31 dicembre 2022

PER LUIGI LOMBARDI SATRIANI

 

folklore-5







Per Luigi. Annotazioni su “Folklore e profitto”

 

folklore-5di Ignazio E. Buttitta [*]

Ho conosciuto Luigi Lombardi Satriani che ero bambino e, in ragione della profonda amicizia che lo legava a mio padre Antonino, ho avuto la ventura di poterlo frequentare con una certa assiduità in occasioni convegnistiche e conviviali. È stato, pertanto, assai prima che uno dei punti di riferimento dei miei studi, un familiare con cui sono intercorsi, evolvendosi nel tempo in ragione dell’età e degli indirizzi che prendeva la mia vita e ben al di là di qualsivoglia questione accademica, rapporti di sincero e reciproco affetto. 

Sono, infine, uno tra i tanti che si è avvalso del suo magistero, dei suoi suggerimenti, dei suoi contributi scientifici ed ha cercato di prendere a esempio la sua prospettiva scientificamente aperta e mai pregiudizievole, la sua tensione all’impegno civile, la sua viva attenzione verso il contributo che metodi e saperi propri delle discipline etnoantropologiche potevano dare alla comprensione delle società e delle culture contemporanee.

Entro questo ambito rientra Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura (1973), testo che costituisce una preziosa testimonianza di una fase trasformativa della società e della cultura italiane le cui tracce restano ben visibili. È, entro tale prospettiva, un documento di interesse storico e come tale va, innanzitutto, valutato. Ci soccorre in questo il testo che Letizia Bindi ha posto a introduzione della riedizione di Folklore e profitto (2022) da parte delle Edizioni del Museo Pasqualino, un’accurata guida alla contestualizzazione e alla comprensione dei presupposti culturali e ideologici e delle vivaci istanze politiche e scientifiche che sostengono e animano il lavoro di Luigi Lombardi Satriani, una puntuale illustrazione delle sue precoci attenzioni alle prospettive euristiche di altre discipline e della perdurante attualità di numerose considerazioni, segnatamente, di quelle relative ai complessi rapporti storicamente intercorsi e, appunto, tutt’oggi intercorrenti tra mercato e cultura popolare.

Folklore e profitto è infatti una lucida e disincantata analisi di come la cultura folklorica, gramscianamente intesa come cultura delle classi subalterne, venisse, all’indomani del ‘68 e per tutti gli anni Settanta, accolta, manipolata, smembrata secondo le sensibilità, le esigenze e gli interessi tanto dai giovani figli delle classi egemoni quanto dalla borghesia intellettuale politicamente impegnata e, essenzialmente se non esclusivamente ai fini del profitto, dal mercato industriale. Una lucida e disincantata analisi, dunque, delle implicite e esplicite contraddizioni insite in un recupero ideologicamente orientato e economicamente viziato della cultura popolare.

Una lucida e disincantata analisi di una stagione che, per ragioni d’età e di appartenenza familiare, ho personalmente vissuto, seppur da adolescente, e di cui serbo viva memoria. Ragione questa che mi fa oggi sobbalzare nel rileggere le acute pagine di Luigi Lombardi Satriani: «Anche se in una prospettiva politica quanto mai condividibile nel suo impegno di fondo, si accredita […] una pericolosa identificazione tra intellettuale militante della sinistra e classi subalterne. La scelta politica, anche la più coerente, non autorizza noi intellettuali ad autoeleggerci unici interpreti della classe operaia o contadina; il nostro voler lottare con esse contro lo sfruttamento non elimina la oggettiva diversità della nostra collocazione di classe». Quanta verità in queste parole! Una verità che risuona ancor più potente soffermandosi a riflettere sul tempo in cui fu scritta e sull’estrazione sociale e culturale del suo autore. A Luigi Lombardi Satriani, non sono, invero, mai mancate capacità di autoanalisi e disponibilità all’autocritica.

Lombardi satriani con Buttitta, Pietro Clemente e la moglie, Ida

Lombardi Satriani con Antonino Buttitta, Pietro Clemente e la moglie Ida Caminada, Palermo, nov. 2016

Folklore e profitto è, come potrebbe dirsi di un romanzo, una lettura avvincente, tanto per chi ha vissuto un’epoca di dibattiti e tensioni sociali, quanto per chi quell’epoca, che ha fondato i presupposti che variamente si declinano nella contemporaneità, desidera conoscere. Tutt’altro che un testo riservato agli specialisti, sebbene agli specialisti fornisca tutt’oggi serie occasioni di riflessione. Folklore e profitto propone, infatti, una scrittura vivace e trascinante, animata da sincere tensioni politiche e da una lucidità critica non comune agli intellettuali del tempo e a quelli che nel tempo (fino ai nostri giorni) hanno preferito opportunisticamente adagiarsi sulle mode e sulle parole d’ordine del momento; una scrittura sostenuta dal desiderio di restituire dignità agli studi di folklore inteso come spazio privilegiato ove poter cogliere in vivo le contraddizioni e le trasformazioni della societàuna scrittura sostenuta dalla convinzione di una “potenzialità rivoluzionaria presente”, sia pur “in maniera contorta e contraddittoria” nel folklore.

Viva è la consapevolezza in Luigi Lombardi Satriani che il recupero ideologizzato e parcellare della cultura popolare non solo avesse finito con il costituire, in particolar modo per «i giovani politicizzati», una «compensazione di ordine fantastico» al concreto impegno politico e alla lotta di classe, ma anche una opportunità per l’industria, dunque per il capitale, di «realizzare ulteriori profitti attraverso iniziative discografiche, editoriali ed altre analoghe». Viva è la consapevolezza di come tale dinamica avesse finito per riverberare anche sul lavoro scientifico minandone la capacità analitica e le stesse prospettive euristiche e finendo, ancora una volta, per implodere nelle contraddizioni determinate da un’assunzione acritica della vulgata demartiniana: 

