18 dicembre 2022

REQUIEM PER IL PARTITO AMERICANO (il cosiddetto PD)

 





La questione morale da Berlinguer alla "Ditta"

  Massimo Giannini


Vedere il docufilm su Pio La Torre, venerdì sera, su Raitre è stato un colpo al cuore. Scorrevano le immagini sbiadite di comizi e interviste del segretario del Pci siciliano ucciso dalla mafia nell'82. Figlio di braccianti poverissimi, tutte le mattine Pio mungeva le vacche, poi per cinque chilometri consumava le suole già logore delle vecchie scarpe di sua madre, lui non aveva neanche quelle, e andava a scuola perché «solo la cultura ci salverà dalla miseria». Parlava sua moglie, composta nel dolore, dopo la mattanza di Palermo. Parlavano i suoi compagni. Giorgio Napolitano ricordava le sue battaglie nel sindacato e poi nel partito per chiedere «terra ai contadini e sviluppo per il Sud». Emanuele Macaluso rievocava tra le lacrime il suo coraggio nella lotta a Cosa Nostra e quella sua ultima profezia, «adesso tocca a noi», pronunciata pochi giorni prima di cadere sotto i colpi della manovalanza assassina dei Corleonesi.

Ripensavo a questo pezzo di Prima Repubblica, guardavo quelle facce scavate di gente vera e onesta, sentivo quelle parole dure, giuste, profonde. E non c'entravano il Pci o la Dc. C'entrava una certa idea della politica. La politica come missione e passione. La politica come comunità di destino, come servizio per la collettività e per il Paese. E mentre scorrevano le immagini, pensavo alla Tangentopoli di Strasburgo, alla nuova Qatar Gauche dei Panzeri e dei Cozzolino. Ai trolley pieni di soldi nei salotti, ai fondi neri alle Cayman. Com'è stato possibile questo scempio? Come ha potuto la sinistra partire da Pio La Torre e poi cadere in questo abisso? In tempo reale ho girato su whatsapp queste domande a Walter Veltroni, che ha scritto e diretto per la Rai quel prezioso frammento di Storia italiana.

Mi ha risposto: «Siamo stati una cosa bella, senza il cuore la politica è una cosa per brutta gente». Si ironizza spesso sul buonismo veltroniano. Ma ora provate a dargli torto. Provate a negare che se non ci sono valori e ideali la politica si riduce a professione e gestione. Di potere, di poltrone, di denaro. E provate a non riconoscere quanto sia sacrosanto l'appello lanciato ieri sul nostro giornale da Lucia Annunziata, e rivolto ai nipotini indegni di Pio La Torre confluiti nel Pd, «l'amalgama mal riuscito»: anticipate questo benedetto congresso e dedicatelo tutto alla "Questione morale", che poi è anche la questione sociale. Parlateci senz'altro di questo Qatargate, del "Sistema-Panzeri" perché anche se ora non lo è più, è stato cosa vostra. Magari metteteci pure il caso Soumahoro, che è Alleanza Verdi e Sinistra ma è pur sempre nella vostra metà del campo. E spiegateci come sia potuto accadere che la sinistra dei diritti e della difesa degli ultimi oggi usa proprio i diritti e gli ultimi per lucrare le sue miserabili prebende attraverso le apposite Ong. Ma soprattutto interrogatevi su come "il partito degli onesti", quello dell'etica pubblica e del bene comune, quello dell'egemonia culturale e della superiorità morale, sia potuto diventare un qualsiasi Psdi 4.0, permeabile al malaffare e alle mazzette.

