Per Luigi. Annotazioni su “Folklore e profitto”
Ho conosciuto Luigi Lombardi Satriani che ero bambino e, in ragione della profonda amicizia che lo legava a mio padre Antonino, ho avuto la ventura di poterlo frequentare con una certa assiduità in occasioni convegnistiche e conviviali. È stato, pertanto, assai prima che uno dei punti di riferimento dei miei studi, un familiare con cui sono intercorsi, evolvendosi nel tempo in ragione dell’età e degli indirizzi che prendeva la mia vita e ben al di là di qualsivoglia questione accademica, rapporti di sincero e reciproco affetto.
Sono, infine, uno tra i tanti che si è avvalso del suo magistero, dei suoi suggerimenti, dei suoi contributi scientifici ed ha cercato di prendere a esempio la sua prospettiva scientificamente aperta e mai pregiudizievole, la sua tensione all’impegno civile, la sua viva attenzione verso il contributo che metodi e saperi propri delle discipline etnoantropologiche potevano dare alla comprensione delle società e delle culture contemporanee.
Entro questo ambito rientra Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura (1973), testo che costituisce una preziosa testimonianza di una fase trasformativa della società e della cultura italiane le cui tracce restano ben visibili. È, entro tale prospettiva, un documento di interesse storico e come tale va, innanzitutto, valutato. Ci soccorre in questo il testo che Letizia Bindi ha posto a introduzione della riedizione di Folklore e profitto (2022) da parte delle Edizioni del Museo Pasqualino, un’accurata guida alla contestualizzazione e alla comprensione dei presupposti culturali e ideologici e delle vivaci istanze politiche e scientifiche che sostengono e animano il lavoro di Luigi Lombardi Satriani, una puntuale illustrazione delle sue precoci attenzioni alle prospettive euristiche di altre discipline e della perdurante attualità di numerose considerazioni, segnatamente, di quelle relative ai complessi rapporti storicamente intercorsi e, appunto, tutt’oggi intercorrenti tra mercato e cultura popolare.
Folklore e profitto è infatti una lucida e disincantata analisi di come la cultura folklorica, gramscianamente intesa come cultura delle classi subalterne, venisse, all’indomani del ‘68 e per tutti gli anni Settanta, accolta, manipolata, smembrata secondo le sensibilità, le esigenze e gli interessi tanto dai giovani figli delle classi egemoni quanto dalla borghesia intellettuale politicamente impegnata e, essenzialmente se non esclusivamente ai fini del profitto, dal mercato industriale. Una lucida e disincantata analisi, dunque, delle implicite e esplicite contraddizioni insite in un recupero ideologicamente orientato e economicamente viziato della cultura popolare.
Una lucida e disincantata analisi di una stagione che, per ragioni d’età e di appartenenza familiare, ho personalmente vissuto, seppur da adolescente, e di cui serbo viva memoria. Ragione questa che mi fa oggi sobbalzare nel rileggere le acute pagine di Luigi Lombardi Satriani: «Anche se in una prospettiva politica quanto mai condividibile nel suo impegno di fondo, si accredita […] una pericolosa identificazione tra intellettuale militante della sinistra e classi subalterne. La scelta politica, anche la più coerente, non autorizza noi intellettuali ad autoeleggerci unici interpreti della classe operaia o contadina; il nostro voler lottare con esse contro lo sfruttamento non elimina la oggettiva diversità della nostra collocazione di classe». Quanta verità in queste parole! Una verità che risuona ancor più potente soffermandosi a riflettere sul tempo in cui fu scritta e sull’estrazione sociale e culturale del suo autore. A Luigi Lombardi Satriani, non sono, invero, mai mancate capacità di autoanalisi e disponibilità all’autocritica.
