[17])
non fu il mero destinatario di un’operazione integralmente condotta in
territorio italiano; egli fu addirittura testimone dell’originaria ed
epocale suddivisione in buste.
Le due novità – in apparenza minime, in
realtà deflagranti – non vanno l’una senza l’altra: la Cima sembra
studiatamente deprimere la modalità di trasmissione testuale che fin qui
ci è stata descritta come prevalente (la consegna diretta dei testi da
parte di Montale); la Cima enfatizza in compenso il rapporto fra Montale
e i suoi personali notai, che con l’occasione sono raddoppiati.
Il rapporto fra questi due sapienti e
convergenti ritocchi alla vulgata è confermato da una seconda fonte,
meno vistosa ma non meno preziosa: ossia la voce «Diario postumo» di
Wikipedia Italia (http://it.wikipedia.org/wiki/Diario_postumo), di cui va soppesata la stratigrafia.
In effetti, da diverse settimane, sulla
voce della benemerita enciclopedia libera è in corso quella che la
comunità wikipediana chiama edit war (http://it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Guerra_di_modifiche).
Con tenacia ammirevole e non meno ammirevole puntualità, l’utente Alice
Blomberg interviene – anche più volte al giorno – contro ogni minimale
accenno alla paternità controversa del Diario postumo: Alice
cancella le addizioni di chi osa dar conto della nuova discussione in
corso; Alice censura dubbi e distribuisce improperi; di fatto, Alice
espianta ogni documentata versione dei fatti e vi sostituisce ispirate
arringhe di gusto assai dubbio. Il fenomeno ha suscitato l’indignata
reazione di numerosi utenti, con severe minacce di blocco della pagina (http://it.wikipedia.org/wiki/Discussioni_utente:Aliceblomberg);
il fenomeno ha suscitato inoltre l’attenzione della stampa nazionale,
che di recente ha dedicato un pezzo, firmato da Mario Baudino, ai
pasticciati palinsesti di Alice (http://www.lastampa.it/2014/12/04/cultura/diari-postumi-di-montale-la-battaglia-pi-feroce-si-sposta-su-wikipedia-521qNPZlXKWGyaA5AGRRWP/pagina.html).
Naturalmente, non si può sapere chi
Alice Blomberg sia. Si può solo osservare che il nome Alice rievoca la
nonna materna della Cima, Alice Schlesinger[18], eponima della Fondazione luganese che curò l’intero affaire del Diario postumo. Quanto al fiorito cognome, difficile non accorgersi che in tedesco Berg significa
«cima». Sarà senz’altro un caso. Certo non è un caso che Alice propaghi
via Wikipedia una versione dei fatti che non è solo tendenziosa: essa è
anche del tutto aderente alle novità che la Cima ha affidato a «La
Stampa» del 19 novembre. Il lettore curioso può scorrere, in
particolare, la versione della voce registrata nella Cronologia
Wikipedia alla data del 28 novembre 2014 (http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Diario_postumo&oldid=69379912). Il testo integrale è il seguente; esso è così colorito che vale la pena riportarlo per intero[19]:
Diario postumo
è una raccolta di 84 poesie attribuite a Eugenio Montale, che poco
prima di morire le ha suddivise in undici buste e affidate ad un notaio
italiano coadiuvato da un notaio svizzero, ispiratrice delle liriche,
dedicataria e proprietaria degli autografi ed erede testamentaria del
lascito è la poetessa Annalisa Cima. Già nota per le importanti
traduzioni fatte alle sue poesie da Allen Ginsberg, Marianne Moore,
Jorge Guillén, ed altri insigni poeti. La Cima seppe dai notai che
doveva pubblicare sei poesie all’anno a partire da 4 o 5 anni dopo la
morte del poeta avvenuta il 12 settembre del 1981. Nel 1986 la
Fondazione Schlesinger con sede a Milano, Lugano e New York, fece
stampare a mano, dalla Valdonega di Verona 100 copie del primo volume.
La prima parte di Diario Postumo, di 30 poesie, fu pubblicata nel 1991
dalla Mondadori, l’intera raccolta di 84 poesie uscì nel 1996 sempre da
Mondadori. Come precisò Marco Forti, direttore della sezione di poesia
Lo Specchio, le poesie manoscritte di Diario Postumo furono visionate
con esami calligrafici, sia da esperti grafologi che dai legali della
Mondadori e ciò avvenne dal 1986 sino al 1988, anno in cui si stilò il
contratto Cima-Mondadori, controfirmato dalla nipote Montale, Bianca.
