Da un rifugiato all’altro ( Dettagli)
‘Anzitutto non vorremmo essere definiti “rifugiati”’, così comincia l’articolo Noi rifugiati di Hannah Arendt, del 1943 e opportunamente ristampato oggi, nel quale racconta con sobrietà autobiografica e rigore filosofico la propria esperienza di rifugiata. Letterariamente, dato il titolo dell’articolo, è un incipit geniale come lo possono essere solo certe constatazioni della realtà, tanto evidenti quanto normalmente sottaciute. L’appassionato di dettagli, il dettagliante, non potrà fare a meno di notare che per buona parte di quelle persone che oggi si trovano nei vari nonluoghi più o meno concentrazionari posizionati alle frontiere del mondo occidentale, in cui finisce o comincia chi non ha i documenti a posto, riuscire a farsi definire ufficialmente ‘rifugiato’ significa invece abbandonare questa condizione di inesistenza legale, che Arendt ascrive alla condizione di rifugiato, per trovare finalmente posto dietro una figura legalmente riconosciuta e socialmente accettata, anche se disprezzata da parte di una fetta considerevole della società. Certo questo rovesciamento è proprio il portato delle esperienze tragiche della seconda guerra mondiale per cui la figura del rifugiato è diventata una situazione riconosciuta perlomeno nelle legislazioni e nelle costituzioni dei paesi democratici, come fa per esempio l’articolo10 della Costituzione italiana. E poi non bisogna esagerare con i paragoni, dai centri di detenzione per i migranti fortunatamente qualcuno ce la fa a uscire e a campare la sua vita, mentre se Arendt, approfittando dei giorni di interregno tra il governo francese e l’occupazione tedesca nel 1940, non fosse scappata dal campo di internamento di Gurs, dove le autorità francesi internavano le ebree tedesche fuggite dalla Germania di Hitler in quanto ebree perché divenute sospette in quanto tedesche, sarebbe finita come le sue compagne direttamente ad Auschwitz.
Il motivo per cui i rifugiati preferivano non farsi chiamare rifugiati negli Stati Uniti era di rispettabilità sociale perché rifugiato era chi era stato tanto sfortunato da essere privo di mezzi e da avere bisogno dell’aiuto di un comitato rifugiati. Insomma la riprovazione sociale del pezzente era quella riservata al rifugiato. Oggi in fondo per un motivo della stessa natura il termine migrante è di grado inferiore indicando colui che se ne è andato senza una reale giustificazione se non la propria povertà, mentre il rifugiato è dovuto fuggire a causa di qualche cosa che lo accomuna alle persone perbene, in quanto non è un semplice disperato ma è in grado di dimostrare di essere un portatore di diritti civili violati.
Certo potrebbe far specie che nell’epoca della globalizzazione qualcuno possa ancora chiosare con la propria pelle la frase di Hannah Arendt che passaporti e certificati di nascita diventano strumenti di differenziazione sociale. Ma questo rivela due aspetti ideologici della globalizzazione; il primo è che non è vero che la globalizzazione supera gli stati nazionali, semplicemente li subordina agli interessi del capitale privato, che è ubiquo, ma poi ne rispetta la loro funzione all’interno di questi limiti; il secondo è che la globalizzazione ha come fine la libera circolazione delle persone, sì, ma solo in quanto libera circolazione delle merci e che una parte di una merce abbondante e poco costosa come la forza lavoro vada persa, se questo serve a mantenere stabile la struttura generale della società, è accettabile in quanto tale perdita non determina aumenti del suo costo.
da https://www.nazioneindiana.com/2022/12/09/da-un-rifugiato-allaltro-dettagli/
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