«data la prevalente impostazione idillica degli studi folklorici, che sfumavano la durezza della vita quotidiana degli strati popolari costringendoli in una cornice armonistica, la reazione sviluppatasi dal secondo dopoguerra ha sottolineato la miseria delle classi subalterne. Ma le opere di Ernesto de Martino, che segnano l’inizio del rinnovamento degli studi demologici italiani, non si limitano ad un rinvio generico alla miseria e alla società classista e si impegnano nella ricostruzione puntuale della storia e delle funzioni di quel determinato istituto culturale […]. Ma se il concetto di miseria rischia di perdere qualsiasi capacità euristica sbiadendosi in una nebulosa metafisica della miseria, il rinvio al carattere classista della società, quale spiegazione automatica di qualsiasi problema, rischia di costituire un analogo, di sinistra, del “piove, governo ladro”. […] Anche se come semplice accenno, non può passare sotto silenzio il rischio di presentare il documento folklorico in una presunta assoluta autonomia, recidendo i nessi dialettici con il suo contesto e con la generale impalcatura socio-culturale, che conferiscono a quel documento una precisa collocazione e, quindi, un’ulteriore carica di significato. Non meraviglia, in questa prospettiva, che, più o meno consciamente, operi in molti folkloristi un meccanismo di autocensura che li protegge dal pericolo di uscire allo scoperto e li mantiene nella zona del culturalmente accettato. L’ignoto del folklore viene dominato attraverso una categorizzazione culturale e politico-culturale dedotta dal noto della cultura egemone, segno che non basta individuare la dinamica delle culture coesistenti nello stesso tempo e nello stesso ambito per sottrarsi ad una obiettiva complicità con la cultura egemone». 

Vi sono dei passaggi nella scrittura di Lombardi Satriani, che, bisogna dolorosamente riconoscere, sono di una disarmante attualità; di una disarmante attualità almeno per chi, da qualsivoglia prospettiva, si occupi di fatti folklorici trovandosi assai spesso quasi a dover giustificare questi suoi interessi “fuori moda”, questo suo “attardarsi” e insistere su temi e problemi di cui larga parte dell’etnoantropologia italiana (e non solo italiana) si rifiuta di cogliere la cogente attualità poiché ci si rifiuta di riconoscere una ben osservabile verità: il folklore esiste (e parliamo qui di “cultura tradizionale” e non già di quella più complessa realtà che è oggi la “cultura popolare”) e interessa strati amplissimi della popolazione nazionale: 

«Come per qualsiasi cultura o subcultura, non esistono nel folklore argomenti degni e argomenti non degni, elementi interessanti ed elementi non interessanti in sé; tutto – anche ciò che sbrigativamente è stato considerato ovvio o minimo – può essere oggetto di una seria analisi culturale, e la dignità e l’interesse sono rapportabili solo al fatto che l’analisi sia più o meno profonda, conduca o meno a risultati attendibili. È come si lavora, non “l’oggetto” su cui si lavora che va esaminato, in sede culturale, secondo i criteri di rigore, di importanza, di attendibilità. Ma ciò comporta il non sentirsi vincolati dalle mode culturali, dalle aspettative, magari implicite, del proprio ambiente; implica il non ritenere gerarchia ontologica la graduatoria che gli ambienti intellettuali ufficiali stabiliscono informalmente, ma non perciò in maniera meno rigida. Non si intende contrapporre a tale situazione – particolarmente presente in Italia, data la tradizionale vocazione umanistica e padreternalistica degli intellettuali del nostro Paese – un atteggiamento di titanismo morale, ma rivendicare il diritto ad un atteggiamento critico che sceglie – responsabilmente, ma liberamente – gli ambiti della propria ricerca, le cui norme interne non sono eludibili con appelli globali». 
Lombardi Satriani e Ignazio E. Buttitta, Palermo dic. 2017

Lombardi Satriani e Ignazio E. Buttitta, Palermo nov. 2016

Sono queste considerazioni cui io mi sento di aderire integralmente. Su quanto oggi si possa scegliere «responsabilmente, ma liberamente – gli ambiti della propria ricerca» vi sarebbe infatti lungamente da dirsi, trovandoci ormai in un’accademia le cui avvilenti chiusure, sempre legittimate da pregiudizievoli indicazioni d’oltreoceano velenosamente condite da rimasticature d’oltralpe, hanno di fatto potentemente limitato gli ambiti e le prospettive di ricerca impedendo di «ampliare “l’impegno” a tutti gli argomenti, senza che venga implicitamente fissata in maniera aprioristica una gerarchia di importanza o di dignità tra gli argomenti inerenti alla cultura popolare» e, aggiungiamo, inerenti alla cultura e alle culture nel loro complesso.

Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, recita il titolo di una raccolta di saggi di Alberto Cirese della fine del secolo scorso, titolo ovviamente provocatorio, teso a denunziare quel declino di attenzione verso prospettive interpretative e tematiche, invero attualissime, che si era venuto a determinare nel corso degli anni Novanta.

Certo, direi, nulla di inattuale in Folklore e profitto, tanto più in un presente che si affanna a riscoprire Gramsci e le sue derivazioni culturali. E ancora, a proposito della attualità di Folklore e profitto, va osservato quanto le considerazioni sull’uso mediatico e pubblicitario di temi ed eco folklorici (genuino, tipico, naturale, verace, locale, tradizionale, ecc.) e, segnatamente, quelle presenti nel settimo capitolo, I divoratori del folklore, sembrino quasi descrivere la realtà a noi contemporanea, almeno in riferimento a larga parte delle regioni meridionali e, sicuramente alla Sicilia. 

«Molti elementi della cultura popolare – scrive Luigi Lombardi Satriani – vengono assunti dalla cultura del profitto e distorti secondo i fini di questa. Ma, ad un livello più generale, la stessa cultura popolare, viene sottoposta globalmente ad una operazione di consumo. L’esempio più clamoroso di tale operazione è dato dalla turisticizzazione del dato folklorico. Le “tradizioni popolari” diventano l’aspetto visibile di un mondo esotico verso il quale vengono indirizzati quanti intendano fuggire, anche se momentaneamente, dalla costrizione, dalla monotonia e dalla prevedibilità della società urbana contemporanea. L’invito all’evasione si concreta sia verso l’esotico esterno alla società italiana che verso l’esotico interno ad essa. […] Le feste popolari sono, naturalmente, coinvolte in questo processo di turisticizzazione e fungono da richiamo per i turisti desiderosi di manifestazioni “spontanee” e “semplici”. Anche le aree che sembrano conservare maggiormente, per una serie di ragioni, la dimensione dell’“arcaico” […] non sfuggono a tale processo». 

