20 dicembre 2022

LO SPAZIO DEI VINTI NELL' OPERA DI G. VERGA

 


E’ uscito da poco per Carocci Lo spazio dei Vinti. Una lettura antropologica dell’opera di Verga, di Riccardo Castellana. Ne pubblichiamo l’introduzione riprendendola dal sito https://www.leparoleelecose.it/?p=45735


LO SPAZIO DEI VINTI

Riccardo Castellana


Tra le premesse della cosiddetta “conversione” al Verismo, i critici di Verga non hanno mancato di ricordare, prima di tutto, il contesto in cui essa avvenne, e cioè quello della Milano degli anni Settanta: una città avvolta, certo, da quell’«atmosfera di Banche e di Imprese industriali» denunciata dalla prefazione a Eva (1873), ma anche (e anzi proprio per questo), mèta di migrazione intellettuale, crocevia di influenze culturali europee e sede del sistema editoriale più moderno e avanzato d’Italia. In secondo luogo, si è data giusta importanza anche a questioni più specifiche, di tecnica narrativa, come la scoperta dell’impersonalità di Flaubert, avvenuta già nel 1874 con la lettura di Madame Bovary, ma metabolizzata solo più tardi, grazie all’incontro decisivo, tre anni dopo, con l’Assommoir di Zola. Infine, non si è trascurato di sottolineare come la “questione meridionale”, entrata prepotentemente nel dibattito politico postunitario in quello stesso 1877 grazie alla pubblicazione dell’Inchiesta in Sicilia, avesse fornito all’autore la base ideologica e documentaria per una novella di svolta come Rosso Mal- pelo (1878), fortemente debitrice, come è noto, nei confronti delle pagine di Sidney Sonnino sullo sfruttamento dei carusi. Ciascuno di questi tre fattori, sui quali torneremo anche noi nel corso di questo libro, contribuisce a spiegare non solo l’abbandono definitivo, da parte di Verga, del provincialismo culturale catanese (e poi fiorentino), del sentimentalismo patriottico giovanile (Amore e patriaI carbonari della montagnaSulle lagune) e del tardo-romanticismo (Una peccatrice Storia di una capinera), ma anche il rapido esaurimento di quella duplice fase di transizione caratterizzata per un verso dai romanzi “mondani” (EvaTigre reale ed Eros) e per l’altro dal paternalismo filantropico di una novella non ancora verista come Nedda (1874).

 C’è però un quarto elemento ugualmente decisivo, sebbene non sempre riconosciuto come tale dalla critica, che spiega non solo la genesi del Verismo ma anche molti aspetti della nuova poetica di Verga, ed è l’incontro, avvenuto verso la fine degli anni Settanta, con la demopsicologia di Giuseppe Pitrè (1841-1916) e più in generale l’interesse dello scrittore per gli studi sul folklore siciliano, sulla mentalità, sulle tradizioni e sulla cultura materiale di un’ampia area del Sud Italia tenuta ai margini di un processo di modernizzazione che tuttavia, proprio negli anni successivi all’Unità, ne stava minacciando l’integrità e le fondamenta etiche e sociali. Adottando una metodologia scientifica moderna, Pitrè condivideva gli stessi presupposti della coeva antropologia positivista britannica: l’estensione del pensiero evoluzionista dal dominio strettamente biologico (Darwin) a quello sociale (Spencer), il ricorso al concetto di “razza” e di “primitivo” [1], il vaglio rigoroso e lo studio a tavolino dei resoconti degli informatori e dei corrispondenti, la comparazione tra le diverse tradizioni popolari e, infine, un atteggiamento tutt’altro che relativistico nei confronti dell’alterità, dalle cui manifestazioni più “barbare” e irrazionali, anzi, tanto gli etnologi quanto i demologi di fine secolo prendevano risolutamente le distanze. Non era quindi una dimensione né localistica né attardata, quella in cui si muoveva Pitrè, il quale era anzi in contatto epistolare con molti etnologi europei e dette vita al monumentale progetto della “Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane” proprio nel 1871, quando Edward Burnett Tylor inaugurava, con Primitive Culture, l’antropologica culturale: se l’oggetto era diverso – le tribù dell’Oceania e altre civiltà “primitive” extraeuropee per Tylor, il «primitivo domestico» per Pitrè (Clemente, 2001, p. 523)–, il metodo d’indagine, tuttavia, era sostanzialmente lo stesso.