Folklore e profitto è, come potrebbe dirsi di un romanzo, una lettura avvincente, tanto per chi ha vissuto un’epoca di dibattiti e tensioni sociali, quanto per chi quell’epoca, che ha fondato i presupposti che variamente si declinano nella contemporaneità, desidera conoscere. Tutt’altro che un testo riservato agli specialisti, sebbene agli specialisti fornisca tutt’oggi serie occasioni di riflessione. Folklore e profitto propone, infatti, una scrittura vivace e trascinante, animata da sincere tensioni politiche e da una lucidità critica non comune agli intellettuali del tempo e a quelli che nel tempo (fino ai nostri giorni) hanno preferito opportunisticamente adagiarsi sulle mode e sulle parole d’ordine del momento; una scrittura sostenuta dal desiderio di restituire dignità agli studi di folklore inteso come spazio privilegiato ove poter cogliere in vivo le contraddizioni e le trasformazioni della società, una scrittura sostenuta dalla convinzione di una “potenzialità rivoluzionaria presente”, sia pur “in maniera contorta e contraddittoria” nel folklore.
Viva è la consapevolezza in Luigi Lombardi Satriani che il recupero ideologizzato e parcellare della cultura popolare non solo avesse finito con il costituire, in particolar modo per «i giovani politicizzati», una «compensazione di ordine fantastico» al concreto impegno politico e alla lotta di classe, ma anche una opportunità per l’industria, dunque per il capitale, di «realizzare ulteriori profitti attraverso iniziative discografiche, editoriali ed altre analoghe». Viva è la consapevolezza di come tale dinamica avesse finito per riverberare anche sul lavoro scientifico minandone la capacità analitica e le stesse prospettive euristiche e finendo, ancora una volta, per implodere nelle contraddizioni determinate da un’assunzione acritica della vulgata demartiniana:
«data la prevalente impostazione idillica degli studi folklorici, che sfumavano la durezza della vita quotidiana degli strati popolari costringendoli in una cornice armonistica, la reazione sviluppatasi dal secondo dopoguerra ha sottolineato la miseria delle classi subalterne. Ma le opere di Ernesto de Martino, che segnano l’inizio del rinnovamento degli studi demologici italiani, non si limitano ad un rinvio generico alla miseria e alla società classista e si impegnano nella ricostruzione puntuale della storia e delle funzioni di quel determinato istituto culturale […]. Ma se il concetto di miseria rischia di perdere qualsiasi capacità euristica sbiadendosi in una nebulosa metafisica della miseria, il rinvio al carattere classista della società, quale spiegazione automatica di qualsiasi problema, rischia di costituire un analogo, di sinistra, del “piove, governo ladro”. […] Anche se come semplice accenno, non può passare sotto silenzio il rischio di presentare il documento folklorico in una presunta assoluta autonomia, recidendo i nessi dialettici con il suo contesto e con la generale impalcatura socio-culturale, che conferiscono a quel documento una precisa collocazione e, quindi, un’ulteriore carica di significato. Non meraviglia, in questa prospettiva, che, più o meno consciamente, operi in molti folkloristi un meccanismo di autocensura che li protegge dal pericolo di uscire allo scoperto e li mantiene nella zona del culturalmente accettato. L’ignoto del folklore viene dominato attraverso una categorizzazione culturale e politico-culturale dedotta dal noto della cultura egemone, segno che non basta individuare la dinamica delle culture coesistenti nello stesso tempo e nello stesso ambito per sottrarsi ad una obiettiva complicità con la cultura egemone».