Non entreremo nel merito dell’ampia e tutt’oggi stimolante problematizzazione di questo fenomeno proposta da Luigi Lombardi Satriani, limitandoci ad osservare come le dinamiche rilevate siano tutt’oggi vive ed operanti e come il “consumo” della cultura tradizionale, segnatamente della “festa”, costituisca oggi uno spazio espansivo per il mercato turistico, un mercato turistico però che, oggi più di ieri, ha come sue complici larghe porzioni delle stesse comunità “tradizionali”, queste convinte che dal consumo turistico del patrimonio culturale di tradizione (consumo che sempre prevede un pre-adeguamento al gusto dei fruitori esterni), possa derivare quello sviluppo strutturale che l’assistenzialismo, le perduranti debole capacità imprenditoriale e scarsa tensione cooperativa, l’oppressione e il controllo capillare delle economie locali da parte delle associazioni di stampo mafioso, l’inerzia, l’inettitudine, l’immoralità della più larga parte della classe politica, hanno del tutto impedito.

Tale complicità, bisogna pur riconoscerlo, è largamente condivisa da accademici a caccia di risorse e di visibilità e lo è fattualmente, al di là di ogni dichiarazione di intenti, pure dalle stesse istituzioni nazionali e internazionali preposte alla salvaguardia dei patrimoni di tradizione, anch’esse convinte che i fenomeni di cultura popolare e, in particolare, quello che oggi chiamiamo “patrimonio immateriale”, potessero costituire uno straordinario strumento di promozione turistica e di rilancio economico per comunità prive di importanti attività produttive, integrando la tradizionale offerta turistica, centrata sulla fruizione dei beni storico-artistici, architettonici e ambientali (quest’ultima, in particolar modo, nelle località costiere), e favorendo la destagionalizzazione dei flussi turistici prevalentemente concentrati nei mesi estivi.

Luigi Lombardi Satriani con Antonino e Ignazio E. Buttitta, Palermo, dic. 2017

Luigi Lombardi Satriani con Aurelio Rigoli, Antonino e Ignazio E. Buttitta, Palermo nov. 2016

A guardare infatti i diversi documenti prodotti nel tempo da organizzazioni quali l’Unesco – dalla “Recommendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore” del 1989 alla “Convention for the Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage” del 2003 –, o prodotti dal Consiglio d’Europa – ricordiamo la “Convention on the Value of Cultural Heritage for Society” del 2005, meglio nota come “Convenzione di Faro” –, l’attenzione al rilievo socio-culturale dei patrimoni non è mai stata del tutto disgiunta dalla loro considerazione come risorsa per uno sviluppo socio-economico “sostenibile”.

Basti in proposito ricordare quanto enunciato all’art. 10 della richiamata Convenzione di Faro, significativamente titolato: “Patrimonio culturale e attività economica”, che così recita:

«Per utilizzare pienamente il potenziale del patrimonio culturale come fattore nello sviluppo economico durevole, le Parti si impegnano: a. ad accrescere la consapevolezza del potenziale economico del patrimonio culturale e utilizzarlo; b. a considerare il carattere specifico e gli interessi del patrimonio culturale nel pianificare le politiche economiche; c. ad accertarsi che queste politiche rispettino l’integrità del patrimonio culturale senza comprometterne i valori intrinseci».

Tale circostanza ha finito per determinare una situazione, direi, paradossale: non può esservi più discorso pubblico, neanche a livello accademico, dedicato alle feste religiose di tradizione che non ne consideri la dimensione economica e che non presti attenzione ai processi di patrimonializzazione in chiave turistica. In verità oggi, potremmo però dire da almeno un ventennio, nessuna ricerca scientifica sul patrimonio cerimoniale di tradizione, gode di attenzione istituzionale o di significativi finanziamenti pubblici, se esclusivamente rivolta allo studio delle feste religiose quali spazi di espressione della fede e di riproduzione delle strutture sociali e morali di una comunità o comunque dedicata ad aspetti che non tengano in debito conto gli effetti sullo sviluppo dei territori e, appunto, la loro ricaduta economica.

Eppure, oggi più che mai, proprio nel momento in cui il patrimonio culturale è sempre più valorizzato nella dimensione del mercato, nel momento in cui la festa religiosa rischia di divenire merce e come tale di essere gestita e manipolata a livello politico e mediatico, nel momento in cui cioè si fa più forte il rischio che le sia pur lodevoli politiche di promozione del patrimonio culturale, contrariamente a quanto enunziato nella Convenzione di Faro, non «rispettino l’integrità del patrimonio culturale» e ne «compromettano i valori intrinseci», è necessario ricordare cosa sia realmente una festa religiosa tradizionale, quale ne siano realmente la rilevanza socio-culturale e, letteralmente, antropologica prima che economica.

Una festa – “religiosa” in quanto correlata alla credenza in entità extra-umane; “tradizionale” in quanto “tramandata da generazioni” (cioè non frutto di recupero colto o re-invenzione) – è un insieme di simboli e di atti rituali pubblicamente agiti e sistemicamente coordinati in una sequenza coerente e significativa. La festa tradizionale è cioè un evento perfettamente programmato per cui si sa che, perlomeno sul piano ideale, «in un momento definito, in un determinato luogo, alcuni partecipanti, assumendo i ruoli previsti, eseguiranno, come hanno già fatto, un certo numero di compiti e adotteranno certi comportamenti seguendo uno schema dato e all’interno di un’atmosfera pure egualmente prevedibile, malgrado la sua apparente spontaneità»[1]. Le attività festive si incentrano, dunque, su pre-determinati comportamenti/oggetti rituali (che presuppongono un insieme di credenze condivise), i quali ne costituiscono gli elementi qualificanti denunciandone l’alterità rispetto al vissuto quotidiano.

Pertanto può dirsi che il rito festivo è un, se non il “luogo culturale” per eccellenza di affermazione individuale e sociale in un quadro di rifondazione cosmica, di partecipazione e di relazione, di risoluzione di conflitti (emotivi e/o sociali), di sospensione/sovversione e a un tempo di riproposizione di ruoli, rapporti e gerarchie, di soddisfacimento di esigenze economiche, sociali e culturali, di produzione e ri-produzione di sensi (individuali e collettivi) in una dimensione spazio-temporale percepita come “altra” da quella quotidiana. Mentre appaga la sete di sacro e di garanzie di benessere e continuità, ribadisce i principi normativi e i valori etici che regolano e animano la comunità; riafferma le regole cui tutti “dovrebbero” aderire e conformarsi, riattualizza la memoria storica della comunità, restituendo senso a una quotidianità precaria e conflittuale e ribadendo un’immaginaria identità culturale costantemente minacciata.

