E’ scomparso il 21 dicembre Alberto Asor Rosa. Per ricordarlo, riprendiamo questo articolo di Massimo Raffaeli, pubblicato su Le parole e le cose l’8 giugno 2015
A. ASOR ROSA, SCRITTORI, POPOLO e MASSA
di Massimo Raffaeli
Pochi libri di critica hanno inciso così profondamente nel senso comune come Scrittori e popolo, uscito cinquant’anni fa da una piccola editrice romana, Samonà e Savelli, che allora garantiva una specie di samizdat alla sinistra extraparlamentare. Lo firmava uno studioso ancora giovanissimo, poco più che trentenne, Alberto Asor Rosa, allievo di Natalino Sapegno all’università di Roma, attivo nei “Quaderni Rossi” e compagno di via di Raniero Panzieri. Si trattava di un esordio geniale, sorprendente per la padronanza di una strumentazione in cui la capacità di delineare un quadro storico per ampie campiture e tagli dialettici si integrava ad una microfisica testuale, nel campionario dei testi analizzati, di secca e persino spietata precisione analitica.
Paradossalmente, non si trattava di un libro ideologico ma di un libro critico, nell’accezione etimologica, il cui orizzonte d’attesa era di totale alterità rispetto al quadro convenuto della sinistra istituzionale e della cosiddetta via italiana al socialismo. In effetti, Scrittori e popolo era un libro di critica della “italianità” letteraria analizzata nella lunga durata e con un’ottica che oggi diremmo annalistica circa una nozione, il populismo, declinata a destra quale folclore endogeno o clausura autarchica e dedotta, o meglio diluita, a sinistra nei termini di un generico o irenico progressismo. Questo era infatti l’incipit folgorante di quel libro: “L’uso del termine populismo è legittimo solo quando sia presente nel discorso letterario una valutazione positiva del popolo, sotto il profilo ideologico oppure storico-sociale oppure etico. Perché ci sia populismo, è necessario insomma che il popolo sia rappresentato come un modello”.
Diviso in due, la prima parte di Scrittori e popolo tracciava un quadro storico a maglie fittissime di quella nozione capitale, dall’Unità alla Resistenza, dalle riflessioni di Gioberti e Oriani ai Quaderni di Gramsci, cogliendone la vischiosità e l’ambiguità per esempio tra i “fascisti di sinistra” (Vittorini per primo) quasi fosse, il populismo, una incombenza ipotecaria fatalmente ricevuta anche fra i convertiti, nel secondo dopoguerra, al neorealismo e/o al comunismo (e, qui sia detto per inciso, che proprio tale quadro è in realtà la sinopia dell’altro grande contributo di Asor Rosa, cioè il quarto volume, tomo secondo della Storia d’Italia einaudiana, intitolato La cultura che taluni allora presero, nel ’75, per una palinodia); la seconda parte di Scrittori e popolo contiene invece quelle che l’autore definiva “esercitazioni”, analisi in vitro della produzione di Cassola e Pasolini, severissime e tuttavia utili non tanto a un giudizio di valore complessivo, meno che mai a una loro eversione in blocco, quanto alla messa a fuoco di una serie di contraddizioni o di aporie (l’intimismo di Cassola, l’estetismo di Pasolini) da misurare col metro della produzione grande-borghese, Pirandello, Svevo, Montale.