 

Verga aveva frequentato il medico palermitano già negli anni fiorenti- ni, ma solo più tardi si sarebbe servito, per la stesura finale dei Malavoglia, nell’estate del 1880, dei Proverbi siciliani apparsi proprio nei primi mesi di quell’anno (Pitrè, 1880). Già nel maggio, però, aveva chiesto in prestito all’amico Luigi Capuana, folklorista dilettante e irriverente, l’opuscolo pitreano sugli Usi nuziali siciliani del 1878 (confluito l’anno dopo in Usi natalizi, nuziali e funebri del popolo siciliano) e, se sono vere alcune ipo- tesi che proveremo ad avanzare nei prossimi capitoli, anche da quel breve scritto Verga ricavò qualche buona idea per il romanzo. Difficile dire quali altri libri di Pitrè fossero presenti sul tavolo di lavoro milanese di Verga pri- ma del 1881, ma è lecito supporre, come si vedrà più avanti, che vi avessero transitato almeno i Canti popolari siciliani (1871) [2] e la fondamentale rac- colta delle Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani (1875), e che la consul- tazione di entrambe le opere abbia avuto una qualche parte nella scrittura dei Malavoglia e di alcune novelle. Ma al di là delle relazioni intertestuali documentabili, che pure contano e che aspettano ancora di essere ricostruite nei particolari, ciò che apparirà chiaro, adottando una prospettiva an- tropologica, è che la rappresentazione verghiana del mondo popolare non è il frutto della rievocazione nostalgica di un microcosmo idilliaco, come pensava Luigi Russo, il primo grande interprete di Verga, ma il risultato del confronto con una visione scientifica dei fenomeni socio-culturali.

 

Anche per questo, l’attenzione di Verga per la demologia siciliana non va letta in un’ottica provinciale e localistica, ma deve essere considerata, al contrario, come uno dei punti di tangenza della poetica verista con la più avanzata cultura europea del tempo: così come Pitrè e altri stavano liqui- dando il mito del Volksgeist e l’idealizzazione romantica del Popolo, allo stesso modo l’autore di Vita dei campi e dei Malavoglia raccontava un’alterità culturale di cui offriva, per la prima volta nell’ambito della fiction, una rappresentazione realistica, antiromantica e fondata sul vero, ossia appunto su una rigorosa analisi scientifica del dato antropologico.

 

Quanto tutto ciò fosse straordinariamente simile al lavoro dell’etnologo Verga lo sapeva bene e ce lo lascia intendere nelle parole che scriveva a Capuana nel marzo del 1879:

 

avrei desiderato andarmi a rintanare in campagna, sulla riva del mare, fra quei pescatori e coglierli vivi come Dio li ha fatti. Ma forse non sarà male dall’altro canto che io li consideri da una certa distanza in mezzo all’attività di una grande città come Milano o Firenze. Non ti pare che per noi l’aspetto di certe cose non ha risalto che visto sotto un dato angolo visuale? E che mai riusciremo ad essere tanto schiettamente ed efficacemente veri che allorquando facciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale e sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi? [3]

 