Lombardi Satriani con Aurelio Rigoli e Antonino Buttitta, Palermo, dic. 2017

Lombardi Satriani con Aurelio Rigoli,  Antonino e Ignazio Buttitta, Palermo dic. 2017

Attraverso i riti festivi, infatti, si ri-creano, si ri-nominano e si ri-ordinano lo spazio e il tempo come prodotti culturali e si ri-propongono le coordinate etiche e relazionali avvertite come costitutive della propria identità individuale e comunitaria, si scandiscono i passaggi della vita individuale e collettiva entro una cornice sacra che contribuisce ad amplificarne il senso e a ricondurre mutamenti e trasformazioni entro un ordine generale dell’esistere. Assunta come “testo”, come espressione coerente e non arbitraria di un sistema culturale, e confrontata tanto con il suo passato quanto con la prassi quotidiana, la festa consente pertanto di intendere a livello profondo la vita sociale di una comunità e le relazioni tra le sue componenti, di leggerne le attese e le contraddizioni, di coglierne i segni della memoria, di comprenderne il presente e, in certa misura, di prefigurarne il futuro.

È in ragione di questi fatti che se da un lato istituzioni pubbliche e accademiche devono, di concerto con le migliori espressioni associative delle “comunità patrimoniali”, adoperarsi nel preservare, valorizzare e promuovere le manifestazioni della religiosità tradizionale, devono, dall’altro, sia adoperarsi a contrastare e contribuire a governare i rapidi e violenti processi di turisticizzazione del patrimonio immateriale promossi da agenzie esterne alle comunità, sia certe disorganiche e culturalmente inconsistenti azioni di valorizzazione istituzionale, sia certi rinnovati tentativi di “purificazione” della pietà popolare sostenuti da parte della Chiesa. Tali processi, infatti, tendono a riadattare le forme e i tempi tradizionali degli iter rituali non alle esigenze delle comunità che questi riti producono e partecipano ma a quelle dei fruitori esterni; tendono cioè a soddisfare le aspettative di questi ultimi riconducendo la varietà dei tempi, dei temi e delle forme esecutive che caratterizzano o caratterizzavano, da luogo a luogo, le cerimonie festive, entro uno schema ben consolidato, finendo con il trasformare il rito religioso in spettacolo profano.

Basti guardare ai processi di trasformazione e adeguamento delle cerimonie della Settimana Santa: ecco moltiplicarsi le “passioni viventi”, che, affidate ad attori semi-professionisti appaiono prive di quella spontaneità e, appunto, di quella passione che ne caratterizzavano, laddove queste erano storicamente radicate, l’esecuzione; ecco comparire ovunque, ben oltre i confini iberici, cappucci a punta e fastosi addobbi dei simulacri esemplati dai modelli sivigliani; ecco imporsi costumi, musiche e canti del tutto estranei alle tradizioni locali; ecco nascere Confraternite e Fratellanze a tutto interessate tranne che a sostenere la fede e a salvaguardare la tradizione; ecco, infine, costituirsi la Settimana Santa globale, una meta-Settimana Santa, che omologa, travisandoli capziosamente, le memorie, i valori e le funzioni fondanti dei riti locali. Tali processi, già ampiamente in atto, se da un lato attentano alla vita di un dispositivo fondamentale per la tenuta delle comunità e il soddisfacimento dei bisogni dei suoi singoli componenti, finiscono dall’altro, estinguendo ogni peculiarità, ogni spontaneità, per comprometterne lo stesso interesse “turistico”. Perché a fronte del ripetersi di analoghi modelli recarsi a Siviglia piuttosto che a Malaga, a Trapani piuttosto che a Caltanissetta o in qualunque altra città o borgo minore d’Italia o di Spagna?

Le tante e diverse cerimonie della Settimana Santa rischiano oggi davvero di farsi Carnevale, di divenire la caricatura di se stesse, di divenire irriconoscibili ai suoi stessi attori, e di subire quanto, nel corso degli anni Sessanta del Novecento, è accaduto appunto ai tanti carnevali di tradizione: totalmente de-sacralizzati e ridotti in ogni dove a sfilate di carri allegorici, nella più parte dei casi completamente estranee alle locali tradizioni storiche e cerimoniali.

Che fare dunque per non trasformare il folklore in mero oggetto di profitto? Direi promuovere la conoscenza, valorizzare la varietà e la peculiarità delle tradizioni locali, sollecitare le comunità rispetto alla loro salvaguardia, disincentivare ogni forma di omologazione, contrastare, infine, la mercificazione del sacro. Tutte indicazioni che, con ineguagliabile spirito critico, Luigi Lombardi Satriani ha saputo fornirci per tempo e che noi, per paura, per ignavia, per interesse, non abbiamo saputo o voluto ascoltare. Tutte indicazioni che però restano lucidamente esposte nelle sue opere e che infine qualcuno, migliore di noi, saprà raccogliere.

Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
[*] Questo testo fa parte del volume collettaneo Per Luigi. Scritti in memoria di Luigi M. Lombardi Satriani, in stampa presso le edizioni del Museo Pasqualino. Si ringrazia per averne autorizzato la pubblicazione in anteprima.
Note
[1] PSmithLa festa nel suo contesto rituale, in C. Bianco, M. Del Ninno, a cura, Festa. Antropologia e Semiotica, Nuova Guaraldi, Firenze 1981: 212

 ______________________________________________________________

Ignazio E. Buttitta, insegna Etnologia europea e Storia delle tradizioni popolari all’Università di Palermo. Studia i fenomeni di religiosità popolare in area euro-mediterranea con particolare riguardo all’organizzazione dei calendari festivi e al simbolismo rituale. Tra le sue pubblicazioni: Il fuoco. Simbolismo e pratiche rituali (2002); I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa (2006); Continuità delle forme e mutamento dei sesi. Ricerche e analisi sul simbolismo festivo (2013); La danza di Ares. Forme e funzioni delle danze armate (2014); I cibi della festa in Sicilia (2019); Verità e menzogna dei simboli (2020).

