Possiamo dirci di sinistra?
Negli ultimi anni s’è generalizzata la tendenza a categorizzare e trasformare le persone in etichette: etniche, culturali o diagnostiche. Questa logica differenzialistica – scriveva ormai diversi anni fa Alain Gussot in un articolo che intitolammo “Rifiutare le etichette” – finisce per accentuare separazioni, divisioni, esclusioni e diseguaglianze. L’essere ridotto a una dimensione categoriale e trasformato in oggetto di assistenza, cura, trattamento, intervento di controllo finisce per trasformare la persona umana in una cosa; quello che Karl Marx chiamava processo di reificazione. Ma davvero, alla luce dell’evidente e avanzatissimo decadimento delle culture politiche del nostro tempo, possiamo considerare una “etichetta” perfino il dirsi “di sinistra”? Annamaria Rivera, nel rivendicare memoria storica e appartenenza alla militanza femminista, antirazzista e antispecista, ci pare voglia porre la questione in modo assai diretto: al tempo del governo più di destra nella storia della Repubblica, paradossalmente guidato da una donna, ancor più importante sarebbe definirsi coerentemente di sinistra, cercando di trascendere ciò che la sinistra reale è oggi, con la sua quasi-irrilevanza e i suoi errori, per contribuire alla sua rinascita e alla sua rifondazione, per le quali fondamentali sono i nostri specifici contenuti femministi. Tanto più che oggi siamo sull’orlo del baratro: razzismo, sessismo e omofobia sono elementi strutturali della politica e della propaganda di chi ha vinto indiscutibilmente le elezioni. Una propaganda divenuta ormai, come nei regimi totalitari, strumento di governo
Se a metà degli anni ’70 del Novecento mi avessero posto la domanda “Quale identità politica per il movimento femminista?”, sarei rimasta allibita. Provo a spiegare sinteticamente il perché. Quella che viene detta la “seconda ondata” del femminismo si diffonde in Italia a partire dal 1968 e soprattutto nel corso degli anni ’70, allorché, fra l’altro, s’inizia a prestare attenzione a temi alquanto nuovi, come, ad esempio, tutto quel che riguarda il proprio corpo e la propria sessualità. In sostanza, si ambisce a una società che, dialetticamente, ponga l’accento sulle peculiarità femminili, ma garantendo nel contempo l’uguaglianza dei diritti.
Alla rinascita del femminismo nella forma di movimento di massa (grosso modo tra il 1975 e il 1976) aveva contribuito il fatto che molte di noi venivano, per l’appunto, dall’esperienza del ’68 e dalla militanza in gruppi della Nuova sinistra. Tuttavia quest’ultima non sempre riuscì a sottrarsi a ideologismi e dogmatismi, per non dire che alcune donne (non certo io e le altre del collettivo “Donne in lotta”) vi erano relegate nel ruolo di “angeli del ciclostile”, come si diceva allora sarcasticamente. Non per caso, uno degli slogan femministi più gridati sarebbe divenuto: “Compagni nella lotta, fascisti nella vita/ con questa ambiguità facciamola finita“.
Ciò nonostante, per fare l’esempio della Puglia, ove risiedevo, qui verso la metà degli anni Settanta, in tutte le città-capoluogo e anche in numerosi comuni, pure piccoli, sorsero collettivi femministi (a Bari fondammo il già citato collettivo “Donne in lotta”), i quali poi avrebbero costituito un coordinamento regionale.
Con l’eccezione del gruppo politico regionale in cui militavo e di alcuni altri, inizialmente le tematiche femministe trovarono allora scarsa accoglienza presso la Sinistra storica e finanche presso una parte della Nuova sinistra. Una delle ragioni teorico-politiche era costituita dal fatto che la lettura del marxismo in chiave tendenzialmente economicistica inducesse a considerare come irrilevante o secondario il tema della liberazione delle donne. Ma v’erano moventi ben più ignobili: quelli che spinsero la parte maschile di taluni gruppi “extraparlamentari” perfino a mobilitare i propri servizi d’ordine contro alcune manifestazioni femministe.
Più tardi il nostro coordinamento sarebbe entrato a far parte di una rete nazionale di collettivi simili. A contraddistinguerla erano la rottura con l’emancipazionismo nonché la presa di distanza dal “pensiero della differenza”, ma anche l’aspirazione ad articolare dialetticamente il femminismo con il marxismo. E ciò in modo analogo alle femministe materialiste, quali le sociologhe francesi Colette Guillaumin e Christine Delphy, nonché l’antropologa italiana Paola Tabet, che si richiamavano, a loro volta, a Simone de Beauvoir, la quale aveva operato una decisiva rifondazione teorica del femminismo, adottando una prospettiva filosofica al tempo stesso materialista ed esistenzialista.