Esito di un’attenta «ricostruzione intellettuale», effettuata «da lontano» e con gli occhi della «mente», proprio come lo studio “a tavolino” di un antropologo oxoniense dell’epoca, la mimesis letteraria dei Malavoglia, per Verga, non doveva essere era il frutto di una osservazione diretta e immediata, di un’esposizione “passiva” (come si direbbe in linguistica) al folklore, come era stato per secoli, ma il risultato di una riflessione circostanziata e l’esito di una mediazione possibile solo adesso, alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, grazie alla nuova scienza della mentalità “primitiva”. E il discorso non riguarda solo la materia narrata, ma anche le soluzioni narrative per raccontarla, perché, proprio a partire dagli spunti offertigli dagli studi demopsicologici, Verga elaborò una forma di rappresentazione dell’alterità molto simile a quella che oggi si è soliti definire “emica”, e che consiste nell’adozione, da parte dell’osservatore, del punto di vista altrui, o più esattamente dei valori e dei modi espressivi della cultura “altra”, rinunciando al giudizio e alle proprie categorie “etiche” per dare così al lettore l’illusione di vivere in prima persona l’esperienza di un mondo diverso dal suo e non senza provocare in lui un qualche choc culturale, per di più non compensato da concessioni all’esotismo di moda.

 

Questo libro vuole essere un’interpretazione complessiva del Verga maggiore (vale a dire di Vita dei campi, delle Novelle rusticane e dei primi due romanzi del cosiddetto “ciclo dei Vinti”: I Malavoglia Mastro-don Gesualdo) fortemente orientata in senso antropologico. Si tratta di un approccio non nuovo in assoluto, ma che in passato è stato oggetto di qualche limite e di più di un fraintendimento, tanto da parte degli antropologi quanto da quella degli storici della letteratura (i quali, a dire il vero, ne hanno fatto uno uso molto parziale). Avviato negli anni Cinquanta da Alberto Mario Cirese, in studi oggi superati dalla filologia ma ancora utili per la loro impostazione attenta anche all’aspetto formale ed espressivo (Cirese, 1955), il discorso sulla dimensione antropologica della narrativa verghiana è stato poi ripreso regolarmente fino agli anni Settanta (Bronzini, 1975), per poi subire una sostanziale battuta d’arresto alla svolta del secolo (Clemente, 2001), con sporadiche (e non sempre convincenti) riprese successive. Come è accaduto non solamente negli studi verghiani, il legame esistente, fino a pochi decenni fa, tra critica letteraria e antropologia si è decisamente allentato, e ciò mentre stava venendo meno anche quell’attenzione alle strutture stilistiche e narrative che invece, nella stagione della critica stili- stica prima e in quella dello strutturalismo poi, aveva prodotto un saggio fondamentale come quello di Spitzer sull’indiretto libero e sul narratore “corale” nei Malavoglia (Spitzer, 1956) e, negli anni Settanta, gli studi non meno importanti di Guido Baldi (2012) sull’artificio di regressione e di Romano Luperini su quello di straniamento (Luperini, 2009). È vero che lo spostamento dell’asse critico su altre linee di ricerca (la filologia e la ricerca documentaria, la lingua, gli studi sulla ricezione, il dibattito storiografico) è stato salutare e ricco di stimoli, e questo libro ne terrà ovviamente conto, ma è forse giunto il momento di riprendere il filo di un discorso interrotto troppo bruscamente, di approfondirlo, di liberarlo da equivoci e incomprensioni, e infine di provare a capire se una nuova sintesi tra criti- ca antropologica e analisi stilistico-strutturale non sia in grado di rendere conto anche degli aspetti formali del testo letterario.

 

