24 dicembre 2022

TIME TO LOVE

 


COS' E' DAVVERO L'AMORE? “TIME TO LOVE” (1965) UN FILM DI METIN ERKSAN

di Pietro Pascarelli

Ho visto nei giorni scorsi, sulla piattaforma “Mubi”, Time to love (Sevmek Zamani), un film turco del 1965 appena restaurato, diretto da Metin Erksan, con Müşfik Kenter e Sema Özcan  −− splendidi e iconici interpreti di un film di assoluto lirismo −− che mi ha molto colpito come vertigine del senso sospeso fra immanenza e trascendenza, come apertura agli affetti e all’immaginazione vegliata dal pensiero razionale, cosa rara ad aversi. Il film è in bianco e nero, e perciò potentemente surrealistico, ammantato di una misteriosa originalità, grazie anche alla fotografia attenta e sognante, e alla colonna sonora costituita da melodie e ritmi medio-orientali che è unica per la semplicità con cui la musica si presenta sulla scena, e per il modo, raffinato e intenso a un tempo, in cui scandisce e interpreta la narrazione. Ho detto narrazione, ma non è questa forse la parola  per dire di un film che si presenta anche come una parabola per episodi, che si potrebbe rappresentare ad opera di predicatori itineranti all’infinito e per ogni sperduta contrada,  perché la trama serve unicamente come supporto per presentare alla platea universale degli uomini, e al loro spirito, un insegnamento elevato che affonda le sue radici nella tradizione culturale e religiosa, verosimilmente sufi, come suggerisce la scheda sintetica del film. I fatti sono esposti, anche nei momenti di massima tensione emozionale, con pacata semplicità e con uniformità di ritmo, come si conviene a una rivelazione, o a una scoperta dello spirito. E non mancano l’enigma e il mistero, il richiamo all’osservanza dogmatica e alla fede, la consapevolezza di essere chiamati all’ascolto di una voce che è divina o profetica.

 

Al di fuori di una simile cornice interpretativa, certe modalità espressive e recitative possono forse apparire agli occhi smaliziati del critico cinematografico, che io non sono, o di un certo gusto d’oggi, che non credo di rappresentare, come ingenue. Ma io vedo in esse una freschezza originaria che dà risalto alla potenza della materia e dei concetti implicati, e una delle virtù nascoste del film inteso come narrazione di eventi esemplari. Il tema sarebbe qui la verità, che in quanto tale potrebbe essere solo, in un certo qual modo, religiosa, dell’amore e sull’amore. Perché è di questo che il film tratta, prendendo il volo da una sceneggiatura in cui colpisce quanto essa si affidi più che alle parole (pochissime)  alla dovizia di eloquenti diversi primi piani dei volti, di espressioni da studiare, o meglio da contemplare, nella logica dell’ostensione di quadri edificanti cui accennavo, e che pian piano costruiscono la cornice di riferimento valoriale/religiosa/rituale entro cui leggere l’epopea dei personaggi. Il protagonista del film è però l’amore con le sue altezze e contraddizioni, posto come presenza intima ma di abissale distanza dalle creature umane, in una visione che può indicare la via della rinuncia come cifra della grandezza di spirito. Vi è il tema dell’unione fra amore e morte, che almeno sul piano dell’azione drammatica si ripropone anche qui, senza che questo comporti una revisione dell’idea d’amore sostenuta nel film a prescindere dal contenuto narrativo.  Vi sono le miserie e la nobiltà dell’animo umano, i colpi di scena e le svolte impensate della Fortuna.