A loro come a noi era chiaro che non si potesse trascurare la dimensione della condizione di classe: fattore basilare di discriminazione e ineguaglianza, anche di tipo sessista e razzista. Per dirne una, la nostra rete di collettivi fu capace di fare sistematicamente lavoro politico anche tra operaie, commesse e così via. Insomma, ritenevamo che, da femministe, non si potesse essere che decisamente e coerentemente di sinistra, nonostante le pecche della sinistra organizzata, anche di una parte di quella allora detta nuova.
In quegli anni si susseguirono governi a presidenza democristiana, alcuni con l’appoggio esterno del Pci. Ciò nonostante, nel 1974 vincemmo il referendum sul divorzio, sicché la legge Fortuna-Baslini (del 1º dicembre 1970, n. 898), che lo aveva istituito, rimase in vigore. Nel 1975 furono approvate la riforma del diritto di famiglia, che stabilì l’uguaglianza, almeno formale, tra i coniugi, ma anche la legge che istituiva i consultori familiari. Più tardi, nel 1978, avremmo ottenuto la legge 194, sull’interruzione volontaria della gravidanza.
E tutto questo anche grazie alle nostre lotte e al nostro “lavoro politico”; grazie al fatto che fossimo decisamente di sinistra e che, al momento opportuno, sapessimo scegliere le alleanze giuste: per esempio, nel caso del referendum sul divorzio, ci schierammo col Partito Radicale e con quello Socialista, mentre il Pci era orientato verso una trattativa con la Dc.
C’è da dire che allora, nonostante tutto, funzionava uno dei meccanismi fondamentali della democrazia: il circolo virtuoso tra rivendicazioni, lotte sociali, ottenimento almeno di una parte di ciò che si rivendicava. Occorre aggiungere che uno dei grandi meriti del femminismo degli anni ’70 risiede nell’opera rigorosa e costante di smascheramento e denuncia del neutro-maschile-universale.
En passant e a proposito dell’essere decisamente e coerentemente di sinistra, va detto che, per quanto apprezzabile, tutto ciò di cui ho scritto finora non è comparabile con la straordinaria e coraggiosa rivolta, esplosa in Iran subito dopo l’assassinio della giovane curda Masha Amini, uccisa dopo essere stata arrestata dalla polizia perché indossava il velo in modo scorretto. Quella iraniana è un’insorgenza che, pur decisamente voluta e guidata da donne, perlopiù giovani, è riuscita ammirevolmente a coinvolgere anche non pochi attivisti di genere maschile. Questi, a loro volta, sono ben consapevoli che la lotta per i diritti delle donne è anche lotta per la propria libertà e dunque contro la legittimità politica della truce Repubblica Islamica, caratterizzata, tra l’altro, da un autentico furore misogino. Si tratta, inoltre, di una sollevazione decisamente di massa, che, pur essendo costata finora centinaia di morti, migliaia di arrestati, decine di condanne a morte e perfino orrende impiccagioni, resiste con una tenacia e un coraggio decisamente ammirevoli, all’insegna dello slogan “Donna, Vita, Libertà”.
E, a proposito dell’importanza del “lavoro politico” e delle sollevazioni di massa: io penso che, se oggi il leghismo e altre formazioni di destra, anche estrema, dilagano pure tra le classi subalterne e nei quartieri popolari, è anche perché la sinistra le ha abbandonate. Ho trovato analogie inquietanti con ciò che scriveva Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo (1948), riferendosi soprattutto agli anni che precedettero il nazismo. Arendt parlava di processo di dissoluzione delle classi in favore della plebe, la quale, per causa soprattutto, ma non solo, della crisi economica, si era formata mediante i declassati e le declassate provenienti dai più vari strati sociali.
A tal proposito, pur limitandoci al contesto romano, si potrebbe fare un lungo elenco di gravi episodi di razzismo e di sessismo, anche violenti, accaduti nel corso dei decenni: favoriti, di sicuro, da dissennate politiche abitative, urbanistiche, più in generale sociali, ma anche fomentati ad arte da imprenditori politici del razzismo, soprattutto da formazioni di estrema destra. Di solito questo genere di violenza razzista è rubricata sotto la formula, ingannevole quanto abusata (perfino a sinistra), di “guerra tra poveri”, come ho scritto più volte.