Con la parziale eccezione di Cirese e di pochi altri, per molti etnologi l’opera di Verga ha rivestito (e riveste ancora oggi) un interesse di tipo so- stanzialmente documentario. Persino in alcune proposte di lettura recenti, come vedremo nei prossimi capitoli, sembra resistere una concezione francamente ingenua del realismo letterario, per cui la narrativa verista non sarebbe che una fonte tra le altre per lo studio del folklore siciliano, e non in- vece la rielaborazione artistica di altre fonti (Pitrè, appunto, ma non solo). Un primo scopo del presente studio è dunque quello di elaborare un modello teorico di critica antropologica coerente e organico, capace di an- dare oltre il semplice contenuto del testo letterario e, soprattutto, oltre la sua natura di mero documento: un modello applicabile, nelle nostre intenzioni, non solo a Verga, ma anche ad altri autori, che dopo di lui hanno pro- seguito il dialogo con la cultura popolare. Il primo capitolo del libro discute quindi modi e limiti dei principali indirizzi di critica antropologica nella seconda metà del Novecento e nei primi anni del nuovo millennio, mentre nel secondo formuleremo qualche ipotesi storiografica più concreta, con effetti di un qualche rilievo anche sulla periodizzazione letteraria: la prima è che con Verga, alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, si sia verifica- ta una vera e propria “svolta” antropologica, i cui esiti si sarebbero avvertiti ancora fino a metà Novecento; la seconda è che il fondamento culturale di questa svolta vada cercato nel ruolo di mediazione rivestito, almeno inizialmente, proprio dalla demologia positivista.

 

Per leggere l’opera di Verga non (ingenuamente) come “documento” della cultura popolare siciliana di fine Ottocento, ma (criticamente) come il risultato di una ricerca estetica complessa e profondamente radicata nel suo tempo, è necessaria insomma un’attenzione non solo ai contenuti ma anche, e soprattutto, agli aspetti formali del testo, riportando quest’ultimo al centro dell’interpretazione critica, tanto nella sua dimensione filologica quanto nelle sue strutture. È quanto cercheremo di fare analizzando i macrotesti di Vita dei campi e delle Rusticane (con un occhio, anche, alle scelte paratestuali di Verga), le strutture narrative e l’intelaiatura motivica di due “leggende” vittimarie (Rosso Malpelo La Lupa), la scena della veglia e la strana “fiaba” della cugina Anna nel cap. xi dei Malavoglia, e infine le peculiarità del narratore popolare verghiano, anche in rapporto ad alcune recenti interpretazioni che tendono (in modo forzato) a fare di Verga un precursore del Modernismo novecentesco.

 

Non di solo storicismo, tuttavia, è fatta l’operazione critica, e il titolo di questo libro, Lo spazio dei Vinti, allude al concetto di “spazio sociale” elaborato da uno dei più grandi sociologi del nostro tempo, Pierre Bourdieu (1930-2002), durante il suo apprendistato etnologico in Algeria, e sta ad indicare un secondo possibile livello della critica antropologica: da concepire non solo come ricostruzione delle fonti e del contesto culturale, ma anche come strumento ermeneutico per comprendere e attualizzare, con strumenti a noi più familiari, la sociologia implicita e i livelli di cultura implicati dal testo narrativo. Lo spazio sociale, tradotto in termini letterari, è l’insieme delle possibilità concrete che regolano i rapporti tra i personaggi (o attanti, nei termini della semiotica di Greimas): è uno spazio spesso de- scrivibile e visualizzabile (nel Mastro-don Gesualdo), ma è soprattutto un campo di forze attraversato da tensioni e delimitato dai concetti-chiave di “capitale simbolico” e di “capitale economico”. Anche nell’opera di Verga, che il senso comune identifica troppo spesso con una visione rozzamente materialistica dell’esistenza, incentrata in modo esclusivo sulla “roba”, l’asse cartesiano del capitale simbolico (vale a dire l’insieme delle pratiche d’o- nore, l’agire nel rispetto delle tradizioni, l’etica compendiata nel «motto degli antichi») influisce sulle traiettorie dei personaggi non meno di quel- lo economico in senso stretto. Tanto i Malavoglia quanto il Mastro, come vedremo nei due capitoli dedicati ai rispettivi spazi sociali, possono essere letti in questa prospettiva; una prospettiva che, senza privare i due romanzi della loro storicità, è però in grado di coglierne anche il significato attuale, ricordandoci che tensioni (diverse) tra l’economico e il simbolico sono vive e operanti anche nel moderno avanzato, e che il romanzo verista, con i suoi conflitti tra ricchezza materiale e prestigio, tra possesso e condotte d’onore (apparentemente) autodistruttive, può essere ancora un’ottima palestra per allenare le nostre menti di lettori alla complessità delle dinamiche sociali e ai conflitti di classe.