Non basta più invitare la destra a sciacquarsi la bocca prima di accusare la "sinistra corrotta". Lo sappiamo dagli anni del Caf di Craxi-Andreotti-Forlani fino ad arrivare a Tangentopoli e poi al Berlusconi dei 18 processi e delle leggi ad personam: nascosta dietro la foglia di fico del garantismo, la destra ha sempre avuto un'altissima soglia di tolleranza verso gli scandali, i conflitti di interesse, i traffici tra politica e affari e i reati contro la pubblica amministrazione. Anche questa auto-rappresentazione, in parte, l'ha aiutata ad accrescere i suoi consensi, in virtù di quella che il filosofo Franco Cassano definiva "l'umiltà del male", la capacità di chi fa politica di astenersi dai giudizi di disvalore verso chi sbaglia, di non rivendicare mai la propria superiorità morale, di essere o di mettersi sempre sullo stesso piano del cittadino che non paga le tasse, non versa i contributi alla colf, non paga le multe. È la stessa logica che ispira la legge di bilancio del governo Meloni, infestata di simil-condoni e di sostegni impliciti al sommerso, e la riforma della giustizia del Guardasigilli Nordio, infarcita di più depenalizzazioni e meno intercettazioni, di inasprimenti del controllo politico sulle procure e di annacquamenti della legge Severino sull'incandidabilità dei condannati in primo grado. Tutte queste evidenze le conosciamo. Ma è della sinistra, adesso, che bisogna discutere. Senza cercare la trave nell'occhio dell'altro.

Non serve la condanna indignata di quella cloaca di milioni sporchi che gli emissari dello sceicco Al Thani alimentavano a piene mani a vantaggio degli europarlamentari e dei loro manutengoli. Letta, Bonaccini, Schlein: sono passati lunghi giorni, prima che aprissero bocca, per limitarsi poi a denunciare i traffici "oltraggiosi e inaccettabili". Roberto Speranza sarà pure "incazzato nero" per quello che è successo, ma poi? Gli unici che finora hanno avuto il coraggio di fare un passo in più sono stati Gianni Cuperlo e Sergio Cofferati. Il primo, rifiutando a priori la scusa delle "mele marce" e contestando il rito cannibale e populista con il quale in questi anni la politica stessa ha celebrato, accelerandola, la morte dei partiti e salutando con feroce gioia l'eliminazione del finanziamento pubblico. Il secondo, bocciando l'eccessiva "cautela" con la quale i partiti hanno liquidato il vergognoso falò di "valori costituzionali" perpetrato a Bruxelles e puntando il dito contro la zona grigia che cresce tra partiti e lobby.

Ha ragione Lucia Annunziata: al di là degli errori che ha commesso, è da Enrico Berlinguer che bisognerebbe ripartire. Quello del Comitato centrale del giugno '74 («si metta fine ai finanziamenti occulti, agli intrallazzi, alle ruberie…»). Quello del discorso in Parlamento del febbraio '76 («basta col sottogoverno, il clientelismo, le spartizioni, le commistioni tra potere politico e potere economico…»). Quello dell'intervista a Eugenio Scalfari del luglio '81 («I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela… Sono federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto boss…»). Tutto quello che la sinistra ha smarrito sta esattamente qui, in queste parole del suo leader più carismatico e più rappresentativo.

Se oggi il Pd finisce negli scandali come qualunque altro partito non è solo perché la carne è debole, l'occasione fa l'uomo ladro e via banalizzando nel gorgo dei luoghi comuni che parlano a tutti ma non dicono niente. Ma è perché ha ceduto ai suoi tre "ismi" più imperdonabili. Il "governismo": mosso da un senso assai lato della responsabilità, nell'eterna crisi di sistema del Paese il partito si è prestato a qualunque kamasutra pur di garantire stabilità, preferendo governare con le idee degli altri piuttosto che andare all'opposizione con le sue. L'"elitismo": la permanenza nel Palazzo, nelle istituzioni e nelle amministrazioni, lo ha mutato in establishment, autosufficiente e autoreferenziale, fino a fargli recidere le sue antiche radici dal blocco sociale di riferimento e a spingerlo a piantare le nuove nelle nicchie elettorali acculturate e nelle Ztl delle grandi città. Il "correntismo": governare i territori, dall'alto, ha moltiplicato nomenklature e centri di potere autonomo, sciolti da un corpus di ideali condivisi e riaggregati sulla mera distribuzione di posti, liste, candidature.

