Pubblichiamo la versione integrale di un articolo di Tiziana Lo Porto apparso su Il Venerdì di Repubblica, all’interno di uno speciale dedicato a Ultimo tango a Parigi in occasione del cinquantesimo anniversario dell’uscita in sala.
UNA SFIDA ALL’INNATO SENSO DEL PUDORE
di Tiziana Lo Porto pubblicato sabato, 10 Dicembre 2022
Testo ripreso da https://www.minimaetmoralia.it/wp/arte/una-sfida-allinnato-senso-del-pudore/
Intricata e parecchio appassionante è la vicenda processuale legata a Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, il cui inizio può essere fatto risalire al giorno della prima italiana, il 15 dicembre del 1972, in un cinema di Porretta Terme, in provincia di Bologna, nell’ambito della Mostra Internazionale del Cinema Libero. Alcuni spettatori (sei in tutto, due coppie, nessun single) escono dalla sala prima della fine indignati dalla scabrosità di alcune scene, un paio di loro inviano una lettera in procura denunciando il film per oscenità e richiedendone il sequestro. Prima di essere distribuito in sala il film ha superato il vaglio della Commissione per la censura cinematografica, che ha chiesto di modificare una battuta e di tagliare dieci metri di pellicola, due tagli in tutto. Uno dei tagli corrisponde a otto secondi diventati leggendari in cui Jeanne/Maria Schneider completamente vestita e con il cappotto, in piedi vicino a una delle finestre dell’appartamento vuoto, con Paul/Marlon Brando, vestito anche lui e col cappotto, al loro primo amplesso, ha un orgasmo. Il produttore, Alberto Grimaldi, ha accettato taglio e modifica e il 12 dicembre del 1972 il film ha ottenuto il nulla osta del Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Ma la Commissione per la censura agisce solo preventivamente presidiando il buoncostume, e il nulla osta non impedisce che a fronte delle denunce si proceda penalmente, ex post e a salvaguardia del pudore.
A fronte delle denunce, e dopo avere visionato il film, l’allora sostituto procuratore del tribunale di Roma, Niccolò Amato, ordina il sequestro della pellicola in tutta Italia, e per competenza territoriale rimette gli atti alla Procura di Bologna, nella cui provincia è avvenuta la prima proiezione. Imputati, insieme a Bertolucci, sono il produttore Alberto Grimaldi, il distributore Ubaldo Matteucci, e gli attori protagonisti del film, Marlon Brando e Maria Schneider, tutti accusati di concorso nel reato di pubblicazioni e spettacoli osceni, secondo l’articolo 528 del codice penale. La questione da decidere in sede giudiziaria è se il film sia da ritenersi osceno. E prima ancora se sia un’opera d’arte, cosa che sempre secondo il codice penale ne escluderebbe a priori l’oscenità. Articolo 529: “non si considera oscena l’opera d’arte e di scienza”. Il processo assume così le sembianze di un convegno di estetica, letteratura, arte figurativa e critica cinematografica, durante il quale vengono chiamati in soccorso di Tango D.H. Lawrence, Céline, Bataille, Henry Miller, e anche Dante, Michelangelo nella Cappella Sistina e la Bibbia (così nella successiva sentenza a proposito della scena del burro e di quella della sodomizzazione di Paul/Marlon Brando da parte di Jeanne/Maria Schneider: “cfr. Genesi, 19, 1-20 Lot, gli angeli e i sodomiti”).
Tutto bene in prima istanza: la sentenza del 2 febbraio del 1973 del Tribunale del Bologna assolve tutti, ritenendo che malgrado il contenuto delle due scene citate sopra (su cui insiste particolarmente l’accusa), il film riesce a “lambire i limiti dello schema dell’osceno”. In sostanza per i giudici le scene di sodomizzazione sono strumentali e necessarie all’impianto narrativo del film che risponde indubbiamente ai canoni dell’opera dell’arte. Viene ordinata l’immediata restituzione delle copie sequestrate del film. L’accusa ovviamente non è contenta, il caso finisce presto in appello, e la Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 4 giugno 1973, stabilisce che la giuria precedente si è sbagliata e che l’“errore di valutazione” vada corretto, ritenendo scene come quella del burro di “una volgarità evidenziata che supera ogni limite di sopportazione”. Il film viene liquidato come “un’apologia della pornografia, suggerita dall’interesse di richiamare allo spettacolo grandi masse di pubblico, attratte dalle vicende di un film scandalistico”, “profondamente immorale, perché in esso si negano tutti i valori morali su cui si fonda la civile società”, “una sfida all’innato senso del pudore”, “persino noioso”, “straordinariamente banale”, e ancora: “fumettone spettacolare”, così da precipitare nuovamente nel girone delle opere oscene. La nuova sentenza condanna ogni imputato alla pena di due mesi di reclusione e a una multa di 30.000 lire. Viene ordinato il sequestro e la confisca di tutte le copie della pellicola in circolazione in Italia. Ma la partita è tutt’altro che chiusa: gli imputati passano all’attacco contestando alla sentenza non tanto l’accusa di oscenità, quanto il fatto che la decisione se il film debba essere considerato o meno “opera d’arte” non sia stata presa in base a canoni estetici ma esclusivamente in base a canoni morali. Viene dunque chiesto di giudicare nuovamente Tango tenendo distinti i due piani, quello dell’artisticità e quello dell’oscenità. La sentenza viene annullata per difetto di motivazione e gli imputati ottengono il rinvio del giudizio a un’altra sezione della Corte d’appello di Bologna.