 

Anche novelle celebri come La Lupa Rosso Malpelo, del resto, si prestano a una attualizzazione dei loro significati alla luce dell’antropologia novecentesca, che, meglio dell’indagine di un Pitrè, permette di cogliere le motivazioni sociali (e di genere) più profonde del pensiero magico (De Martino, Bourdieu) – laddove lo studioso positivista si era limitato a de- scrivere e a condannare le pratiche delle maciàre e l’impiego perverso dei filtri amorosi –, o di capire il ruolo della vittima nei meccanismi di gestione della violenza collettiva (René Girard). Anche in questo caso, l’antropologia viene in soccorso alla critica letteraria non in quanto enciclopedia di riferimento, ma piuttosto come strumento interpretativo a parte subiecti, indispensabile per far emergere livelli di senso dei quali l’autore non era forse pienamente consapevole ma ai quali la nostra comunità ermeneutica è particolarmente sensibile.

 

Infine, in questo libro si è cercato di intrecciare un dialogo con l’an- tropologia anche perché sono stati proprio gli studi demologici a porre per primi l’esigenza di attribuire valore a ciò che la storia ufficiale, quella scritta dai vincitori, aveva rimosso o respinto ai margini del discorso pubblico. Tutto questo era ben chiaro già a Pitrè, che nello Studio critico sui canti po- polari siciliani, scriveva:

 

La storia del popolo si è confusa fin’oggi con quella de’ suoi dominatori, nella quale si è per necessaria conseguenza perduta; della sua storia si è voluto fare una cosa stessa colla storia de’ suoi governi, senza tener presente che egli ha memorie ben diverse da quelle che tanto spesso gli si attribuiscono sì dal lato delle sue istituzioni, e sì da quello degli sforzi prepotenti da lui durati a sostegno dei propri diritti (Pitrè, 1871, vol. i, p. 174).

 

Un decennio dopo, Verga, nella Prefazione ai Vinti, gli fa eco parlando del progresso come di un «cammino fatale, incessante», «grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano» e dell’«immensa corrente dell’attività umana». Rifiutandosi di raccontare ancora una volta la sto- ria dei vincitori, il Verismo rivendica dunque alla letteratura il «diritto» e persino il dovere di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani (I Malavo- glia, pp. 11-2).

 

I Vinti verghiani erano anzitutto, come si sa, i membri di una piccola comunità di pescatori siciliani travolta dalla «fiumana» del progresso ai primordi di un processo di unificazione (e di modernizzazione) che, obbligando alla leva la giovane forza-lavoro, imponendo un sistema di tassazione iniquo e favorendo la libera concorrenza, stava iniziando a distruggere un tessuto economico e sociale basato sull’attività di tanti piccoli padroni e fondato su una solida etica comunitaria. Ma Vinti, per Verga, erano an- che gli uomini nuovi della nascente borghesia negli ultimi anni della domi- nazione borbonica in Sicilia in cui è ambientato il Mastro: borghesi scaltri e dal cervello fino, come Gesualdo Motta, e tuttavia impotenti contro un’aristocrazia terriera ancora forte (e che avrebbe continuato ad esercitare un potere quasi assoluto in tutta Europa fino alla Prima guerra mondiale), imprenditori di successo, ma sconfitti pesantemente anche sul piano degli affetti, in ragione di quella dialettica modernamente tragica e intrinseca al mondo borghese di cui diremo meglio nell’ultimo capitolo. Un modello di esclusione piuttosto flessibile, dunque, e replicabile ben oltre le intenzioni e l’ideologia (blandamente progressista) del suo autore: tanto flessibile che, se volessimo trasporlo un po’ brutalmente nel tempo presente, non sarebbe difficile riconoscerne i protagonisti in quanti si vedono negare oggi la dignità, l’uguaglianza di fronte alla legge, il diritto alla parità di genere e alla realizzazione di sé attraverso l’istruzione e il lavoro, e persino il diritto a vivere l’infanzia senza essere sfruttati, come accadeva ai carusi nelle solfatare ai tempi di Verga e come accade oggi in Congo ai bambini impiegati nelle miniere di cobalto, un minerale indispensabile per produrre i nostri smartphone. Anche il conflitto tra spinte individualistiche e atomizzanti da un lato ed etica comunitaria e tradizionalista dall’altro, del resto, torna a riproporsi periodicamente, ma il modello verghiano è particolarmente efficace perché, pur criticando la modernità, non propone nessun ritorno nostalgico al passato, nessuna mitizzazione del popolo, come ha fatto in- vece, sin dalla fine dell’Ottocento, molta cultura reazionaria e di destra (e poi anche una parte della sinistra) avversa al liberalismo: ancora una volta, è il pessimismo radicale nutrito di conoscenza scientifica di Verga a fare la differenza.