I soldi hanno fatto il resto. Ed ha ancora più ragione Annunziata a fissare un evento-simbolo, dopo il quale nulla è stato più come prima. Il vertice mondiale del novembre '99 a Firenze, sul "Riformismo del XXI Secolo", segna davvero una svolta, nel rapporto tra la sinistra e il capitalismo, e dunque tra la sinistra e il denaro. Entrata finalmente in prima persona nella stanza dei bottoni, senza più patronage post-democristiane (vedi Romano Prodi), la sinistra di Massimo D'Alema declina insieme a Clinton, Blair, Schroeder, Jospin e Cardoso il nuovo manifesto del "Rinascimento occidentale" (quello saudita sarebbe arrivato ventidue anni dopo) e del Riformismo Globale. La Terza Via di Anthony Giddens prova a riscrivere il patto sociale, cercando una strada alternativa tra la socialdemocrazia statalista e la dottrina neoliberista, fondata sulla globalizzazione e sulla società aperta, sull'alleanza tra Stato e mercato, sull'uguaglianza delle opportunità, sulla tutela dinamica dei diritti. Per fare tutto questo, soprattutto in Europa, la sinistra di governo deve per forza imparare a gestire il denaro, che dunque assume un'importanza che va quasi al di là del suo valore d'uso. Diventa Instrumentum regni. E poi anche way of life.

Se all'estero fanno scuola la montagna di dollari guadagnata da Blair in Medioriente e le colossali fortune lucrate da Schroeder ai vertici della putiniana Gazprom, in Italia il dalemismo ha un ruolo cruciale. Non è solo l'orgoglio per le scarpe da un milione di lire o le vacanze su Ikarus. È anche il realismo col quale l'allora premier ti mostrava le lettere dell'"amico Tony", che chiedeva al governo di Roma di far partecipare le aziende inglesi alla privatizzazione dell'Acquedotto Pugliese. «La politica è anche questo», ripeteva il Lider Maximo. E non aveva torto. Il problema è che poi la politica è spesso diventata solo questo. Praticata da figure e controfigure sempre più "emancipate" e spregiudicate, si è ridotta ad affarismo. Dall'Opa su Telecom dei "Capitani coraggiosi" al lobbing in conto Qatar sulla vendita della raffineria Lukoil di Priolo il passo è stato troppo breve. E non vale solo per D'Alema. Per Matteo Renzi il passo dalla riforma delle banche popolari alle conferenze strapagate a Riyad è stato ancora più breve. Nulla di penalmente rilevante, come si dice. Ma qualcosa di deludente, questo sì. Se tutta la gloria passata finisce solo in consulenze, a che è servita la politica?

In teoria, a rileggerlo oggi non c'era quasi nulla di sbagliato in quel Manifesto dei Riformisti, a parte il suo velleitarismo. Diciamo che ha fallito la pratica. Qualcuno ha interpretato in senso troppo letterale "la Ditta" cara a Pierluigi Bersani. E aggiungiamo che tutto questo ha finito per contaminare anche la sinistra radicale e pulviscolare. Ho ritrovato una strepitosa intervista di Concita De Gregorio a Paola Natalicchio, candidata di Leu nella sconfitta del voto 2018. Diceva già tutto: «Abbiamo imbarcato i cattivi sulla barca dei buoni. E siamo diventati una zattera… Siamo un mix di nepotismo e dinosauri… O provavamo a fare Podemos, o facevamo l'accordo con loro, con "la Ditta"… Alla fine siamo diventati una sinistra di pulci con la tosse…». Dopo La Torre, dopo Berlinguer, cos'altro rimane "di cotanta speme"? —

 Massimo GianniniLa questione morale da Berlinguer alla "Ditta",

La Stampa, 18 dicembre 1922 



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