Dunque, oggi, al tempo del governo più di destra nella storia della Repubblica, in sostanza un governo clerico-fascista, come si sarebbe detto un tempo, paradossalmente guidato da una donna, ancor più importante sarebbe definirsi coerentemente di sinistra, cercando di trascendere ciò che la sinistra reale è oggi, la sua quasi-irrilevanza e i suoi errori, per contribuire alla sua rinascita e alla sua rifondazione per le quali fondamentali sono i nostri specifici contenuti femministi. Tanto più per il fatto che oggi siamo sull’orlo del baratro: razzismo, sessismo e omofobia sono elementi strutturali della politica e della propaganda dell’attuale governo. Una propaganda, ben congegnata e ben pagata, che è divenuta ormai, come nei regimi totalitari, strumento di governo e, nel contempo, di manipolazione delle masse tendenti a divenire plebe, come si è detto: le due dimensioni vanno facendosi sempre più intercambiabili o addirittura coincidenti, insieme con la costante violazione del principio democratico della separazione dei poteri.
Si pensi al leghista Matteo Salvini, attualmente Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, in realtà un autocrate, si potrebbe dire, che non fa che emanare norme e leggi di puro stampo razzista, che, rinverdendo tradizioni nefaste, lancia i suoi proclami scurrili, da terrazze di sedi istituzionali. Insomma, è uno che ha già varcato la soglia della svolta autoritaria per avvicinarsi pericolosamente a quella nazi-fascista.
Conviene ricordare che a caratterizzare questo governo non è solo il razzismo più esplicito, ma sono anche l’omofobia e il sessismo. Ben rappresentati da Lorenzo Fontana, attualmente Presidente della Camera: un cattolico integralista, antiabortista, sostenitore della famiglia “naturale”, ostile verso i diritti delle persone lgbtqx, ma anche delle donne, considerate, in sostanza, al pari di “incubatrici per la Patria”.
Oltre tutto, il razzismo-sessismo, talvolta appoggiato o tollerato dagli alleati di governo, si coniuga spesso con l’ostentazione di un’ideologia clericale vecchio stile, per quanto strumentale e feticistica. Basta considerare l’esibizione, fra le tante, di Salvini nel corso di un comizio a Milano, il 18 maggio 2019. Qualche giorno prima si era mostrato con un mitragliatore in mano; in quella occasione ostentò dal palco un rosario, citando i santi patroni d’Europa e affidando il successo del suo partito al “cuore immacolato di Maria”. Questo genere di esibizioni da baciapile, per catturare il consenso della plebe (per citare ancora Hannah Arendt), è andato sempre più moltiplicandosi.
Per tornare al femminismo, va detto che in particolare Non Una di Meno ha il grande merito non solo di aver superato il separatismo (che contraddistingueva una parte del femminismo degli anni ’70), ma anche di aver integrato la questione Lgbtqia+ (e le persone in carne e ossa) e di aver saputo porre al centro il tema e la pratica dell’intersezionalità fra specismo, sessismo e razzismo. Dunque, ha, potenzialmente, la capacità di attrarre un numero rilevante di persone; e perciò di contribuire alla rifondazione di una sinistra – di base, diciamo così – che superi i suoi limiti tradizionali: non solo l’economicismo, ma anche lo scarso interesse per i diritti delle persone Lgbtqia+ e per la condizione dei non umani. Ritengo infatti – come ho scritto più volte – che lo specismo sia alla base del sessismo e del razzismo. E che sia stata/sia la bestializzazione degli animali a costituire il modello per la bestializzazione di talune categorie di umane/i.
È per ciò che detesto lo slogan “Restiamo umani”, diventato immancabile perfino nelle manifestazioni antirazziste, soprattutto in quelle contro le stragi di profughe/i nel Mediterraneo. In realtà, quella umana è l’unica specie di ominidi capace di compiere, in modo deliberato e programmato, stragi, guerre, genocidi, pogrom e femminicidi di massa. Penso sia utile pure la nozione di assoggettamento, proposta da Edgar Morin (1985), per dar conto anche dello sfruttamento e della continuità tra le dinamiche dello specismo, del sessismo, del razzismo, ma anche del capitalismo.
Basta fare un paio di considerazioni, in apparenza divergenti: 1. il razzismo e le discriminazioni conseguenti sono perfettamente funzionali allo sfruttamento della forza-lavoro “immigrata”, che arriva fino alla riduzione in condizioni quasi-schiavili o decisamente tali; 2. per ammissione dello stesso Hitler, i campi di sterminio nazisti ebbero come modello gli allevamenti e i mattatoi industriali.
Infine, da antropologa quale sono, mi permetto di concludere con una citazione dotta. Nel celebre discorso in commemorazione di Rousseau, pronunciato nel 1962, Claude Lévi-Strauss affermava che è attraverso la separazione radicale fra umanità e animalità che l’uomo moderno-occidentale inaugura quel «ciclo maledetto» che in seguito sarà la base per escludere dalla sfera dell’umanità un gruppo umano dopo l’altro e a costruire un umanesimo riservato a minoranze sempre più ristrette.
Pezzo ripreso da https://comune-info.net/possiamo-dirci-di-sinistra/.
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