 

Riportare al centro del dibattito letterario l’alterità, i livelli di cultura, la marginalità e l’esclusione sociale e, con questa, anche i conflitti di classe: tutto ciò consente di fare, oggi, una lettura antropologica di Verga, vale a dire dell’autore che per primo ha dato voce alle vittime del gigantesco processo di modernizzazione che sconvolse l’Italia tra la fine Ottocento e l’inizio del secolo seguente, e di cui ancora oggi vediamo gli effetti nel profondo squilibrio economico e sociale tra Nord e Sud del Paese. Non a caso è con Verga che ha avuto inizio la “svolta” di cui parleremo nelle pros- sime pagine, ed è con lui che nella letteratura italiana ha preso corpo una nuova rappresentazione del popolo, che, in modi e misure molto diverse (e persino antitetiche al Verismo), ritoveremo anche in autori come d’An- nunzio, Pirandello, Deledda, Silone, Pavese, Carlo Levi e Scotellaro, e an- cora almeno fin verso la metà del Novecento, agli anni della trasformazio- ne industriale e della mutazione antropologica, in due raccolte-testamento che, emblematicamente, chiudono un’epoca: il Canzoniere italiano (1955) di Pasolini e le Fiabe italiane (1956) di Calvino

 

Note

 

[1] Sul nesso tra lo studio comparativo della fiaba europea e il concetto di razza, per esempio quanto scriveva lo stesso Pitrè nella prefazione alle Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani: «Le nostre fiabe sono documenti della parentela tra razze indo-europee e tra diversi rampolli di codeste razze, documenti che tanti secoli e tante generazioni non hanno finora distrutto, ma che anzi il volgere dei tempi ha reso più solidi e più duraturi. Fatto memorabile codesto nella storia dell’umanità, che mentre popoli e nazioni intere so- no quasi scomparsi e le fredde ali del tempo hanno perduto persino la memoria delle gesta più clamorose, queste novelline infantili vivono a testimoniare un’antichità fuori d’ogni calcolo remota.» (Pitrè, 1875, p. lxix). Per un inquadramento generale dell’opera di Pitrè è tuttora utile Cocchiara (1951), da integrare con Perricone (2017), mentre D’Anna (1993) offre un repertorio bibliografico dei suoi scritti.

[2] L’ipotesi di una conoscenza da parte di Verga dei due volumi di questa raccolta è stata avanzata, molto tempo fa, da Ciccia (1967), che ha visto un’eco dei canti popolari nei quali tradizionalmente si scherniva lo sposo attempato nell’episodio del matrimonio tra lo zio Crocifisso e la Vespa nei Malavoglia.

[3] Lettera di Verga a Capuana del 14 marzo 1879, in Raya (1984, 80).



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