I primi dubbi sono
stati sollevati nel 1986 dal poeta Giovanni Raboni che per vendetta nei
confronti di Montale che in pubblico lo chiamava Ruboni, disse una
colossale sciocchezza che erano registrazioni trascritte da Segre e da
Cima, fu smentito con la pubblicazione i Diario Postumo dalla Mondadori,
casa editrice della quale era consulente. Nel 1997, per ragioni ancor
meno nobili, la raccolta è stata giudicata apocrifa dall’italianista
Dante Isella, in contrapposizione alle verità oppugnate dalla
italianista Maria Corti, dalla filologa Rosanna Bettarini dal più grande
filologo italiano Gianfranco Contini da Angelo Marchese curatore nella
scolastica Mondadori di tutta l’opera di Eugenio Montale e dal
traduttore di tutte le poesie di Montale, Patrice Jerval Angelini. Nel
1997 Dante Isella ammise la sua sconfitta. Nel 2014 il caso, del tutto
chiuso, è stato ricopiato da un “branco di sconosciuti” che desiderano
farsi un nome. E che s’appellano ad analisi filologiche, grafologiche e
stilistiche già ampiamente fatte nel passato, con la differenza
sostaniale che allora gli esami avvenivano su manoscritti, ora su
fotocopie non bene identificate[20]. Le 12 buste esistono eccome, anzi sono già state messe in mostra sia a Lugano che New York[21].
I dettagli più eclatanti
dell’estemporaneo sfogo non devono distrarre troppo, anche se appaiono
francamente sintomatici: Raboni «disse una colossale sciocchezza»? E lo
fece perché Montale «in pubblico lo chiamava Ruboni»[22]? E Isella attaccò il Diario postumo per
ragioni ignobili? E addirittura, «nel 1997 Dante Isella ammise la sua
sconfitta»? E dove, esattamente? Pare di sognare. Ma l’affermazione
davvero rilevante è un’altra. Ovvero: «la Cima seppe dai notai che
doveva pubblicare sei poesie all’anno a partire da 4 o 5 anni dopo la
morte del poeta avvenuta il 12 settembre del 1981». Stiamo ben attenti:
la Cima «seppe» tutto questo soltanto «dai notai»[23].
Forse Alice (di cui ignoriamo l’identità) qui cade in un equivoco.
Certo non può non colpire un fatto: questa anonima o pseudonima versione
dell’accaduto conferma e anzi rincara ciò che la Cima ha dichiarato a
«La Stampa». Il rapporto diretto fra Montale e la sua Musa è ridotto al
minimo. Fanno tutto i notai: compreso notificare alla Cima il calendario
esatto della pubblicazione postuma.
La Cima, ne siamo certi, non può essere
d’accordo con Alice, visto che ha sempre sostenuto una tesi ben diversa.
Ovvero che Montale le avrebbe precocemente e insistentemente affidato a
voce (anche al di là dei presunti testamenti, che sul dettaglio tornano
a iosa) precise consegne relative ai tempi e ai modi della
pubblicazione. Fra le tante dichiarazioni di identico tenore, eccone una
che ha il vantaggio di essere firmata dalla Cima, senza intermediazione
di giornalisti o intervistatori (A. Cima, Ecco il Montale inedito, «Corriere della Sera», 10 ottobre 1986, p. 3):
una mattina del 1972
mi disse: «bisogna difendersi con la segretezza dagli squali che ci
circondano. Ti prego, Annalisa, piega il tuo orgoglio, accetta infine
queste poesie che ti affido e affiderò». Mi donava poesie scritte su
foglietti, libri, cartoline, e in buste chiuse. E registravamo argomenti
dei più vari, di cui preparavamo i contenuti insieme. «Non dire niente a
nessuno. È una promessa». E aggiunse: «Quattro o cinque anni dopo la
mia morte, potrai agire in piena libertà, ti lascerò in grado di poterlo
fare». «Pubblicherai sei poesie alla volta: una plaquette all’anno,
così potrò per lungo tempo sopravvivere nel tuo ricordo».