Vi sono dei passaggi nella scrittura di Lombardi Satriani, che, bisogna dolorosamente riconoscere, sono di una disarmante attualità; di una disarmante attualità almeno per chi, da qualsivoglia prospettiva, si occupi di fatti folklorici trovandosi assai spesso quasi a dover giustificare questi suoi interessi “fuori moda”, questo suo “attardarsi” e insistere su temi e problemi di cui larga parte dell’etnoantropologia italiana (e non solo italiana) si rifiuta di cogliere la cogente attualità poiché ci si rifiuta di riconoscere una ben osservabile verità: il folklore esiste (e parliamo qui di “cultura tradizionale” e non già di quella più complessa realtà che è oggi la “cultura popolare”) e interessa strati amplissimi della popolazione nazionale:
«Come per qualsiasi cultura o subcultura, non esistono nel folklore argomenti degni e argomenti non degni, elementi interessanti ed elementi non interessanti in sé; tutto – anche ciò che sbrigativamente è stato considerato ovvio o minimo – può essere oggetto di una seria analisi culturale, e la dignità e l’interesse sono rapportabili solo al fatto che l’analisi sia più o meno profonda, conduca o meno a risultati attendibili. È come si lavora, non “l’oggetto” su cui si lavora che va esaminato, in sede culturale, secondo i criteri di rigore, di importanza, di attendibilità. Ma ciò comporta il non sentirsi vincolati dalle mode culturali, dalle aspettative, magari implicite, del proprio ambiente; implica il non ritenere gerarchia ontologica la graduatoria che gli ambienti intellettuali ufficiali stabiliscono informalmente, ma non perciò in maniera meno rigida. Non si intende contrapporre a tale situazione – particolarmente presente in Italia, data la tradizionale vocazione umanistica e padreternalistica degli intellettuali del nostro Paese – un atteggiamento di titanismo morale, ma rivendicare il diritto ad un atteggiamento critico che sceglie – responsabilmente, ma liberamente – gli ambiti della propria ricerca, le cui norme interne non sono eludibili con appelli globali».
Sono queste considerazioni cui io mi sento di aderire integralmente. Su quanto oggi si possa scegliere «responsabilmente, ma liberamente – gli ambiti della propria ricerca» vi sarebbe infatti lungamente da dirsi, trovandoci ormai in un’accademia le cui avvilenti chiusure, sempre legittimate da pregiudizievoli indicazioni d’oltreoceano velenosamente condite da rimasticature d’oltralpe, hanno di fatto potentemente limitato gli ambiti e le prospettive di ricerca impedendo di «ampliare “l’impegno” a tutti gli argomenti, senza che venga implicitamente fissata in maniera aprioristica una gerarchia di importanza o di dignità tra gli argomenti inerenti alla cultura popolare» e, aggiungiamo, inerenti alla cultura e alle culture nel loro complesso.
Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, recita il titolo di una raccolta di saggi di Alberto Cirese della fine del secolo scorso, titolo ovviamente provocatorio, teso a denunziare quel declino di attenzione verso prospettive interpretative e tematiche, invero attualissime, che si era venuto a determinare nel corso degli anni Novanta.
Certo, direi, nulla di inattuale in Folklore e profitto, tanto più in un presente che si affanna a riscoprire Gramsci e le sue derivazioni culturali. E ancora, a proposito della attualità di Folklore e profitto, va osservato quanto le considerazioni sull’uso mediatico e pubblicitario di temi ed eco folklorici (genuino, tipico, naturale, verace, locale, tradizionale, ecc.) e, segnatamente, quelle presenti nel settimo capitolo, I divoratori del folklore, sembrino quasi descrivere la realtà a noi contemporanea, almeno in riferimento a larga parte delle regioni meridionali e, sicuramente alla Sicilia.
«Molti elementi della cultura popolare – scrive Luigi Lombardi Satriani – vengono assunti dalla cultura del profitto e distorti secondo i fini di questa. Ma, ad un livello più generale, la stessa cultura popolare, viene sottoposta globalmente ad una operazione di consumo. L’esempio più clamoroso di tale operazione è dato dalla turisticizzazione del dato folklorico. Le “tradizioni popolari” diventano l’aspetto visibile di un mondo esotico verso il quale vengono indirizzati quanti intendano fuggire, anche se momentaneamente, dalla costrizione, dalla monotonia e dalla prevedibilità della società urbana contemporanea. L’invito all’evasione si concreta sia verso l’esotico esterno alla società italiana che verso l’esotico interno ad essa. […] Le feste popolari sono, naturalmente, coinvolte in questo processo di turisticizzazione e fungono da richiamo per i turisti desiderosi di manifestazioni “spontanee” e “semplici”. Anche le aree che sembrano conservare maggiormente, per una serie di ragioni, la dimensione dell’“arcaico” […] non sfuggono a tale processo».
