La forma dello Stato e il capitale
Lo Stato non è capitalista per quel che fa e per le funzioni che svolge ma per la sua forma. Le funzioni dipendono dalla forma. La sua stessa esistenza dipende dal fatto che deve fare tutto il possibile per assicurare le condizioni necessarie alla riproduzione del capitale. Non dobbiamo, tuttavia, pensare alla forma come a un’entità statica ma come a una forma-processo, anche perché questo consente di aprirne la categoria. Lo Stato è un processo di formazione di relazioni sociali che deve canalizzare l’attività umana dentro ruoli compatibili con la riproduzione del capitale. Pensare allo Stato come forma-processo significa però anche che c’è un movimento contrario dell’auto-determinazione collettiva: movimenti o modi di fare le cose che non sono compatibili con l’interesse del capitale. Sostenere che l’esistenza stessa dello Stato dipende dal suo successo nel promuoverne l’accumulazione – come fa John Holloway anche qui, nella prefazione a Crítica de las políticas públicas. Propuesta teorica y analisis de casos, uscito di recente per Prometeo Editorial in Argentina – significa, tra le altre cose, che qualsiasi governo di uno Stato, quale che sia il suo colore politico, deve necessariamente promuovere con differenti strategie quell’accumulazione, cioè l’espansione del potere del capitale e di quello del denaro, cosa consentita non in un processo nazionale ma mondiale. Da qui la competizione fra gli Stati nell’attrarre capitale nel proprio territorio. Tuttavia, la forma dello Stato, spiega qui Holloway, è una forma particolare, separata dal processo di produzione e dallo sfruttamento diretto. Si tratta, dunque, di una separazione-nell’unità o di un’unità-nella separazione che induce lo Stato ad assolvere il suo primario compito verso il capitale solo attraverso una relazione che procede per continui tentativi ed errori. La violenza con cui vediamo manifestarsi oggi un’aggressione alla vita che minaccia di estinguere molte delle specie che vivono sulla terra nasce dal tentativo di imporre proprio la coerenza delle forme capitaliste nelle relazioni sociali. Non si tratta di una legge ma di una lotta costante. Avviene, ogni giorno, tra l’affermazione del capitale – con le sue relazioni occultate: il denaro, che monetizza i rapporti tra le persone; il lavoro che trasforma l’attività umana in produzione di valore; lo Stato, che nega l’auto-determinazione e promuove l’accumulazione; etc. – e la vita che ne rifiuta le logiche
Il capitale è una forma di dominio efficace ma disfunzionale. Non si può presumere che una parte del dominio capitalista si adatti in modo funzionale alle altre. Non si tratta di una macchina senza problemi, come spesso invece si ritiene nella sinistra. Così lo Stato è uno Stato capitalista, legato nella sua stessa esistenza alla promozione dell’accumulazione di capitale, ma non si può dedurne che tutto ciò che fa sia necessariamente fatto nell’interesse dell’accumulazione di capitale. Lo Stato commette errori. E non solo a causa dell’inettitudine dei politici (che è un elemento da considerare sempre), ma proprio in virtù della sua forma.
Perché succede questo? La risposta va cercata nella libertà. La libertà dei lavoratori. Potrà anche risultare scioccante dirlo, ma è così. Il centro della relazione sociale che chiamiamo capitale è lo sfruttamento dei lavoratori basato sulla compravendita di forza lavoro. Ciò presuppone una loro libertà, una libertà in un doppio senso, come sottolinea Marx, secondo il quale i lavoratori devono essere liberati nell’accesso ai mezzi di produzione ma sono anche liberi, a differenza dei servi o degli schiavi, di vendere la loro forza lavoro a chi la compera. Il fatto che l’uomo ricco riesca a trovare quel certo lavoratore libero nel mercato è il risultato di una storia mondiale di lotte.
Nel suo resoconto di questa lotta, soprattutto nella sezione sull’accumulazione primitiva o originaria, Marx si concentra sulla critica della teoria liberale, osservando che il “lavoratore libero” è il risultato dell’espulsione dei contadini dalla terra e di secoli di brutale legislazione contro il vagabondaggio. Questo risultato, però, può esser visto anche dall’altra parte, come la rottura della dominazione feudale conseguente all’agitazione dei contadini, alle loro rivolte e alla fuga verso le città. Lo sfruttamento (il nucleo di ogni società di classi) poteva continuare solo attraverso una riformulazione della dominazione, una riformulazione che tenesse conto del fatto che i lavoratori adesso erano liberi e non potevano più essere dominati allo stesso modo di prima. Elemento centrale di questa riformulazione è la specificità dello Stato, vale a dire la generazione dello Stato come forma particolare di relazioni sociali. Questa specificità è cruciale per ogni discussione sulle politiche pubbliche e di una relazione che va avanti per trial and error (per tentativi ed errori, ndt) tra lo Stato e il capitale.
Il paragrafo precedente spiega la mia interpretazione del dibattito sulle origini dello Stato. Lo Stato, inteso come istanza differenziata rispetto al processo immediato (o diretto) di sfruttamento, è specifico del capitalismo. Il dibattito sulle origini, aperto da Wolfgang Müller e Christel Neusüss e sviluppato a mio avviso più chiaramente da Joachim Hirsch, ha cercato di comprendere quale caratteristica della relazione capitale generi l’esistenza di uno Stato apparentemente e realmente separato rispetto al processo immediato di sfruttamento. Sono state proposte diverse risposte, ma forse la più vigorosa è il fatto che lo sfruttamento è mediato dalla vendita e dall’acquisto di forza lavoro, il che implica che ci deve essere una separazione dell’esercizio della forza materiale necessaria per ogni sistema di dominazione rispetto al processo immediato di sfruttamento. Se lo sfruttatore diretto, il capitalista, avesse il diritto di assassinare o imprigionare i suoi lavoratori, ciò sarebbe incompatibile con la libertà dei lavoratori di passare da uno sfruttatore all’altro.
