Guardare senza vedere, pensare senza sentire
C’è davvero un nesso indissolubile tra la guerra e la rivoluzione, come indica gran parte della storia del Novecento? Possiamo acquisire un punto di vista rivoluzionario sulla guerra? Coloro che aspirano ancora a rovesciare il sistema dominante cambiando alla radice e in profondità le relazioni sociali possono ancora guardare alla guerra, oggi in particolare a quella che si combatte in Ucraina, come a un’occasione tremendamente dolorosa, difficilissima ma propizia per “trasformare la guerra imperialista tra i popoli in una guerra civile delle classi oppresse contro i loro oppressori”. Maurizio Lazzarato è tra i pochi e più autorevoli studiosi e pensatori italiani che all’idea di rivoluzione non hanno certo rinunciato. Ne abbiamo molta stima e non solo per questo. Nel suo ultimo libro sostiene che la guerra è un elemento costitutivo del rapporto tra Stato e capitalismo, che il concetto di guerra sarebbe stato espulso per mezzo secolo dal pensiero critico, che la pace non è un’alternativa e che la situazione attuale, per alcuni versi, parrebbe somigliare a quella che nel 1914 favorì Lenin e i suoi compagni nel dar vita a un incendio di portata epocale che ebbe il grande merito di “aprire la strada alla rivoluzione dei popoli oppressi”. Raúl Zibechi contesta diversi passaggi di questa lettura, la associa con amarezza ai limiti dell’eurocentrismo, ricordando che la guerra contro i popoli, al di fuori dei Nord del mondo, non cessa da cinque secoli e chi la vive sulla pelle non ha mai smesso di gridarlo. Denuncia il ruolo di avanguardie che hanno usato i popoli mandandoli allo sterminio per le loro guerre “rivoluzionarie” per poi riposizionarsi comodamente nella legalità. Aggiunge, Raúl, che gli zapatisti, dalla fine del secolo scorso, hanno saputo rompere il nefasto connubio guerra-rivoluzione proprio di fronte a una guerra asimettrica. Una guerra che, perfino in caso di vittoria, avrebbe potuto renderli simili a ciò che hanno sempre combattuto. Lo stesso avviene in diversi altri territori dove los de abajo resistono ribellandosi all’estrattivismo, alla violenza armata e alla colonialità del potere. Una discussione appassionata quanto importante
L’invasione russa dell’Ucraina e la conseguente guerra tra potenze sta avendo effetti profondi sul pensiero critico e i movimenti, ma questo sembra avvenire in modo divergente nel Nord del mondo e in América Latina: si approfondiscono le differenze e le distanze nei modi di concepire e praticare le trasformazioni anticapitaliste, così come i modi di pensare la realtà.
Nella storia del pensiero critico, la guerra e la rivoluzione si sono intrecciate, lo hanno fatto a tal punto che è quasi impossibile non mettere in relazione la seconda con la prima. Il recente libro di Maurizio Lazzarato, Guerra o rivoluzione. Perché la pace non è un’alternativa (DeriveApprodi, 2022), recupera il concetto di guerra che, a suo avviso, sarebbe stato “espulso” dal pensiero critico negli ultimi 50 anni.
Il nucleo del suo lavoro ritorna alla proposta di Lenin del 1914, nel senso di “trasformare la guerra imperialista tra i popoli in una guerra civile delle classi oppresse contro i loro oppressori”. Lazzarato sostiene che il grande problema è stato, allo stesso tempo, l’abbandono del concetto di classe, oltre a quello di guerra e rivoluzione. E assicura che la situazione attuale è molto simile a quella del 1914.
Questa è una prima e decisiva differenza: in questo continente (nell’América Latina, ndt) la guerra è presente e non può essere nascosta, in particolare quella contro i popoli originari e gli afroamericani, i contadini e gli abitanti delle periferie urbane. Le “guerre contro la droga” e l’appropriazione di territori da parte dell’estrattivismo sono solamente l’ultima versione di una secolare guerra contro i popoli.
Tuttavia, l’aspetto centrale da evidenziare è un altro. I popoli stanno affrontando le guerre contro di loro in forma asimmetrica, non perché siano pacifisti, ma perché una lunga esperienza di cinque secoli li ha convinti che per sopravvivere come popoli devono prendere altre strade.