Non entreremo nel merito dell’ampia e tutt’oggi stimolante problematizzazione di questo fenomeno proposta da Luigi Lombardi Satriani, limitandoci ad osservare come le dinamiche rilevate siano tutt’oggi vive ed operanti e come il “consumo” della cultura tradizionale, segnatamente della “festa”, costituisca oggi uno spazio espansivo per il mercato turistico, un mercato turistico però che, oggi più di ieri, ha come sue complici larghe porzioni delle stesse comunità “tradizionali”, queste convinte che dal consumo turistico del patrimonio culturale di tradizione (consumo che sempre prevede un pre-adeguamento al gusto dei fruitori esterni), possa derivare quello sviluppo strutturale che l’assistenzialismo, le perduranti debole capacità imprenditoriale e scarsa tensione cooperativa, l’oppressione e il controllo capillare delle economie locali da parte delle associazioni di stampo mafioso, l’inerzia, l’inettitudine, l’immoralità della più larga parte della classe politica, hanno del tutto impedito.
Tale complicità, bisogna pur riconoscerlo, è largamente condivisa da accademici a caccia di risorse e di visibilità e lo è fattualmente, al di là di ogni dichiarazione di intenti, pure dalle stesse istituzioni nazionali e internazionali preposte alla salvaguardia dei patrimoni di tradizione, anch’esse convinte che i fenomeni di cultura popolare e, in particolare, quello che oggi chiamiamo “patrimonio immateriale”, potessero costituire uno straordinario strumento di promozione turistica e di rilancio economico per comunità prive di importanti attività produttive, integrando la tradizionale offerta turistica, centrata sulla fruizione dei beni storico-artistici, architettonici e ambientali (quest’ultima, in particolar modo, nelle località costiere), e favorendo la destagionalizzazione dei flussi turistici prevalentemente concentrati nei mesi estivi.
A guardare infatti i diversi documenti prodotti nel tempo da organizzazioni quali l’Unesco – dalla “Recommendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore” del 1989 alla “Convention for the Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage” del 2003 –, o prodotti dal Consiglio d’Europa – ricordiamo la “Convention on the Value of Cultural Heritage for Society” del 2005, meglio nota come “Convenzione di Faro” –, l’attenzione al rilievo socio-culturale dei patrimoni non è mai stata del tutto disgiunta dalla loro considerazione come risorsa per uno sviluppo socio-economico “sostenibile”.
Basti in proposito ricordare quanto enunciato all’art. 10 della richiamata Convenzione di Faro, significativamente titolato: “Patrimonio culturale e attività economica”, che così recita:
«Per utilizzare pienamente il potenziale del patrimonio culturale come fattore nello sviluppo economico durevole, le Parti si impegnano: a. ad accrescere la consapevolezza del potenziale economico del patrimonio culturale e utilizzarlo; b. a considerare il carattere specifico e gli interessi del patrimonio culturale nel pianificare le politiche economiche; c. ad accertarsi che queste politiche rispettino l’integrità del patrimonio culturale senza comprometterne i valori intrinseci».
Tale circostanza ha finito per determinare una situazione, direi, paradossale: non può esservi più discorso pubblico, neanche a livello accademico, dedicato alle feste religiose di tradizione che non ne consideri la dimensione economica e che non presti attenzione ai processi di patrimonializzazione in chiave turistica. In verità oggi, potremmo però dire da almeno un ventennio, nessuna ricerca scientifica sul patrimonio cerimoniale di tradizione, gode di attenzione istituzionale o di significativi finanziamenti pubblici, se esclusivamente rivolta allo studio delle feste religiose quali spazi di espressione della fede e di riproduzione delle strutture sociali e morali di una comunità o comunque dedicata ad aspetti che non tengano in debito conto gli effetti sullo sviluppo dei territori e, appunto, la loro ricaduta economica.