UN CAPODANNO CON BEATRICE

 










IL MANIFESTO OGGI RICORDA LUIGI LOMBARDI SATRIANI e ANNABELLA ROSSI

 


Su Alias, supplemento a Il Manifesto, 31.12.2022, l’intervista rilasciata a Domenico Sabino da Luigi Lombardi Satriani [riquadro bio foto 1.] scomparso il 30 maggio scorso, sull’antropologa, fotografa e documentarista (l’autrice di “Lettere da una tarantata”, 1970) Annabella Rossi (1933-1984). [foto 2.]. Ne diamo qui un estratto. Subaltern studies Italia tornerà naturalmente ad occuparsi della figura di Annabella Rossi, continuate a seguirci. 👇

MEZZOGIORNO COME UN AMORE

Abbiamo incontrato l’antropologo Luigi Lombardi Satriani alcuni mesi prima della sua scomparsa avvenuta nel maggio di quest’anno, per farci raccontare di Annabella Rossi, antropologa e fotografa da lui conosciuta fin dalla metà degli anni Sessanta quando incaricato di Storia delle Tradizioni popolari a Messina la sua dispensa Il folklore fu l’occasione che li fece incontrare e iniziare una importante collaborazione. Tra le prime documentariste in ambito antropologico, realizzò con Mingozzi e Barbati per Rai 2 Sud e e magia, viaggio nei luoghi demartiniani.
Dall’incontro con Ernesto de Martino, nel 1959, Annabella Rossi trae istruzioni per il proprio lavoro di ricerca sul campo. Ne consegue una consapevolezza sui rapporti tra classi dominanti e subalterne, di cui parla nell’articolo del ’71 «Realtà subalterna e documentazione»: «Questa realtà deve essere documentata, per essere conosciuta, per circolare, per smascherare chi la copre per precisi fini politici». È ancora valida oggi l’asserzione?
- Nella maturazione antropologica di Annabella, l’incontro con Ernesto de Martino è stato decisivo. A de Martino, si sa, si deve il rinnovamento degli studi demoantropologici nel nostro Paese, sia perché coniugò rigorosamente tensione scientifica e impegno politico, sia perché testimoniò come nel lavoro antropologico sia fondamentale la ricerca sul campo, pur accuratamente preceduta da un’adeguata preparazione teorica, con la ricognizione attenta della letteratura scientifica sull’argomento trattato. Ernesto de Martino, alla fine degli anni Cinquanta, stava costituendo l’équipe con la quale si sarebbe recato in Lucania per condurre le ricerche in loco sul pianto funebre, già studiato nel planctus romano della prima cristianità, per individuare le vestigia che di tale pianto si potevano ritrovare in quell’estremo lembo dell’Italia. Si tenga presente che il sistema viario e delle comunicazioni era profondamente diverso da quello attuale e che la terra lucana appariva lontana come oggetto di investigazione etnologica a somiglianza delle popolazioni extraeuropee, care all’etnologia. Facevano parte dell’équipe demartiniana, tra gli altri, Clara Gallini, allora sua assistente a Cagliari; Giovanni Jervis, etnopsichiatra, coinvolto per i risvolti psichici; Diego Carpitella, etnomusicologo, cui era demandata la registrazione dell’universo sonoro. (..)
Annabella con i viaggi nel Salento e nel Meridione indaga la condizione della realtà subalterna. Attualmente ci sono antropologi che entrano in relazione diretta con la collettività, carpendone le mutazioni in atto?
-Annabella ha indagato, come ho già sottolineato, con rigore e passione la condizione dei protagonisti della realtà subalterna. Anche attualmente ci sono antropologi che entrano in relazione diretta con la collettività, cogliendone le linee di mutamento; preferisco non fare un elenco dei nomi, che sarebbe comunque incompleto. Si va dagli antropologi di più antica generazione, che continuano a indagare la realtà, ovviamente secondo la propria strumentazione teorica e metodologica, agli antropologi di più giovane generazione che indagano la realtà secondo i propri orientamenti e le proprie prospettive. Sarebbe impietoso, e anche un po’ ingiusto indicare ingenuità o esiguità nell’approccio teorico; sono mali generazionali che passano in fretta. Importante è che si voglia studiare, studiare, ancora una volta studiare.(..)
Perché una personalità energica come Annabella Rossi è spesso dimenticata dagli antropologi? Cosa rimane della sua produzione scientifica e del suo insegnamento?
- Forse Annabella ancora oggi non è ricordata come si dovrebbe, perché è stata un personaggio scomodo, come ho posto in risalto finora. Rimane della sua produzione scientifica e del suo insegnamento testimonianza di una curiosità continua e onnipervasiva per il mondo popolare e per il Mezzogiorno, oggetto di un amore assoluto. Anni fa, riflettendo sulla sua esperienza scientifica, sulla sua personalità, ho sostenuto che se per Elio Vittorini poteva essere detto «Sardegna come un’infanzia», per Annabella Rossi poteva essere detto «Mezzogiorno come un amore».
✔️

NICOLA GRATO, Fine d'anno

 



fine d'anno (per paesi)

la poesia è sbagliata,
rifugge per sua stessa natura l'esattezza del vivere,
la geometria del profitto,
l'ora spaccata, il tempo breve;

tempo lungo, fondamento, materia magmatica.
ore sbagliate, lacerti di tempo in cui il tempo stesso si fa morto, inutile, inerte.
di solito in questi momenti nasce la poesia, “quel nulla d'inesauribile segreto”, quel “sogno fatto in presenza della ragione”, o più semplicemente un modo di stare insieme, di fare relazione.

Se in principio era il verbo, questo verbo si fa carne nella poesia: in principio è relazione, coro, cunto.
la poesia è verità, come la musica:
ut ars musica poesia — tutto vibra, si contorce suono in vibrato, grappolo di note, semitono, cadenza, respiro.

scampanellare di pecore al pascolo.
un porticato di fresco a Ficuzza, dove Giacomino si asciugava il sudore e sistemava alla meno peggio la sua cassetta di venditore ambulante per i paesi.

(Nicola Grato)

RIDIAMO.. anche se c'è ben poco da ridere

 



LA LINGUA DICE TUTTO (fv)
'Dopo i “carichi residuali” e gli “sbarchi selettivi” arriva lo stop ai “soccorsi multipli”.
Il lessico della disumanità allarga il suo spettro, colorandosi di nuove espressioni oscene, che celano a malapena l’odio e l’accanimento cattivo verso gli ultimi della terra, persone ferite, torturate, violentate, sballottate in porti sempre più lontani.
Veramente il peggior governo possibile.