Cinquant’anni e però sembrano molti di più: questo giova al valore del libro (pochi testi della nostra critica, dopo tutto, appaiono meno datati e perciò ancora discutibili, vale a dire saldi nell’impianto e sicuri nelle soluzioni interpretative) ma questo dice d’altra parte che il quadro è mutato irreversibilmente, come adesso attesta la ristampa arricchita da una sua necessaria appendice, Scrittori e popolo 1965-Scrittori e massa 2015 (Einaudi, “Piccola biblioteca”, pp. 430, € 32.00). Asor Rosa nel suo più recente contributo muove dalla consapevolezza che è venuta meno, e nei modi di una disintegrazione, l’esistenza stessa di un “popolo” e con essa delle “élites” che ne interpretavano e insieme convogliavano le dinamiche sociali e politiche, per dar luogo qui e ora a una massa assoggettata e reclusa negli spazi di quella che pure definisce una “democrazia passiva”. Ciò ai suoi occhi comporta una serie di conseguenze capitali, grosso modo a partire dal passaggio di millennio: il tramonto della modernità quale spazio del conflitto (di idee, posizioni, organizzazioni); la rottura del rapporto con una tradizione secolare di testi, valori, orientamenti; l’obsolescenza della critica e della sua funzione primordiale che è quella di mirare sempre ad una alterità nella stessa percezione degli oggetti sottoposti al suo vaglio; infine la presenza ubiquitaria di un’industria culturale che ha saputo trasformare il mercato e i suoi cicli di produzione e consumo in un vero e proprio stato di natura.
Anche in Scrittori e massa non interessa allo studioso individuare ritratti monografici e stilare specifici giudizi di valore ma la messa a fuoco di un comune orizzonte, di costanti tematiche dentro un campionario che associa narratori e poeti nati fra gli anni cinquanta e ottanta del secolo scorso. Quello che colpisce, con evidenza statistica, è non soltanto la loro produttività (sollecitata dai ritmi ormai convulsi della editoria) e la diffusa originalità delle fisionomie testuali (indotta magari dal ri-uso delle fonti tradizionali o dalla contaminazione perpetua con i mezzi di comunicazione di massa), quanto uno stato di isolamento, o peggio, di “atomismo individualistico” che li obbliga a produrre in una specie di trance e nello spazio-tempo di un eterno presente. Il che vuol dire che si chiede loro di produrre delle storie, delle “belle” storie, ma non di riflettere, di prendere la parola, e di continuo, ma non di prendere una posizione circa il vivere in società, in questa società, o sui destini generali come era d’uso viceversa fra gli ultimi grandi maestri (Pasolini, Fortini, Calvino) per cui dirsi scrittori e intellettuali era sinonimo. Asor Rosa non rinvia gli scrittori di oggi alla pratica dell’engagement ma piuttosto individua il tabù più diffuso, per cui la pratica dello storytelling è appunto la compensazione del silenzio tombale riguardo ai meccanismi sociali, al pensiero unico che governa le coscienze, ai grandi poteri che propongono la globalizzazione e i suoi istituti economico-finanziari come il solo e il migliore dei mondi possibili. (Esemplare in tal senso è l’analisi di Gomorra e del caso Saviano nella intersezione, come nella ambiguità, di testimonianza e fiction). E’ probabile Asor Rosa qui trascuri alcuni segnali in controtendenza, quali il ritorno della letteratura di reportage e di docufiction, nonché il redivivo dibattito intorno alla nozione di “realismo”, ma è comunque comprensibile il fatto che colga nella parola dei più atomizzati e isolati rispetto al contesto, i poeti e le donne specialmente, tra opacità sociale e vivida sussultante esperienza del corpo, quei nessi di fertile contraddizione e quelle verità che ai narratori per lo più sono inibite o deliberatamente impedite. Così si conclude Scrittori e massa: “In letteratura, come in qualsiasi altra operazione storica umana, non c’è disvelamento della verità senza conflitto. Solo l’’opposizione’ […] consente il disvelamento delle apparenze e l’emergere dei tratti più nuovi del reale – e del pensiero. […] Se non c’è conflitto, non c’è pensiero nuovo; e se non c’è pensiero nuovo non c’è nuova rappresentazione – il mondo resta una veste esteriore che ricopre a stento, sempre, le vecchie apparenze ”. Scrittori e popolo era nato da un’identica persuasione ma oggi è un grido che risuona, abbastanza disperato, nella nostra pace domestica.
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