Eppure, oggi più che mai, proprio nel momento in cui il patrimonio culturale è sempre più valorizzato nella dimensione del mercato, nel momento in cui la festa religiosa rischia di divenire merce e come tale di essere gestita e manipolata a livello politico e mediatico, nel momento in cui cioè si fa più forte il rischio che le sia pur lodevoli politiche di promozione del patrimonio culturale, contrariamente a quanto enunziato nella Convenzione di Faro, non «rispettino l’integrità del patrimonio culturale» e ne «compromettano i valori intrinseci», è necessario ricordare cosa sia realmente una festa religiosa tradizionale, quale ne siano realmente la rilevanza socio-culturale e, letteralmente, antropologica prima che economica.
Una festa – “religiosa” in quanto correlata alla credenza in entità extra-umane; “tradizionale” in quanto “tramandata da generazioni” (cioè non frutto di recupero colto o re-invenzione) – è un insieme di simboli e di atti rituali pubblicamente agiti e sistemicamente coordinati in una sequenza coerente e significativa. La festa tradizionale è cioè un evento perfettamente programmato per cui si sa che, perlomeno sul piano ideale, «in un momento definito, in un determinato luogo, alcuni partecipanti, assumendo i ruoli previsti, eseguiranno, come hanno già fatto, un certo numero di compiti e adotteranno certi comportamenti seguendo uno schema dato e all’interno di un’atmosfera pure egualmente prevedibile, malgrado la sua apparente spontaneità»[1]. Le attività festive si incentrano, dunque, su pre-determinati comportamenti/oggetti rituali (che presuppongono un insieme di credenze condivise), i quali ne costituiscono gli elementi qualificanti denunciandone l’alterità rispetto al vissuto quotidiano.
Pertanto può dirsi che il rito festivo è un, se non il “luogo culturale” per eccellenza di affermazione individuale e sociale in un quadro di rifondazione cosmica, di partecipazione e di relazione, di risoluzione di conflitti (emotivi e/o sociali), di sospensione/sovversione e a un tempo di riproposizione di ruoli, rapporti e gerarchie, di soddisfacimento di esigenze economiche, sociali e culturali, di produzione e ri-produzione di sensi (individuali e collettivi) in una dimensione spazio-temporale percepita come “altra” da quella quotidiana. Mentre appaga la sete di sacro e di garanzie di benessere e continuità, ribadisce i principi normativi e i valori etici che regolano e animano la comunità; riafferma le regole cui tutti “dovrebbero” aderire e conformarsi, riattualizza la memoria storica della comunità, restituendo senso a una quotidianità precaria e conflittuale e ribadendo un’immaginaria identità culturale costantemente minacciata.
Attraverso i riti festivi, infatti, si ri-creano, si ri-nominano e si ri-ordinano lo spazio e il tempo come prodotti culturali e si ri-propongono le coordinate etiche e relazionali avvertite come costitutive della propria identità individuale e comunitaria, si scandiscono i passaggi della vita individuale e collettiva entro una cornice sacra che contribuisce ad amplificarne il senso e a ricondurre mutamenti e trasformazioni entro un ordine generale dell’esistere. Assunta come “testo”, come espressione coerente e non arbitraria di un sistema culturale, e confrontata tanto con il suo passato quanto con la prassi quotidiana, la festa consente pertanto di intendere a livello profondo la vita sociale di una comunità e le relazioni tra le sue componenti, di leggerne le attese e le contraddizioni, di coglierne i segni della memoria, di comprenderne il presente e, in certa misura, di prefigurarne il futuro.