Quest’ultima si pronuncia nuovamente il 26 settembre del 1974 insistendo sull’oscenità del film, e ricorrendo a canoni estetici per dimostrare che non si tratta di un’opera d’arte. Così la sentenza: “lungi dall’essere un’opera d’arte, Ultimo tango a Parigi rimane un saggio di pornografia artificiosamente intessuta di implicazioni pseudo-culturali escogitate allo scopo di assicurare l’agibilità senza eccessivo rischio; non dissimile da analoghi prodotti destinati ad essere commercializzati”. La condanna viene confermata e viene nuovamente ordinata la confisca di tutte le copie della pellicola già sequestrate, salvo tre che vengono depositate alla Cineteca Nazionale come corpo del reato e poche altre che trovano il modo di sopravvivere, o perché all’estero e dunque libere di esistere, o perché nelle mani di privati liberi di visionarlo nel conforto delle pareti domestiche. Ma gli imputati non si arrendono e si rivolgono alla Corte di cassazione, che il 29 gennaio del 1976 conferma la sentenza impugnata: Ultimo tango a Parigi, oltre a essere osceno, non è un’opera d’arte. Insieme agli altri diritti civili gli imputati perdono per cinque anni il diritto di voto. Durante quei cinque anni la vicenda legale rimane ferma, e nel frattempo Bertolucci gira Novecento, in quarantadue settimane, tutto in inglese e con qualche attore francese. Dirà più avanti di averlo girato perché l’esagerato accanimento contro Ultimo tango lo aveva fatto sentire onnipotente.
Arriviamo così agli anni ottanta, al 25 settembre del 1982 per esattezza: durante la rassegna “Ladri di cinema” organizzata a Roma al Centro Palatino, viene proiettato Tango, alla presenza di un pubblico e del regista. La pellicola viene sequestrata e a essere denunciati questa volta, insieme a Bertolucci, sono gli organizzatori della rassegna. A difendere film e imputati è l’avvocato Luigi Di Majo, che si rivolge all’allora sostituto procuratore del tribunale di Roma, Antonio Marini, chiedendo che malgrado la definitività della sentenza venga esaminato nuovamente il film per decidere ancora una volta se sia osceno e se sia opera d’arte. La tesi di cui si avvale Di Majo è che trattandosi di un pubblico differente anche il reato è differente. Marini accetta la richiesta e formalizza l’inchiesta affidandola al giudice istruttore Paolo Colella che a sua volta decide per un’istruttoria formale e dispone di una perizia collegiale per accertare l’eventuale artisticità dell’opera. Nella richiesta di perizia Colella precisa che andrà accertato se la pellicola in sequestro possa considerarsi oscena “alla luce del costume attuale” e se offenda il pudore secondo quello che “allo stato attuale” risulta essere il comune sentimento. Dalla prima proiezione sono passati più di dieci anni e due referendum, uno che ha approvato il divorzio e l’altro che ha approvato l’aborto. I tempi sono cambiati. In sede di perizia si ritorna così al dilemma di partenza: Tango è o non è un’opera d’arte? Il collegio che dovrà decidere è costituito da due critici cinematografici di diversa estrazione ideologico-culturale: Fausto Gianì e Claudio Trionfera. Insieme a loro c’è Maurizio Grande, docente universitario di Storia dello Spettacolo e di Metodologia di Critica dello Spettacolo. Il 26 e 27 giugno del 1986 vengono organizzate a Roma due proiezioni del film per i periti, la prima (di una copia malconcia ma in lingua originale con i sottotitoli) all’Istituto Superiore di Polizia Scientifica all’Eur, e la seconda (questa volta la copia è in condizioni migliori ma doppiata) al Centro Sperimentale. Dalla fine di giugno ad agosto il collegio produce una ventina di pagine, scritte a macchina con una Olivetti Lettera 32 e piene di correzioni fatte a penna. La perizia è accurata nell’analisi di Tango che viene perfettamente inquadrato nel contesto socio-culturale in cui è stato scritto e girato. Scrivono i periti in uno dei primi paragrafi: “Il tragico, in Ultimo tango a Parigi, è dato dal mito romantico dell’amore che non riesce ad armonizzarsi con la società: in questo caso è la dimensione di un amore distruttivo che non può armonizzarsi con la nuova cultura della liberazione: liberazione politica, liberazione etica, liberazione sessuale”. Non avrebbero potuto dirlo meglio. Soprattutto, dopo avere analizzato ogni scena (forse anche a beneficio di chi ancora non avesse capito il film), dichiarano in modo inequivocabile che Tango è un film “con piena dignità di opera d’arte”. Finalmente le sorti della partita si ribaltano: il giudice Colella, facendosi forte del parere espresso dal collegio nominato, con sentenza del 1987 lo colloca senza alcuna esitazione nella categoria delle opere d’arte, e ribadisce, a sostegno del film e della sua definitiva liberazione, il radicale mutamento della morale sessuale avvenuto nei quindici anni dalla prima proiezione di Tango all’87. Tango è opera d’arte e dunque non può essere osceno. Viene chiesto l’immediato dissequestro del film. Gli imputati vengono assolti “perché il fatto non sussiste”. Colella racconta che nel ricevere la comunicazione dell’esito al telefono, Bertolucci volle parlare con lui. Gli domandò se dovesse ringraziarlo. Il giudice disse: “No, i giudici non si ringraziano”. Così il regista lo salutò con calore. E chissà se da qualche parte nella conversazione non ci sia stato un silenzio, uno di quegli spazi vuoti che tanto amava Bernardo Bertolucci. A beneficio dell’immaginazione.
foto ©Angelo Novi / Cineteca di Bologna
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