Dunque l’Annalisa Cima del 1986 (e dei
tanti anni a seguire) discorda dall’Alice Blomberg del tardo 2014, e su
un dettaglio nient’affatto secondario. Ma l’Alice Blomberg del tardo
2014 concorda in pieno con l’Annalisa Cima del tardo 2014: l’una nella
mobile sede di Wikipedia, l’altra su «La Stampa», ci raccontano
un’identica, rinnovata verità. Ovvero, in sintesi: Montale donò alla sua
ultima Musa non più di «dodici, tredici poesie». La Musa ebbe il resto
dai notai. E solo dai notai seppe che fare di un così prezioso dono. Che
è come dire: la Musa non c’entra nulla, o molto poco. E qualcosa
sapranno semmai i notai.
Prendiamo atto della nuova vulgata che
per questa duplice via si tenta di suffragare: forse altre dichiarazioni
a venire andranno nella stessa direzione. Conviene essere preparati.
Ma c’è un ultimo aspetto della questione
su cui essere preparati conviene: altri inediti di Montale stanno per
vedere la luce. La previsione non sembri eccessiva: è già successo, e
più di una volta. Benché la cosa sia passata quasi inosservata, nel 2006
una lunga prosa attribuita a Montale è stata donata da Annalisa Cima a
un editore di non poca rilevanza, ossia Il Melangolo di Genova;
purtroppo, tale prosa si è rivelata un grottesco patchwork di scritti giornalistici montaliani, e difficilmente si può prenderla sul serio[24].
Nel 2009, la stessa Cima ha dato alle stampe un presunto inedito di
Palazzeschi che, guarda caso, esibisce a larghi tratti una grafia
identica a quella del Montale postumo[25].
Evidentemente, la vena cui la Cima
attinge è tutt’altro che esaurita: e infatti, su «La Stampa» del 19
novembre, la Musa non si è accontentata di rivoluzionare, pur
tacitamente, la storia finora ufficiale della raccolta postuma. La Musa è
andata ben oltre: ha prodotto (si scusi il bisticcio) un nuovo
autografo di Montale, purtroppo non disponibile nella versione online
dell’articolo. Di che si tratta? Nientemeno che delle istruzioni
relative all’ultima, generosa razione di poesie postume, emersa nel
corso del 1995 in vista dell’edizione mondadoriana del 1996. Si
ricorderà questa sensazionale sorpresa del centenario: nell’ultima busta
del lascito, l’undicesima, più grande delle altre, sarebbero state
contenute non 6 ma 24 poesie; di queste 24, 6 a loro volta chiuse in
un’apposita busta simile alle precedenti e contrassegnata «XI», e 18
sciolte[26].
Bene. La Cima, ora e soltanto ora, ci
mostra – con allegata fotografia – alcune precise istruzioni manoscritte
di Montale. Esse si troverebbero (recita la didascalia de «La Stampa»)
«su una delle buste in cui Montale distribuì le sue poesie postume»; e
così recitano:
Cara Annalisa, queste poesie sono da pubblicare unitamente alle ultime sei, contenute nella busta contrassegnata con il n.° 11.
Eugenio Montale
1979
Eugenio Montale
1979
Facile la deduzione: se queste
istruzioni sono scritte su una busta, e fanno riferimento alla busta XI,
allora esse sono scritte su quello che la Bettarini (cf. n. 17)
definisce un «plico più grande», nel quale la stessa busta XI sarebbe
stata contenuta[27].
E infatti, nella riproduzione fotografica offerta da «La Stampa», si
legge chiaramente il numero «12», in alto, sopra le supposte righe
montaliane.
Cosa non torna, ancora una volta, in
questa intempestiva esibizione d’autografi? Innanzitutto, sorprende che
mai la Bettarini o la Cima – nelle plurime descrizioni del lascito e
delle sue formidabili buste – abbiano registrato il non trascurabile
dettaglio: l’ultimo plico non era solo «più grande»; esso portava
addirittura istruzioni esplicite, scritte, datate e firmate da Montale.