È in ragione di questi fatti che se da un lato istituzioni pubbliche e accademiche devono, di concerto con le migliori espressioni associative delle “comunità patrimoniali”, adoperarsi nel preservare, valorizzare e promuovere le manifestazioni della religiosità tradizionale, devono, dall’altro, sia adoperarsi a contrastare e contribuire a governare i rapidi e violenti processi di turisticizzazione del patrimonio immateriale promossi da agenzie esterne alle comunità, sia certe disorganiche e culturalmente inconsistenti azioni di valorizzazione istituzionale, sia certi rinnovati tentativi di “purificazione” della pietà popolare sostenuti da parte della Chiesa. Tali processi, infatti, tendono a riadattare le forme e i tempi tradizionali degli iter rituali non alle esigenze delle comunità che questi riti producono e partecipano ma a quelle dei fruitori esterni; tendono cioè a soddisfare le aspettative di questi ultimi riconducendo la varietà dei tempi, dei temi e delle forme esecutive che caratterizzano o caratterizzavano, da luogo a luogo, le cerimonie festive, entro uno schema ben consolidato, finendo con il trasformare il rito religioso in spettacolo profano.
Basti guardare ai processi di trasformazione e adeguamento delle cerimonie della Settimana Santa: ecco moltiplicarsi le “passioni viventi”, che, affidate ad attori semi-professionisti appaiono prive di quella spontaneità e, appunto, di quella passione che ne caratterizzavano, laddove queste erano storicamente radicate, l’esecuzione; ecco comparire ovunque, ben oltre i confini iberici, cappucci a punta e fastosi addobbi dei simulacri esemplati dai modelli sivigliani; ecco imporsi costumi, musiche e canti del tutto estranei alle tradizioni locali; ecco nascere Confraternite e Fratellanze a tutto interessate tranne che a sostenere la fede e a salvaguardare la tradizione; ecco, infine, costituirsi la Settimana Santa globale, una meta-Settimana Santa, che omologa, travisandoli capziosamente, le memorie, i valori e le funzioni fondanti dei riti locali. Tali processi, già ampiamente in atto, se da un lato attentano alla vita di un dispositivo fondamentale per la tenuta delle comunità e il soddisfacimento dei bisogni dei suoi singoli componenti, finiscono dall’altro, estinguendo ogni peculiarità, ogni spontaneità, per comprometterne lo stesso interesse “turistico”. Perché a fronte del ripetersi di analoghi modelli recarsi a Siviglia piuttosto che a Malaga, a Trapani piuttosto che a Caltanissetta o in qualunque altra città o borgo minore d’Italia o di Spagna?
Le tante e diverse cerimonie della Settimana Santa rischiano oggi davvero di farsi Carnevale, di divenire la caricatura di se stesse, di divenire irriconoscibili ai suoi stessi attori, e di subire quanto, nel corso degli anni Sessanta del Novecento, è accaduto appunto ai tanti carnevali di tradizione: totalmente de-sacralizzati e ridotti in ogni dove a sfilate di carri allegorici, nella più parte dei casi completamente estranee alle locali tradizioni storiche e cerimoniali.
Che fare dunque per non trasformare il folklore in mero oggetto di profitto? Direi promuovere la conoscenza, valorizzare la varietà e la peculiarità delle tradizioni locali, sollecitare le comunità rispetto alla loro salvaguardia, disincentivare ogni forma di omologazione, contrastare, infine, la mercificazione del sacro. Tutte indicazioni che, con ineguagliabile spirito critico, Luigi Lombardi Satriani ha saputo fornirci per tempo e che noi, per paura, per ignavia, per interesse, non abbiamo saputo o voluto ascoltare. Tutte indicazioni che però restano lucidamente esposte nelle sue opere e che infine qualcuno, migliore di noi, saprà raccogliere.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
[*] Questo testo fa parte del volume collettaneo Per Luigi. Scritti in memoria di Luigi M. Lombardi Satriani, in stampa presso le edizioni del Museo Pasqualino. Si ringrazia per averne autorizzato la pubblicazione in anteprima.
Note
[1] P. Smith, La festa nel suo contesto rituale, in C. Bianco, M. Del Ninno, a cura, Festa. Antropologia e Semiotica, Nuova Guaraldi, Firenze 1981: 212
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