(Valentina Richichi)

PS: Non dimentichiamo che la strada alla Meloni l'ha spianata il PD di Letta, Draghi e Mattarella! (fv)

I CINGHIALI DELLA MELONI

 


Cinghiali, affari e disobbedienza


Leonardo Animali
30 Dicembre 2022

L’emendamento alla Legge di Stabilità sull’estensione della caccia al cinghiale nelle aree protette e nelle città conferma il potere dei cacciatori. In questo articolo Leonardo Animali spiega perché la caccia è prima di tutto un enorme business, ricorda perché i cacciatori sono pericolosi e indica quali potrebbero essere alcune iniziative di una possibile campagna disobbedienza civile non violenta

L’approvazione dell’emendamento di Tommaso Foti (Fratelli D’Italia) alla Legge di Stabilità, sull’estensione della caccia al cinghiale nelle aree protette e nelle città, ha avuto un’eco molto forte, tanto che alla fine, è stato paradossalmente, l’argomento più riportato dai media della prima Finanziaria del Governo Meloni.

Per non cadere nel blitz di Foti, i deputati della Commissione Bilancio della Camera, avrebbero avuto tutti gli strumenti conoscitivi. Basterebbe infatti che, relativamente alla proliferazione dei cinghiali in Italia, i parlamentari avessero letto la relazione scientifica proposta in audizione alla Camera qualche mese fa dal Andrea Mazzatenta, uno dei massimi esperti a livello europeo di fauna selvatica.

La motivazione, blandita a giustificazione di questo provvedimento, e di tutta una campagna mediatica e politica che è in corso da anni, sarebbe quella della sicurezza. Ma è noto che un conto è la “percezione di insicurezza” che possono avvertire le persone, altra è la fattualità reale di situazioni in cui la sicurezza non è garantita.

Allora verrebbe da chiedersi per primo, se a livello di percezione, sia più pericoloso avvistare uno o più cinghiali, o trovarsi a convivere nello stesso condominio con dei vicini che, per il fatto di andare a caccia, hanno un armadio di fucili e munizioni nello sgabuzzino.

A Fabriano, nelle Marche, capita spesso che qualche cinghiale si aggiri in città, considerato che è a ridosso di un territorio montano e boschivo. Però poi, in questa città, le Forze dell’Ordine, qualche settimana fa, intervenute a “rasserenare” la più classica delle liti condominiali, per ragioni di precauzione e sicurezza, hanno sequestrato tutto l’armamentario di caccia che uno dei condomini un po’ irascibile, deteneva in casa.

Ma il tema di fondo politico è questo: come mai una minoranza estrema di cittadini italiani, circa settecentomila (in progressiva e costante diminuzione, oltre che di età media molto alta), che praticano la caccia, ha da sempre un’influenza così forte e incisiva sulla politica? Sia quella nazionale, che quella territoriale. E che copre tutto l’arco costituzionale, dall’estrema destra all’estrema sinistra, fatta eccezione per i Verdi (non a caso, all’emendamento Foti, non sono seguite proteste, tranne quelle di Angelo Bonelli; l’ex-missino di Piacenza, in fondo, con la sua iniziativa notturna, ha fatto un piacere quasi a tutti).

Un condizionamento così forte, che ogni tentativo di iniziativa referendaria per l’abrogazione della legge che regola la caccia, è sempre fallito. Sia per il mancato raggiungimento del quorum nei Referendum del 1990 e 1997, sia per la mancata raccolta delle firma necessarie per un nuovo referendum nel 2021.

Tra l’altro, questa attività che molti, forzosamente, qualificano anche come sportiva e ricreativa, nel corso degli anni ha perso rovinosamente iscritti; tanto che, per fare un esempio, la Giunta di destra della Regione Marche (dove vivo), tra le prime iniziative assunte all’indomani del suo insediamento nel 2020, è stata quella di esonerare i nuovi giovani cacciatori dal versare per i primi due anni la tassa di concessione regionale (l’età media dei cacciatori nelle Marche è oltre i sessantacinque anni).

Come mai allora la politica è così supina alla categoria dei cacciatori e alle loro potenti associazioni? Quelle riconosciute sono sette (come le “sorelle” multinazionali del petrolio): FedercacciaANUULibera CacciaEnalcaccia, Arci Caccia (“i compagni della natura” recita il logo, buffo no?!)Italcaccia Ente Produttori Selvaggina.

Di certo la caccia non è una attività per poveri, di chi per condizioni di indigenza è costretto a trovare espedienti per mangiare, ma il suo esercizio annuale è molto costoso per ogni cacciatore.

Da uno studio dell’Università “Carlo Bo” di Urbino, commissionato dall’Anpam (associazione nazionale produttori armi e munizioni), affiliata di Confindustria, ultimo dato del 2019, la spesa totale sostenuta ogni anno dai cacciatori ammonta a 2.816.971.170 euro comprese armi e munizioni. Nello specifico sono state considerate le seguenti voci di spesa: armi (quota ammortamento), munizioni, abbigliamento, cani (acquisto, mantenimento, veterinari, ecc..), accessori (es.: richiami, buffetteria, coltelli, GPS), kit pulizia arma, tasse e concessioni, trasferimenti in Italia, pernottamenti e viaggi all’estero, piccoli consumi (pranzi, bar, ecc.). Considerato poi l’indotto generato, stimato in 2.388.595.266 euro, si arriva a 5.205.566.436 euro; all’incirca lo 0,4 del PIL italiano.

Sempre secondo l’Università, il numero totale di addetti attivati dalla caccia, sia per prodotti che per servizi, è pari a 36.826.

Considerato che nel 2019 i cacciatori erano di più, circa 760.000, si può stimare che ogni cacciatore spenda mediamente quasi 4.000 euro all’anno per la sua “passione”.

La risposta quindi è molto semplice: la caccia è un enorme business del nostro Paese. Per primo elettorale: i voti dei cacciatori sono contesi da tutti gli aspiranti Deputati, Consiglieri Regionali e Sindaci (e fino al 2013, prima dell’abolizione dell’elezione diretta dei vertici dell’Ente, soprattutto dai Consiglieri Provinciali, in quanto l’attività venatoria era una delle funzioni più importanti esercitate dalle Province). Ed in molti casi, non è scandaloso e provocatorio parlare di vero e proprio voto di scambio. Con passaggi di mano di contributi elettorali non dichiarati, oltre che dei tradizionali “santini”.