Ben strano non averne mai dato notizia. Non solo: se crediamo alla
Bettarini, il plico «più grande» era anche «non numerato»; eppure qui si
legge «12»: è forse addizione di altra mano? Infine, la contraddizione
più rovinosa. Dal 1986 al 1995, si è sempre e semplicemente parlato di
undici buste, senza distinguo alcuno. Nel 1995, all’improvviso,
si è annunciato con gran chiasso che l’ultima busta, più grande delle
altre, conteneva una razione poetica supplementare e assai cospicua: la
Cima ha parlato in più sedi di una sorpresa, di un regalo inatteso e
toccante, etc., e già ci si dovrebbe chiedere come sia stato possibile
non notare, per dieci anni buoni, che l’ultima busta era più grande e
nutrita delle altre. Ora, però, un nuovo, sensazionale dettaglio: quella
busta faceva esplicito riferimento alle poesie in più; poesie in più,
si badi bene, rispetto alle «ultime sei» non ancora emerse, perché
serbate in una busta inclusa nella stessa busta 12. E allora dove fu mai
la sorpresa del 1995? La corpacciuta ultima busta denunciava a chiare
lettere il proprio contenuto. Ma quelle righe scritte da Montale, mai
registrate da alcuno prima di oggi, non sono evidentemente mai state
capite; forse perché non sono mai state lette, fino al recentissimo scoop de «La Stampa».
Anche per questa via, dunque, la storia
cambia, onde reagire a chi delle buste ha messo in dubbio l’esistenza. E
non senza inquietudine apprendiamo che un amico di Annalisa Cima, il
poeta e critico luganese Gilberto Isella, ha visto e toccato con mano,
in questi giorni, proprio la neonata busta 12 riprodotta su «La Stampa».
Ce lo racconta lui stesso ne «Il Giornale del Popolo» del 6 dicembre
2014, p. 12, dove – accanto a un’affettuosa paternale sul potere
corruttivo della filologia, specie se la si pratica «per inconfessate
ambizioni personali» – si legge quanto segue:
Ora, se la mia
testimonianza può avere qualche valore, quelle buste custodite in una
banca di Lugano e di proprietà della Fondazione Schlesinger (sorta nel
’78 per volontà di Montale, Segre e Cima[28]),
e con tanto di bolli notarili, le ho viste con i miei occhi e toccate
con le mie mani, mettendomi per l’occasione nei panni dell’apostolo
Tommaso. Su una di esse ho letto le istruzioni autografe del poeta per
la Cima. La quale, sapendomi del mestiere, mi ha consentito poi di
gettare uno sguardo su altri manoscritti montaliani (abbozzi di poesie e
altro) che nel prossimo futuro, dopo le necessarie cure, verranno messi
a disposizione degli interessati.
Non solo la busta 12 con le sue
istruzioni, dunque, ma anche «altri manoscritti», contenti «abbozzi di
poesie e altro». La descrizione del cronachista-apostolo è vaga, e il
suo sguardo deve essere stato frettoloso. Peccato.
Dunque, non resta che attendere con
pazienza. E con la speranza che i nuovi documenti non scatenino
ulteriori, deflagranti contraddizioni. Sarebbe autolesionistico.
______________
Note
[1] Le prime anticipazioni delle nuove ricerche sul Diario si devono a P. Di Stefano, Il «Diario postumo» di Montale: troppe profezie per essere autentico, «Corriere della Sera», 9 luglio 2014, pp. 30s., http://archiviostorico.corriere.it/2014/luglio/09/Diario_postumo_Montale_troppe_profezie_co_0_20140709_c532c524-072c-11e4-bfc0-919d0569bfdf.shtml.
[2] I suoi straordinari interventi giornalistici sono raccolti in D. Isella, Dovuto a Montale, Milano, Archinto, 1997.
[3] Di quest’ultimo si veda l’intervento su il «Corriere della Sera», 12 marzo 1998, p. 33, http://archiviostorico.corriere.it/1998/marzo/12/com_goffo_Montale_postumo_co_0_98031210278.shtml.
[4] Per es. nel volume Le occasioni del «Diario postumo». Tredici anni di amicizia con Eugenio Montale, Milano, Edizioni Ares, 2012, che ha subito suscitato la lucida analisi di A. Casadei, Sul “Diario postumo” di Eugenio Montale, «Italianistica» XLII/1, 2013, pp. 288-290; essa è disponibile anche online: http://www.laboratoriodiletteratura.it/?p=256.