 

Un uomo semplice e di posizione sociale modesta ma di grande personalità e spiritualità, di nome Halil, un imbianchino che l’azione ci presenta insieme a un più anziano compagno di lavoro e amico, mentre con lui lavora in una villa nelle Isole dei Principi, a sud di Istanbul, si innamora della fotografia di una giovane donna bellissima, che giganteggia in una casa vicina sul muro di una stanza affacciata con grandi vetrate sul mare. Ogni mattina il giovane si reca in questa casa dalle porte aperte, e contempla il volto dell’amata. Accade che un giorno, spinta dal desiderio di godere della bellezza di quelle isole in autunno, e proprio mentre il protagonista, seduto su un divano, è assorto nel suo consueto appuntamento amoroso con la sua immagine, giunga in casa la donna del ritratto, di nome Meral, cogliendo di sorpresa con la sua improvvisa comparsa nella realtà il trasognato amante del suo sembiante. Il quale però, di fronte al compiacimento della giovane, folgorata da quella scoperta e dall’incontro, e ai suoi sempre più decisi inviti a entrare in una relazione reale, la respinge, dicendo che è innamorato della sua fotografia e non di lei, dicendo altresì della paura che la realtà, una presenza materiale, il rapporto con la donna in carne e ossa, la sua imprevedibilità, possa distruggere il suo sogno, e rubargli la felicità che prova nella contemplazione fantastica dell’amore: perciò non può prenderla per mano, perché un giorno ella potrebbe rifiutarsi di stringergli la mano, ma anche e forse di più perché non si può accettare che una forma di spiritualità e di bellezza superiore, che pure nasce su base umana, poi perisca per causa umana: nessuno, questo sembra dire il comportamento dell’uomo, ne ha il possesso, nessuno può disporne come se fosse cosa sua, anche se vi trova la gioia e vede in sé sorgere un legame insolubile ad essa e la paura di poterla perdere. Di qui in avanti, dopo queste stupefacenti dichiarazioni, pronunciate con impavida e ispirata convinzione, rispondendo anche a ovvie esigenze di dialogo con le aspettative del pubblico (è pur sempre un film, ma ce ne vuole per uscire dalla sua malìa visionaria) la narrazione si snoda poi con un intreccio di eventi che chiunque potrebbe  immaginare come congrui alle premesse e in qualche modo attesi, se non canonici. Ecco quindi abbandoni e ricongiunzioni, intese e malintesi, scontri con un indegno rivale, nei quali si rivela peraltro la forza d’animo e la grande levatura spirituale del giovane amante quando è fatto oggetto di violenza o nel modo in cui affronta le sue difficoltà. Ma in alcuni dettagli il film fa emergere la sua natura di invito ad andare oltre le righe della narrazione. Mentre Meral, ormai perdutamente innamorata, e che nella sua solitudine estenuata legge i distici elegiaci dell’Ars amatoria di Ovidio, lo abbraccia, mai stanca di proporsi nella sua presenza fisica, Halil rimane fin che può comunque lontano, pensoso, costringendola a tenere confinata e negata la sua sensualità. Guarda altrove, e deve avere davvero buoni motivi per resistere in quel modo e sottrarsi alla dolcezza di lei che lo avvince,  come pure per non avvilirsi di fronte alla mala sorte o alle percosse dei compari del rivale.  Qualcosa che va al di là della paura della perdita, della rovina delle illusioni, perché altrimenti saremmo di fronte a un comportamento infantile, o a una qualche forma di psicopatologia e basta. E anche dopo aver compiuto passi decisivi e che segnano il cambiamento radicale di rotta, quando ha cominciato ad accettare e ricambiare l’amore della ragazza, talora per spontaneo ripensamento, talora per eventi avversi che interrompono l’accettazione dell’amore con l’amante incarnata, l’uomo può recuperare in un attimo la sua posizione precedente, quella base di disincanto e di elevazione suprema, che gli permette di accettare compostamente la rinuncia o il dolore della perdita. Quando Meral, di fronte ai suoi ondeggiamenti e ripensamenti, sembra cedere alla corte del rivale, e accettare di sposarlo, come la stampa annuncia con dovizia di particolari, trattandosi della figlia di un uomo ricco e importante, mentre il vecchio padre si dispera, lui, Halil,  non fa altro che comprare il più bell’abito da sposa che trova in città, compreso il manichino che lo indossa, e appartarsi sulla sua barca, nella quiete familiare delle acque che circondano il suo rifugio campestre, in compagnia del manichino e del grandissimo adorato e onnipresente ritratto della ragazza, regalatogli da lei stessa nell’occasione del loro primo incontro. La barca fila sul lago spinta piano dai remi in una indicibile, estatica soavità.  Non si può parlare secondo me davvero di feticci, né di materializzazione in oggetti di un delirio, con riferimento al manichino dai veli vaporosi e al ritratto nella sua grande cornice e con la corda sul dorso che lo rende trasportabile, sistemati ben in vista  all’uomo e al mondo a bordo. L’uomo non ha lasciato mai il ritratto nei suoi spostamenti nomadi fra palazzi e stradine di campagna, che lo riportano a ripercorrere sempre gli stessi itinerari dal mare o dalla città verso la sua piccola casa sull’acqua, e viceversa, nel riunirsi o separarsi da lei, o semplicemente da un mondo in cui nessuno, lei nemmeno, può comprenderlo. Non si può declinare la vicenda sul piano della clinica per svariati motivi, di cui per me il principale è nel fatto che qui siamo di fronte, nel film, alle tracce evanescenti ma infuocate di una scrittura superiore che è stata tracciata in un tempo fuori dal nostro, per qualcosa cui il pensiero, l’uomo, si avvicinano senza poter vedere e toccare, ma con la missione di confrontarsi, di accostarsi, di cercare un impossibile approccio con l’ineffabile e l’incommensurabile. Il giovane è una specie di monaco che contempla con questa modalità e celebra con devozione il mistero dell’amore che non si deve confondere con la congiunzione dei corpi o un sentire e condividere affetti, ma si deve lucidamente intendere come la capacità di ciascuno di partecipare di una realtà superiore, di un supremo valore immateriale.