Nell’indotto economico intorno alla caccia, vanno poi considerati tutti i traffici più o meno leciti dell’allevamento dei cani da caccia, e l’attività commerciale della ristorazione italiana (che in particolare riguarda i cinghiali).

Relativamente poi ai cani da caccia, molte di queste povere bestie, spesso finiscono nei canili (quando va bene), o peggio sotto una macchina. Perché tanti di questi “grandi custodi della natura”, che si dicono da soli essere i cacciatori, quando vedono che nella fase di addestramento un cucciolo non è “capace” di fare il cane da cerca e riporto, lo abbandonano senza tanti complimenti in mezzo alla strada, o ai bordi di una zona rurale non abitata (a me è capitato di diverse volte di raccogliere poveri cagnolini da caccia che vagavano senza meta affamati da giorni).

Ma la cosa più esilarante, rimane proprio il fatto che i cacciatori si credono davvero una sorta di ambientalisti antelitteram, che con il loro girovagare sparando in mezzo ai campi o ai boschi, fino all’impallinare persone a ridosso delle abitazioni, monitorano il territorio e si occupano della sua salvaguardia. Mentre invece, è lecito chiedersi se una persona, non più vivente nel Paleolitico (in cui non erano state ancora inventate l’agricoltura e l’allevamento), ma nell’Antropocene, che si sveglia di notte per andare a sparare a delle creature viventi per puro divertimento (o come dicono “per passione”), sottraendo molto tempo alle relazioni familiari e amicali, possa essere un individuo con seri disturbi della personalità, di cui dovrebbe prendersi cura i servizi sociali territoriali. Mettendo a serio repentaglio per primo la propria vita, e quella degli altri. Ogni stagione venatoria, infatti, sono molti gli incidenti di caccia, in cui il più delle volte i cacciatori si “fucilano” tra di loro, o che sparano ferendo anche mortalmente persone che non c’entrano niente, che si trovano per caso, o per residenza, nei paraggi delle loro battute di caccia. I dati dell’Associazione Nazionale Vittime della Caccia (e già, in Italia, dopo le associazioni di vittime di stragi, terrorismo e mafia, abbiamo anche questa…) ci certificano che solo nella stagione venatoria 2021/2022, ci sono stati 24 morti (di cui 12 non cacciatori) e 66 feriti (di cui 23 non cacciatori).

Immaginate cosa potrebbe diventare questo tragico bollettino, quando la caccia al cinghiale, come approvato nel testo della Legge Finanziaria il 24 dicembre, verrà aperta tutto l’anno, anche nelle zone urbane abitate e nelle Aree Protette (dove per attività diverse del tempo libero, circolano tantissime persone, con tanti bambini).

Proprio nelle Marche, nel fermano, qualche giorno prima di Natale, un anziano cacciatore è stato ucciso da un proiettile vagante, partito durante la battuta dalla sua squadra di “cinghialari”, in cui era presente anche il figlio. Ma già l’anno scorso, a Camerino, il 2 dicembre è stata sfiorata la tragedia, quando un proiettile vagante partito da una carabina per cinghiali, ha colpito uno scuolabus che stava portando a casa i bambini dalla scuola.

Un proiettile da carabina per cinghiali, qualora non dovesse centrare il bersaglio diventando vagante, ha una gittata di qualche chilometro; e le battute di caccia, vengono effettuate da squadre di cacciatori formate da più di venti elementi, che si muovono tutti assieme contemporaneamente come un reparto militare. Figuratevi lo scenario.

Nelle squadre di “cinghialari”, ci sono tante persone equilibrate, ma anche altrettante socialmente disturbate, spesso anche minacciose e intimidatorie (durante la mia esperienza di Consigliere della Provincia di Ancona dal 2007 al 2012, ho avuto modo di conoscere questo mondo molto bene). Persone che magari la sera prima si frequentano a una cena di un club filantropico o a teatro, e che poi, il mattino dopo, finita la battuta di caccia, si ritrovano a compiere, con le carcasse dei cinghiali abbattuti, sanguinolenti riti scaramantici, tipici delle primitive comunità precolombiane del Centramerica (basta entrare in qualche pagina o gruppo Facebook di cacciatori, per vedere foto e video agghiaccianti, postati per autoesaltazione; ma anche i profili personali abbondano di immagini agghiaccianti).

Ricordo di aver conosciuto un tranquillo, diligente, ed educato funzionario di banca, che poi, appena dismesse giacca e cravatta, diventava un esaltato cacciatore di giorno, e anche bracconiere di notte.

Le squadre sono molto “pittoresche” anche nelle loro denominazioni: storiche, mitologiche, politiche. Ad esempio, una si chiama “Aquila Nera”; considerato che in natura l’aquila non è nera, ma nella simbologia politica è nera quella sulla bandiera della Repubblica Sociale Italiana, si possono fare delle riflessioni.

Rispetto a quella ai volatili, la caccia al cinghiale è un business più forte, per movimentazione elettorale ed economica. Il cinghiale “rende”. A tutti. Ai politici, ai cacciatori, ai ristoratori (ai quali le carni arrivano il più delle volte a seguito di scrupolosi controlli sanitari, ma anche “sottobanco”). Più cinghiali ci sono, meglio è. Tanto che questo, fa saldare innaturali e pessime alleanze tra associazioni venatorie e organizzazioni agricole. Riguardo proprio all’emendamento approvato nella Manovra, immediatamente sono usciti i comunicati stampa di plauso al Governo sia da parte di Coldiretti, che della CIA. Dino Scanavino, che è stato il Presidente Nazionale della CIA fino alla primavera 2022, in un’intervista rilasciata a un quotidiano nazionale nel 2021, avanzò persino la proposta di concedere una sorta di gettone/indennità statale ai cacciatori, per il loro encomiabile impegno di difensori dell’agricoltura italiana.

È provato che spesso sono stati, e sono, gli stessi cacciatori a immettere di nascosto nottetempo esemplari di cinghiali nei territori, ai fini della loro biologica moltiplicazione per l’attività di caccia. E i capi immessi, sono spesso frutto di incroci con i suinidi, provengono dall’Est Europa, e non hanno zoologicamente niente a che fare con il cinghiale autoctono dell’Appennino italiano; che pesa da adulto meno di un quintale, mentre nei nostri territori, spesso oramai vengono avvistati e abbattuti capi che pesano oltre i due quintali.