[5]
Cito almeno, per il suo carattere dirompente, l’analisi degli autografi
che Paola Italia ha pubblicato in P. Italia-P. Canettieri, Un caso di attribuzionismo novecentesco: il “Diario postumo” di Montale, «Cognitive Philology», VI, 2013, s.p. = http://ojs.uniroma1.it/index.php/cogphil/article/view/11586. .
[7] Cf. I filologi e gli angeli. È di Eugenio Montale il “Diario postumo”, Bologna, Bononia University Press, 2014. Per gli esiti del Convegno bolognese, si veda la bella sintesi di P. Di Stefano, Cancellate il “Diario” di Montale. Non è opera sua, «Corriere della Sera», 12 novembre 2014, p. 34, http://archiviostorico.corriere.it/2014/novembre/12/Cancellate_Diario_Montale_Non_opera_co_0_20141112_11f222b4-6a39-11e4-b086-1973982f395d.shtml, e più in dettaglio http://www.magazine.unibo.it/archivio/2014/11/24/le-novita-sul-presunto-diario-postumo-di-eugenio-montale.
[8]
Per tacer d’altro, se crediamo all’esistenza delle 11 buste, dobbiamo
credere altresì che Montale abbia indovinato un’impressionante sequenza
di eventi successivi alla sua morte e che abbia anzitempo inserito la
poesia giusta nella busta giusta, onde alludere a tali eventi nei tempi e
nei modi più idonei. Ci creda chi può. Cf. I filologi e gli angeli, cit., pp. 112-209.
[9] In G. Savoca, Concordanza del «Diario postumo» di Eugenio Montale. Facsimile dei manoscritti, testo, concordanza, Firenze, Olschki, 1997 e in E. Montale, Lettere-legato (1972-1980), «Annuario della Fondazione Schlesinger», VIII, 1996.
[10] Cf. F. Giubilei, «Il Diario postumo di Montale? Vi spiego perché è falso», «La Stampa», 23 novembre 2014, p. 27, http://www.lastampa.it/2014/11/23/cultura/il-diario-postumo-di-montale-vi-spiego-perch-falso-kK3lYocXrOAAfveA5TwE4H/pagina.html.
[11] Ringrazio Antonio Riccardi, Direttore Editoriale della Mondadori, per avermene dato conferma.
[12]
Purtroppo ciò non ha impedito a Gilberto Isella (l’omonimia è
conturbante ma casuale) di ribadire la tesi della ritrattazione su «Il
Giornale del Popolo» del 6 dicembre 2014, p. 12. È la prova di quanto
sia radicata l’abitudine a non verificare quel che si sente dire
(l’articolista preferisce stigmatizzare la «sindrome filologica del
sospetto»).
[13] Cf. I filologi e gli angeli, cit., pp. 268-280.
[14] Le dichiarazioni pertinenti sono raccolte in I filologi e gli angeli, cit., pp. 119-121
[15] Che poi la testimonianza della Corti sia in sé esposta a contraddizioni formidabili è un altro discorso: cf. I filologi e gli angeli, cit., pp. 154-164.
[16] Per tutti i dati in merito, salvati da plurime testimonianze d’epoca, cf. I filologi e gli angeli, cit., pp. 31-34, 44-47, 231-237 e passim.
[17]
Autenticò le trascrizioni, lo ribadiamo: il che non significa certo –
come la Cima e la Bettarini hanno spesso e volentieri sostenuto – che il
notaio abbia sancito in qualche modo l’autenticità dei manoscritti. Ciò
non compete a un notaio. È peraltro molto strano che l’avvocato Rossi,
ritiratosi dalla professione ma tuttora attivo, non abbia mai chiarito
il suo preciso ruolo nella vicenda: un ruolo che ora la Cima – pur senza
far nomi – sembra voler ingigantire. Ma su questo si tornerà presto in
altra sede.
[19] Lo si riporta qui con tutti gli errori dell’originale.
[20] Si tratta ovviamente delle riproduzioni facsimilari patrocinate dalla stessa Cima ed edite in G. Savoca, Concordanza del «Diario postumo» di Eugenio Montale. Facsimile dei manoscritti, testo, concordanza, Firenze, Olschki, 1997.
