27 dicembre 2014

IL VIAGGIO DI FRANCO ARANITI





“Es senza” di Franco Araniti

di Antonella Falco


La poesia racconto (o poesia in prosa) di Cesare Pavese e la scrittura senza segni di interpunzione di José Saramago: sono questi gli estremi stilistici entro cui inquadrare, almeno formalmente, l’ultima opera di Franco Araniti, Es Senza, tappa conclusiva, e dunque approdo, di un viaggio iniziato nel 2007 con Di quel viavai d’amore e proseguito nel 2012 con Meticcia. Un viaggio letterario che definire poetico sarebbe riduttivo visto il grande fermento sperimentale che caratterizza la trilogia e che raggiunge il suo acme proprio nei componimenti – prose liriche «senza la condizione dell’interpunzione» – di Es Senza.
La sperimentazione compiuta da Araniti non si ferma soltanto agli aspetti stilistici ma investe anche l’apparato linguistico mediante l’uso di un lessico meticcio, ossia pervaso di termini dialettali ma anche più propriamente gergali: mi riferisco all’impiego di quella lingua, l’ammascante, usato dai calderai di Dipignano (Cs) e a lungo affidata alla sola trasmissione orale prima di essere recuperata e studiata dal glottologo John Trumper. L’ammascante costituisce una vera e propria lingua nella lingua in quanto codice comunicativo appartenente ad una ben determinata categoria professionale, quella dei lavorato del rame, a sua volta calata in un contesto dialettale che è quello comune a qualsiasi paese della provincia cosentina. Una lingua ricca di fascino e sfumature, nonché estremamente musicale tanto da essere finita in un disco, Ammasca, del Collettivo Dedalus, che si è aggiudicato il secondo posto nella sezione dialettale al Premio Tenco 2014. I testi del disco sono di Franco Araniti che da anni compone versi in ammascante contribuendo in tal modo alla conservazione e alla divulgazione di questo antico patrimonio linguistico.
Termini come “tawana” = “sveglia mattutina, alba”, “mineca” = “moglie”, “jancusa” = “neve”, “spaccusa” = “montagna”, “tasejo” = “contadino”, “fadusu” = “mantello”, “justrusa”= “luna” si affiancano così all’italiano creando una miscela linguistica, una sinestetica girandola di suoni che si fanno immagini e colori e che a loro volta danno vita a un vortice emozionale che dal territorio avito si diparte a raggiera per raggiungere gli uomini e le donne di ogni parte del mondo in un ideale abbraccio di sim-patia e di com-passione.

Alla sperimentazione linguistico-lessicale, che resta uno dei suoi tratti distintivi, Araniti unisce infatti una inesausta passione civile. Es Senza è da questo punto di vista la summa delle idealità del poeta, la voce data a chi non ha voce, il canto di denuncia dei deboli e degli oppressi, lo sguardo non distolto ma al contrario ben spalancato sulle vittime di soprusi vicini e lontani: dai disoccupati, ai migranti, alle vittime delle guerre spesso dimenticate e taciute. L’approdo alla poesia civile è per Araniti quasi un dato genetico, il naturale punto di arrivo di un percorso che affonda le radici nella sua storia familiare, nella vicenda del padre Melo, arrestato nel 1932 a soli tredici anni, perché si era ribellato alle prepotenze dei fascisti:
«Mi hanno torturato per una notte intera Steso seminudo nella nuda terra della cella trattenuto con forza per i quattro arti da due che non mi sembravano carabinieri hanno iniziato lasciando che degli scarafaggi tormentassero il mio ombelico È stato tuo padre mi chiedevano Mi chiamo carmelo rispondevo
Allora uno con il ginocchio mi premeva sui cannarini Quasi mi soffocava È stato tuo padre mi chiedevano Mi chiamo carmelo rispondevo recuperando il fiato strozzato
Volevano che accusassi mio padre
Prendendomi per i capelli mi sollevavano infilandomi la testa nel bugliolo pieno di pisciazza Umiliavano la mia mente e toglievano l’aria al mio respiro Vedevo la morte venire e andare È stato tuo padre mi chiedevano Mi chiamo carmelo rispondevo grondando pisciazza nella quale confondevo le lacrime e la paura
Schiaffi sul viso gomitate ai fianchi e calci negli stinchi mi davano È stato tuo padre mi chiedevano Mi chiamo carmelo rispondevo col dolore sparso nel corpo»
(Volevano il nome di mio padre pp. 99-100).

Il padre di Araniti è trattenuto in carcere per un mese ma i suoi aguzzini non ottengono lo scopo desiderato: «A tutti i costi volevano il nome di mio padre Ma io mi chiamo carmelo» (p. 100). È anche per questa ragione che Carmelo Araniti il 9 settembre 1943, all’indomani dell’armistizio, si unisce alle formazioni partigiane combattendo contro il nazifascismo fino all’8 marzo del 1945, «Per liberare le menti dalla soffocante oppressione dei buglioli» (p. 100). L’esempio paterno si trasfonde nel figlio per pura proprietà transitiva. È un’osmosi di valori, ideali, passioni, principi etici che accompagnano il giovane Araniti negli anni della formazione e ne strutturano la personalità umana e intellettuale.
Un senso panico attraversa la poesia dell’autore reggino abbracciando uomini animali e ambienti naturali; nei versi di Araniti è tutto il creato – mondo animato e mondo inanimato – ad essere oggetto (ma forse sarebbe più appropriato dire “soggetto”) di uno sguardo solidale e partecipe: uno sguardo generoso e profondamente umano. È una poesia che nasce anche dalla terra, la sua terra di Calabria appassionatamente e dolentemente amata: quella terra che è emblema del Sud, di tutti i Sud del mondo. Luoghi vilipesi dagli uomini e derisi dal destino, ma anche fucine – le ultime rimaste – da cui può levarsi un canto di liberazione, una palingenesi, un nuovo radicale umanesimo.
«Disincantato ma non rinsavito», come quel Didimo Chierico che fu l’ultima incarnazione autobiografica degli eroici furori foscoliani, Araniti percorre ancora col suo canto, idealmente e realmente, le strade degli ultimi, armato della sola Parola:
«Scavo dentro tronchi senza libro e senz’anni parole decantate su fondali sventrati e modellati da tempeste e carezze da mare e popoli passati che impastando culture e colori e razze fecondando ovuli e incrociando incroci hanno tessuto la tela che mai inchiostro potrà ripercorrere intera da quando la vita divenne vita e tanti dolori sillabando sillabari tra fonemi e buchi neri se spreco non lo so voglio inverso tentarvi tra i vostri rioni susu ai grattacieli ove menzognera appare la luna che invece dalle case basse è poesia ché che i solai vicine alle ceramite fan’uno con la terra giù»
(De composizione, p. 66).

In Es Senza accanto all’impegno civile trova spazio anche l’amore a volte declinato come caldo eros, a volte come tenera devozione coniugale non corrisposta e anzi offesa e avvilita (Il rametto di mimosa), a volte come tormentata matura passione che non sa se cedere al sentimento nei confronti di una donna molto più giovane (Legge in sogno).
Il volumetto è impreziosito dalla bella copertina che riproduce un olio su tela dell’artista calabrese Maria Naccarato dall’evocativo titolo Notturnessenza. Vale la pena infine sottolineare il merito di quella editoria indipendente – Es Senza è pubblicato da Città del Sole – che non teme di dare alle stampe opere inconsuete e sperimentali promuovendo, malgrado le difficoltà del mercato, un attento lavoro di scouting letterario ormai troppo spesso trascurato dai grandi gruppi editoriali.

Da   http://www.nazioneindiana.com/

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