Clamorosa è la storia della zona del Parco del Monte Conero, nelle Marche. Lì il cinghiale non è mai stato una specie autoctona, ma ora è diventato predominante perché immesso dai cacciatori anni fa ai fini dell’esercizio venatorio, prima ancora che fosse istituita l’area protetta regionale.

Paradossalmente l’unica misura seria ed efficace per diminuire la proliferazione dei cinghiali, sarebbe l’abolizione della caccia. Ma ci sono per primo, specie in Europa, esperienze che non ricorrono alle carabine, ma alla scienza.

Il cinghiale non è poi così stupido. In zone dove l’attività di caccia viene intensificata di molto, oppure se in quel territorio mutano per antropizzazione, le caratteristiche naturali del paesaggio, gli ungulati si spostano e migrano in altre zone.

Nel fabrianese, nelle Marche, la realizzazione del raddoppio della superstrada 76 (il cosiddetto progetto Quadrilatero), in quasi vent’anni di lavori ha occupato ampie zone boschive e rurali con enormi cantieri rumorosi, illuminati a giorno anche di notte, e le nuove arterie stradali hanno ridotto di molto il paesaggio naturale. Qui si è potuto constatare che questi processi hanno indotto la fauna selvatica a spostarsi da alcune zone in altre più tranquille, dove in precedenza c’era molta meno presenza di popolazione animale. E la riduzione di paesaggio naturale, ha significato anche una minor quantità di acqua e di cibo, tanto che i cinghiali da anni si sono spinti per fame all’interno della zona urbana della città di Fabriano (se poi, come è avvenuto per anni, in quella città, il ciclo della raccolta differenziata, viene organizzato con i sacchetti messi fuori i portoni per tutta la notte, è come se gli ungulati avessero a disposizione un servizio ristorazione take away…)

Altra balla che è stata raccontata in questi giorni, in cui i cinghiali sono stati i veri protagonisti della Manovra di Bilancio, è che nelle Aree Protette (parchi e riserve) non c’è alcun controllo delle popolazioni della fauna selvatica, a partire dal cinghiale. Mentre, al contrario, nella stragrande maggioranza dei parchi, sono anni che vengono attuati piani di selezione, con abbattimenti programmati e fatti da agenti della Polizia Provinciale, o da singoli selecontrollori altamente formati. Ma questi soggetti, differentemente dalle squadre dei cinghialari, che ora si vorrebbero impiegare anche in città tutto l’anno, non creano né molto business economico, né tantomeno elettorale.

Da anni, ad esempio, nel Parco Naturale Regionale della Gola della Rossa e di Frasassi, centinaia di abbattimenti selettivi annui, vengono addirittura effettuati con cartucce “ecologiche” senza piombo, in quanto poi le carni debitamente controllate a livello sanitario, vengono messe sul mercato; ed è dimostrato che il piombo delle cartucce, altamente nocivo, rilascia nella carne del cinghiale un certo livello di tossicità per la salute umana.

Che fare, allora, di fronte a questo scenario, e nei prossimi 120 giorni, tempo dalla “bollinatura” della Legge Finanziaria in cui il Ministero della Sicurezza Energetica (già dell’Ambiente e della Transizione Ecologica) dovrà trasformare in atti e procedure l’indirizzo votato? Considerato che secondo un sondaggio commissionato a EMG Different nel febbraio 2022, il 76 per cento degli italiani vorrebbe l’abolizione della caccia, credo che debba essere lanciata una grande campagna di mobilitazione civile, individuale e collettiva, che metta in pratica alcuni principi e metodi della disobbedienza civile non violenta.

Non ci sono più le condizioni per far conto sulla politica, né tantomeno sul successo di nuove iniziative referendarie.

Le associazioni ambientaliste e animaliste per prime, dovrebbero promuovere tra le persone, chiedendo un piccolo impegno concreto, una campagna civile il cui slogan potrebbe essere, parafrasando un vecchio slogan: “Conosci un cacciatore? Digli di smettere”.

Si, perché ognuno di noi conosce almeno un cacciatore. Molto spesso è una persona che quotidianamente ci troviamo accanto: un parente, un amico, un collega di lavoro, quello con cui si scambia una battuta la mattina al bar o il pomeriggio in palestra; l’artigiano che viene a fare una riparazione a casa, il meccanico, il farmacista o il medico curante. Insomma, ci siamo capiti.

Verso queste persone che conosciamo, con educazione e rispetto, facciamo un’azione di moral dissuasion, cercando di metterle in contraddizione e a disagio per l’essere cacciatori; di farle esporre imbarazzate in un ambiente sociale (tipo al bar: “ciao Mario, ma ancora vai a caccia a sparare a delle creature viventi? Ma non provi un po’ di imbarazzo e vergogna?”).

Intervenendo sui social su notizie che riguardano la caccia, senza essere violenti verbalmente o offensivi, ma assertivi ed educati al tempo stesso (di solito si aspettano gli insulti, anzi se li cercano, sorprendiamoli con un altro stile).

Tanto più poi se sappiamo che questa persona è religiosa, e frequenta la Chiesa: “ma davvero vai in giro a sparare agli abitanti del Creato? Come fai a pregare San Francesco e nostro Signore?”

Un’azione lenta, dolce, che porti a far sentire queste persone dei disadattati, di cui non si ha piacere nell’incontrarli o nel doverli frequentare, e disagio nel conviverci sul posto di lavoro o in altre dinamiche relazionali.

Dopotutto, non è una missione impossibile, sono solo settecentomila.

Altra azione molto concreta, riguarda il boicottaggio economico e gastronomico: ciascuno, anche non necessariamente vegetariano e vegano, scelga di non essere cliente di ristoranti che servono nei loro menù piatti a base di selvaggina; chiediamo, quando prenotiamo un tavolo, se servono o meno selvaggina. Facciamo, a partire dal luogo di residenza, per ogni Comune d’Italia, una black list dei ristoranti che servono selvaggina, e facciamola circolare sui social e sulle chat.

Molte campagne civili, per conquiste di diritti, e per l’eliminazione di discriminazioni, che hanno avuto successo nella Storia, sono iniziate proprio con piccoli gesti individuali di boicottaggio. Perché non dovrebbe funzionare anche con i cacciatori?