Lo Stato, dunque, è “particolarizzato” o separato dal processo immediato di sfruttamento, ma, proprio per questo, dipende dal processo di sfruttamento per la sua stessa esistenza: è a partire dal processo di sfruttamento e di accumulazione del capitale che lo Stato trae le sue entrate, le risorse materiali necessarie per pagare i propri lavoratori e le altre spese necessarie per svolgere i suoi compiti. L’esistenza dello Stato dipende dal suo successo nel promuovere l’accumulazione del capitale, ma allo stesso tempo, la sua separazione dal processo di accumulazione del capitale significa che ciò può essere raggiunto solo attraverso tentativi ed errori. La nostra libertà, è questo, il fatto che i nostri progenitori abbiano costretto chi esercitava il dominio a riformularlo sulla base del valore ha portato una disfunzionalità nel nucleo stesso del dominio capitalista. Il capitale esiste come una serie di relazioni sociali poco visibili – merce, valore, denaro, Stato e così via – ciascuna essendo un aspetto diverso della stessa relazione capitale, e ciascuna a sua volta unita ma anche disunita dall’altra. Una separazione-nell’unità, un’unità-nella-separazione in cui però l’unità sta sullo sfondo, accessibile alla riflessione teorica e alle prospettive dell’antagonismo.
È questa particolarizzazione ciò che può trasformare lo Stato in una difficoltà. In virtù del suo essere vincolato alla riproduzione del capitale, esso è, a sua volta, una forma della relazione capitale che, al tempo stesso, ne sembra essere separata. È questa la base delle politiche riformiste. L’esistenza dello Stato come particolare forma sociale funge da invito alle persone a incanalare il proprio malcontento attraverso quella forma. Questa reale particolarizzazione può comportare che nei fatti sia possibile realizzare cambiamenti significativi attraverso lo Stato anche quando questi cambiamenti sembrano andare contro gli interessi del capitale. Tutto ciò è tuttavia sempre contenuto nell’esigenza fondamentale dello Stato di favorire l’accumulazione di capitale, necessità imposta in pratica soprattutto attraverso i mercati finanziari, come flussi monetari in cerca di guadagni nel mondo.
La sfida è tenere tutto questo insieme.
Affermazioni teoriche generali come quelle dei paragrafi precedenti non bastano, spesso lasciano da parte le nostre esperienze pratiche e le nostre lotte. Fino a che punto si può spingere la particolarità dello Stato? Fino a che punto i limiti possono essere sfidati? È possibile separare in qualche modo lo Stato dalla riproduzione del capitale? Vediamo di continuo come le sfide al capitale proclamate a gran voce da leader di Stato come Evo Morales o Maduro o Tsipras siano finite con la capitolazione alla realtà capitalista, ma che dire delle lotte più “piccole”, quelle dei più svantaggiati per migliorare le proprie condizioni di vita o delle lotte contro le discriminazioni su persone razzializzate? È chiaro che lo Stato è uno Stato capitalista, parte di un sistema oppressivo che, probabilmente, ci sta spingendo verso l’estinzione, eppure io ricevo il mio stipendio da uno Stato come, probabilmente, la maggior parte degli autori di questo libro e forse anche molti dei suoi lettori sopravvivono con i soldi ricevuti dallo Stato. Cosa dovremmo fare?
Come possiamo collegare la proposta teorico-metodologica citata nel sottotitolo del libro (“Proposta teorica e analisi dei casi”, ndt) con la nostra esperienza pratica e con l’analisi di particolari politiche statali? Capitale e Stato commettono errori nel loro procedere insieme, il loro rapporto è un rapporto per tentativi ed errori, ma chi sta tentando e chi sbagliando? E qualcuno impara dagli errori?
In altre parole: questo è un libro meraviglioso. È ciò di cui abbiamo bisogno per migliorare la nostra comprensione dello Stato. Non solo affermazioni teoriche generali e non solo studi dettagliati, ma la compenetrazione tra entrambi, lo sviluppo in dettaglio di ciò che significa la natura capitalistica dello Stato. È un onore essere stato invitato a scriverne la Prefazione* .
* Prefazione al libro Crítica de las políticas públicas. Propuesta teorica y analisis de casos. Laura Alvarez Huwiler e Alberto Bonnet (a cura di), agosto 2022.
Fonte originale: Presentación del libro «Crítica de las políticas públicas» in Comunizar
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Immergendosi nelle acque tempestose delle politiche attuate nella recente Argentina e dei loro risultati spesso deludenti, questo libro si propone di discutere la concezione che sta alla base delle politiche pubbliche e il loro rapporto con la società. Si cerca di rispondere, sia a livello metodologico teorico sia a livello di analisi di casi, a due interrogativi sulle politiche pubbliche tra loro strettamente correlati: gli interrogativi sulla loro forma, cioè sulle caratteristiche che il processo di ordine pubblico ha in generale nello Stato capitalista, e la questione della loro funzione, cioè del rapporto che queste politiche pubbliche hanno con le esigenze della riproduzione sociale nella società in cui viviamo. Con questo libro si cerca di contribuire alla costruzione di una prospettiva critica delle politiche pubbliche, parte integrante della critica dello Stato.
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