Lo zapatismo è riuscito a rompere gli anelli di congiunzione che esistevano tra rivoluzione e guerra e, nello stesso processo, ha estirpato dalla rivoluzione le sue aderenze stataliste, per lasciare intatto il suo nucleo: il recupero dei mezzi di produzione e di scambio, la creazione di nuove relazioni sociali e di poteri non statali. Le autonomie sono la via, sia per resistere alla guerra di espropriazione sia per affermarsi in quanto popoli che si autogovernano.
È certamente vero che le sinistre europee, e anche quelle latinoamericane, sono rimaste senza politica, senza proposte concrete di fronte alla guerra. Però i popoli di questo continente, esperti nel sopravvivere a guerre di espropriazione, per affrontare questa guerra stanno prendendo strade senza precedenti. Lo fanno i Mapuche, i Nasa, i Misak e dozzine di popoli amazzonici, così come lo fanno i neri e campesinos. Cominciano a porre l’autonomia al centro delle loro costruzioni e riflessioni, cosa che, a quanto sembra, sfugge agli intellettuali di entrambe le sponde dell’oceano.
Un ulteriore esempio di quell’eurocentrismo che pretende di parlare “per” i popoli oppressi si dà ora quando Lazzarato fa notare che «il grande merito della rivoluzione russa è stato quello di aprire la strada alla rivoluzione dei popoli oppressi». Dimentica niente di meno che la rivoluzione messicana e la prima rivoluzione cinese. I processi più profondi nascono nelle periferie, molto più tardi si espandono verso il centro.
Non è affatto certo che “la posizione più chiara rispetto alla guerra” sia “ancora quella socialista rivoluzionaria” durante la Prima Guerra Mondiale. È stata sì molto valida, nella sua epoca, per le classi lavoratrici della Russia e dell’Europa, ma ha fallito in Cina, dove i comunisti presero strade ben diverse, creando basi rosse liberate dall’esercito contadino, un processo seguito poi anche da altri popoli del sud.
Gli eurocentristi pensano di comprendere quel che succede in América Latina e considerano le nostre lotte come “laboratori” che confermerebbero ogni volta le loro elucubrazioni. Alcuni di loro si sentono “teoricamente disarmati” di fronte alla guerra, ma non hanno alcuna intenzione di imparare qualcosa dalle esperienze di popoli che sopravvivono a cinque secoli di massacri e stermini. Si preoccupano solo della produzione teorica delle accademie e delle sinistre che fanno riferimento agli stati-nazione, cioè alla colonialità del potere.
A me pare invece necessario riflettere su come i popoli con radici maya organizzati nell’EZLN abbiano smantellato proprio il connubio guerra-rivoluzione, un connubio che nel pasato recente ci ha procurato tanti danni e che ha prodotto risultati così pessimi.
Non è più ammissibile, ad esempio, ignorare coloro che furono sterminati nelle guerre centroamericane, e neppure come le avanguardie si siano poi riposizionate nella legalità abbandonando i popoli che avevano usato (sì, usato) per la loro guerra “rivoluzionaria”.
La decisione da parte degli zapatisti di adottare una resistenza civile pacifica per far fronte alla guerra asimmetrica e allo sterminio dello Stato messicano, è una decisione strategica, ma non ha il minimo rapporto con il pacifismo (1), se dello zapatismo ho capito qualcosa. Si tratta di una lettura dal basso – dalla prospettiva dei popoli – delle sfide che il sistema ci lancia.
Nota
(1). Con quest’affermazione sul pacifismo e i pacifisti – se interpretiamo correttamente il suo pensiero alla luce di più di vent’anni di confronti intensi e approfonditi – Raúl non intende riferirsi ai movimenti in lotta per la pace nel mondo intero ma a una rinuncia astratta, basata solo su una posizione di principio estranea ai contesti reali e storici, della possibilità di difendersi dalle aggressioni violente del capitale e dei suoi strumenti legalizzati e non, come ad esempio l’apparato dello Stato. Per quanto riguarda poi l’utilizzo delle armi da fuoco – cui gli zapatisti hanno rinunciato già nel 1994 (si veda la bellissima intervista di Gea Piccardi e Duccio Scotini con Gustavo Esteva, che definisce gli zapatisti “campioni della nonviolenza in Messico”, per noi di Comune un riferimento essenziale su questo punto) – potrebbe essere sufficiente ricordare che nel viaggio in Europa la delegazione zapatista “tiene prohibida la portación y uso de armas de fuego de cualquier tipo, y no puede ni proponer, ni sugerir, ni alentar cualquier actividad que implique, o derive en, el uso de armas de fuego en el lugar donde haga su trabajo”. (m. c.)
Fonte originale in La Jornada
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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