 

E in questa realtà superiore, nel finale, gli amanti trovano forse estremo rifugio quando, riunitisi sulla barca che lei ha raggiunto fuggendo dalle nozze con l’abito da sposa indosso, e adagiato sull’acqua il ritratto, sommerso il manichino abbigliato, in una simbolica trasformazione del legame astratto in una unione reale, sono raggiunti dai colpi di fucile del rivale abbandonato che ha seguito folle di gelosia la donna fuggitiva.

Ma non è in quel che fin qui ho detto che si trova il motivo principale del mio interesse e della forte impressione che il film ha lasciato in me. Occorre fare un passo indietro per spiegare le cose e introdurre con un passaggio del film quel che mi ha davvero colpito, e su cui vorrei brevemente soffermarmi. Di fronte all’atteggiamento duro e respingente che Halil subito oppone alla sincera offerta d’amore di Meral, subito l’amico non commenta le ragioni addotte da Halil, la sua difesa dell’illusione al punto da rinunciare a una meravigliosa realtà, né prende posizione. Ma pochi giorni dopo che la ragazza ha fatto da sola tristemente ritorno a Istanbul dopo essere stata rifiutata come persona reale, il fatto che Halil sembri rientrato completamente nel suo mondo, come se nulla fosse accaduto, lo spinge a cambiare atteggiamento. Non sopporta il fatto che lui sembra aver dimenticato, che non cerchi quella ragazza così innamorata. Il fatto lo sconcerta, al punto da fargli rivolgere durissime parole di rimprovero al giovane, ed esortarlo a cercarla in nome di un principio non detto ma che sembra inerente all’ordinamento universale delle cose. Il giovane è scosso, sotto l’effetto delle parole dell’amico rivede le sue decisioni, e riesce a rintracciare Meral. Tralascio il fatto che per un po’ i tentennamenti di lui continuano, fatto di per sé pregnante nella logica dell’interrogazione che appare  in piena luce nel film, quella se le paure e i fantasmi possano sconfiggere la realtà presente e impedirle di realizzarsi,  per tornare alla questione sollevata da quell’uomo anziano, che per me è la vera questione, come ipotesi scomposta in due parti, che viene discretamente posta nel film, e cioè a) che l’amore, ogni amore, faccenda terrena anche se non del tutto terrena, non sia cosa del tutto privata, e invece investa la sfera morale, spirituale, religiosa, sia qualcosa che interessa tutti gli uomini di una comunità, e tutta l’umanità. Qualcosa che eccede la responsabilità e la decisione individuale fin dall’inizio, e che come tale chiama sempre in causa non solo il singolo, o i soli amanti, qualcosa che si prova ma di cui non si ha a un certo punto il possesso esclusivo, ma è patrimonio dell’intera comunità, e rappresenta i suoi principi, la sua cultura, le sue leggi, la sua religione, il suo bene.  L’amore inoltre, e siamo alla seconda parte dell’ipotesi, b), non esiste come un’astrazione vuota, nella sola estasi idealizzante, che pure ne è parte, e per realizzarsi pienamente vuole il reciproco riconoscimento e la riunione degli amanti. Ne deriva la doverosità dell’intervento di un terzo, che rappresenta una comunità, quando la legge dell’amore non è compresa o è infranta, perché si impedisca o si ripari l’errore, perché quel bene immateriale resti inviolato e possa essere realizzato e conseguito.