[21]
A New York nessuna esibizione è mai avvenuta. Anzi, la Columbia
University di New York continua a tenere in non cale, e a negare al
pubblico, le riproduzioni fornite a suo tempo da Annalisa Cima: cf. I filologi e gli angeli, cit., p. 105.
[22] Questa è una versione iperbolica di quanto la Cima ha dichiarato in altra sede: cf. A. Cima, Giù le mani da Montale, «Europeo», 25 gennaio 1991, pp. 88s. («notoriamente Montale amava chiamarlo Ruboni»). Il «notoriamente» è diventato «in pubblico». I dubbi di Raboni cui la Cima reagisce sono stati espressi nell’articolo Il poeta innamorato fa il verso dimezzato, «Europeo», 1 novembre 1986, pp. 152s. Fu il primo, assai precoce germe della polemica poi esplosa nel 1997.
[23]
E i notai, vedi caso, sono due: ovvero «un notaio italiano coadiuvato
da un notaio svizzero». Alice dimentica peraltro i testamenti, la cui
prima tranche (12 su 24) sarebbe stata resa nota alla Cima nel 1985. O i testamenti sono sottintesi nel generico «seppe dai notai»?
[24] Si tratta della presunta recensione a Terzo Modo,
la prima silloge della poetessa: una recensione finora inedita,
originariamente destinata al «Corriere della Sera», che Montale avrebbe
scritto nel 1969. La si può leggere adesso in A. Cima, Terzo Modo,
a c. di C. Angelino, postfazione di E. Montale, Genova, il melangolo,
2006. Sul taglia-e-incolla con cui la prosa è stata costruita, e sulle
relative fonti, cf. I filologi e gli angeli, cit., pp. 309-326.
[25] Sia quello del Diario,
sia quello dei testamenti. La sinossi delle grafie è stata mostrata a
Bologna lo scorso 11 novembre, e sarà presto pubblicata. Qualche
anticipazione in F. Giubilei, «Il Diario postumo di Montale? Vi spiego perché è falso», «La Stampa», 23 novembre 2014, p. 27, http://www.lastampa.it/2014/11/23/cultura/il-diario-postumo-di-montale-vi-spiego-perch-falso-kK3lYocXrOAAfveA5TwE4H/pagina.html; cf. anche https://www.academia.edu/9453204/_Il_Diario_postumo_di_Montale_Vi_spiego_perch%C3%A9_%C3%A8_falso_La_Stampa_23_novembre_2014.
[26]
Nella descrizione fornita da Rosanna Bettarini: «Montale stesso,
secondo quanto ci testimonia minutamente Annalisa Cima, ha diviso le
poesie di undici anni in undici buste, chiuse nel 1979: dieci buste di
sei numerate da I a X di sua mano, più un undicesimo plico più grande e
non numerato, contenente ancora una busta di sei (il numero XI), più un
pacchetto di diciotto componimenti sciolti per altre tre virtuali buste
di sei, che avrebbero potuto valere come dilatata sequenza di chiusura,
moltiplicando il sei di base» (E. Montale, Diario Postumo. 66 poesie e altre, a c. di A. Cima, pref. di A. Marchese, testo e apparato di R. Bettarini, Milano, Mondadori, 1996, p. 89).
[27]
L’alternativa – attendiamo lumi dalla Cima – è che la busta 12 si
trovasse inclusa nella super-busta 11, accanto alla più consueta busta
(11bis) contenente le ultime sei poesie. Ma in questo caso le 18 poesie
“a sorpresa” non sarebbero più sciolte. Qualsiasi via si percorra,
un’esiziale contraddizione è in agguato.
[28]
Notiamo per inciso che anche questa affermazione continua a risultare
non documentata. In compenso, si può documentare agevolmente che la
Fondazione Schlesinger è nata (rinata?) a Lugano nel 1985, quattro anni
dopo la morte di Montale. Il relativo estratto «dal Foglio Ufficiale
Svizzero di Commercio» non è nascosto in un caveau; esso si legge nel «Corriere del Ticino» del 20 agosto 1985, p. 20, ed è ora riprodotto in I filologi e gli angeli, cit., p. 42.
11 dicembre 2014
Altra opinione: http://www.academia.edu/27955232/_Le_cifre_e_il_senso._Ancora_sullautenticit%C3%A0_del_Diario_postumo_in_Cenobio_gennaio-marzo_2016_pp._5-18
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