 

Non so quanto ci possano suggerire su queste tematiche le suggestioni di altre culture. Io personalmente dopo il film mi ritrovo a pensare, divagando, all’amore assoluto che nel racconto L’Angelo suggellato, di Nikolaj Leskov, lega la comunità itinerante di artigiani muratori russi, un artel’,  a un’icona raffigurante un angelo, dal volto meraviglioso e dalle splendide vesti che sembrano ardere per l’abbondanza d’oro che le intesse, da cui proviene loro ogni bene e protezione. Ma penso anche ad altre variazioni  e “rivoluzioni” sul tema con le loro grandi differenze:  a Cielo d’Alcamo col  “contrasto”, a  Guido Guinizelli, a Dante, al suo “amor ch’a nullo amato amar perdona”, e all’inversione dei ruoli rispetto al film nel canone dell’amor cortese, in cui è un’austera dama che si pone a distanza dal cavaliere che le offre devozione e servigi vedendo in lei causa e principio della virtù e del suo valore.  E sull’amore cavalleresco, e sulla forza dell’ideale,  rinvio alle splendide immagini del film di Éric Rohmer Il Fuorilegge (Perceval le Gallois) (1978). Ma sull’amor cortese, in cui la donna viene appellata non per caso al maschile con l’espressione provenzale Mi Dom (Mio Signore), che sintetizza tutto un discorso simbolico, penso anche a Jacques Lacan e al suo seminario VII, L’Etica della psicoanalisi, col capitolo L’amor cortese come forma di anamorfosi. Vi troviamo basi per l’idea della riduzione della persona a funzione simbolica, l’ipotesi di una tensione verso un impossibile, un assoluto, che vede la donna come Das Ding, idolatrata per quel che non ha e può rappresentare, e che si scorge all’improvviso per anamorfosi.

 

Ma contemplo anche ulteriori possibilità. Penso che Time to love, oltre a sottrarre l’amore ai vari cliché con cui la letteratura e le arti lo hanno ritratto e con cui è sedimentato nel senso comune, e a presentarcene una visione aperta e problematica, possa infine, senza volerlo, rinviare anche a quel cielo aperto in cui ciascuno trova un punto di rapporto con la mente infinita, col sogno, con il potere dell’inconscio che sorprende, produce, rivoluziona le cose e i rapporti fra loro. Qualcosa che ha a che fare con la “gioia eccessiva”, e con la “mente estatica”, di cui ci ha parlato Elvio Fachinelli. Tutto acquista un senso nuovo. L’unione può trovarsi nella disunione, le consuetudini sono sospese o revocate, nulla è scontato. E il corpo è reversibilmente mente e la mente è reversibilmente corpo ed estensione. E un tempo che non esista al di là del presente, e non lo rifugga, non è dato.

PEZZO RIPRESO DA https://www.leparoleelecose.it/?p=45760


Nessun commento:

Posta un commento