05 aprile 2013

ALBERT CAMUS: SOLITAIRE ET SOLIDAIRE




A cento anni dalla nascita di Albert Camus continua la riflessione sulla sua opera. Ci ha fatto particolare piacere leggere l’articolo seguente su IL MANIFESTO:

Sonia Gentili - Albert Camus. La solitudine dello straniero

Nell'«attualità» di un pensatore si possono cercare strumenti di critica al presente o elementi utili a legittimarlo. È certamente del secondo tipo l'attualità che si cerca oggi di attribuire ad Albert Camus (Mondovi, Algeria, 1913 - Villeblevin, Francia, 1960), uno dei maggiori scrittori e filosofi del Novecento, in occasione di questo suo primo centenario. I temi della sua opera attraversano i maggiori campi di tensione filosofica del secolo appena trascorso: il rapporto tra l'uomo e la storia, quello tra morale e politica, il diritto alla violenza rivoluzionaria da parte degli oppressi. Contro la metafisica dello Stato che nelle filosofie a sfondo idealistico-hegeliano crea e dispiega finalisticamente l'uomo, Camus ha affermato l'individuo concreto, radicalmente collocato nella finitezza del presente. L'uomo di Camus si rapporta ad una realtà priva di Dio, in cui lo Stato di tradizione hegeliana non è che il tentativo di deificare l'oppressione dell'uomo sull'uomo.

All'individuo concreto non si offre che la possibilità della rivolta morale: da un lato demistificare la deificazione della Storia come finalismo collettivo, e dall'altro provare a medicare l'assenza di finalità e senso che caratterizza la natura, cioè l'assurdo nel quale siamo collocati, attraverso la scelta di combattere il dolore dei singoli senza barattarlo con astrazioni - destini e felicità future, nuovi ordini ecc.

Posto che l'uomo è condannato ad essere un Sisifo che lotta senza fine con l'assurdo naturale, egli deve lottare anche per provare a «immaginare Sisifo felice» (A. Camus, Il mito di Sisifo, 1942). Camus rifiutò la violenza rivoluzionaria che sacrifica concrete vite umane in nome di una giustizia futura e affermò il concetto di rivolta etica contro ogni omicidio nel saggio L'uomo in rivolta (1951); ciò determinò la frattura definitiva con Jean Paul Sartre, sostenitore invece della violenza rivoluzionaria. In merito a ciò, oggi si parteggia graniticamente per Camus, ritratto come un «libertario» e pacifista, per giunta coerente fino in fondo: su questo la saggistica seria (Paolo Flores D'Arcais, Albert Camus filosofo del futuro, Codice edizioni, 2010) e i pamphlet pieni di astio da talk show (Michel Onfray, L'ordre libertaire. Vie philosophique d'Albert Camus, Flammarion 2012) convergono. Ma non c'è retorica più ambigua, oggi, di quella libertaria, se non forse quella che condanna la violenza terroristica: vale la pena allora di approfondire questo punto.

L'orizzonte su cui Camus colloca l'uomo è in certo senso leopardiano: non storico, cioè, ma cosmico. La condizione umana non progredisce storicamente poiché il rapporto tra singola vita e assurdo naturale ne costituisce l'immutabile quadro trascendentale. Il progresso si dà solo nell'azione morale del singolo, il quale può e deve scegliere di essere solidale agli altri. L'uomo come «solitaire solidaire» («solitario solidale») di Camus è, appunto, assai vicino alla dottrina della «social catena» che gli uomini debbono creare tra loro per difendersi dalla Natura, teorizzata nella Ginestra leopardiana. Ora, se sul piano morale questa concezione dell'uomo è indiscutibile, sul piano concettuale essa non risolve ma rimuove, assieme all'orizzonte storico, il problema di come eliminare l'oppressione dell'uomo sull'uomo e della violenza rivoluzionaria.

Non a caso, nella Peste (1947), che raccoglie ed esprime il trauma storico dell'Europa nazista, il conflitto tra gli uomini è rappresentato metaforicamente, e di fatto trasferito, nella forma di un conflitto tra comunità umana e ordine naturale. Ma, se la metafora naturale della peste in definitiva esorcizza l'orizzonte storico dei conflitti, cioè il problema di una comunità umana oppressa da un'altra comunità umana e della sovversione violenta che ne deriva, la vita e la storia imposero a Camus l'esperienza di questo orizzonte poco meno di dieci anni dopo: nel 1954 gli algerini presero le armi per combattere gli occupanti francesi, alla cui comunità lo scrittore, seppur in modo socialmente debole, apparteneva. Camus tentò di invitare le parti alla pace, e di fronte all'inasprirsi del conflitto e agli attentati terroristici rispose, com'è noto, che tra sua madre e la giustizia avrebbe scelto di difendere la vita concreta di sua madre.

Le vittime algerine potevano replicare che la loro violenza nasceva dalla storia e in difesa di altre madri concrete; lo ha fatto quarant'anni dopo lo scomparso Edward Said (Culture and Imperialism New York, Alfred Knopf, 1993; traduzione italiana Gamberetti editrice, 1998) scrivendo che Camus «ignora o trascura la storia, cosa che un algerino, costretto a subire la presenza francese come un quotidiano abuso di potere, non avrebbe potuto fare. Per un algerino, il 1962 rappresentò probabilmente la fine di una lunga e disgraziata epoca inaugurata dall'arrivo dei francesi nel 1830, e il trionfale inizio di una nuova era».

Non è dunque solo Camus ad essere attuale, ma lo scontro tra la sua posizione e quella di Sartre: è attuale non il concetto di rivolta contro i meccanismi della storia, ma il dilemma che oppone questa rivolta alla rivoluzione agita per cambiare la storia. È un dilemma insoluto, poiché, se sul piano logico le due vie sono alternative, concretamente la rivolta è l'altra faccia della rivoluzione: ad ogni madre anteposta alla violenza rivoluzionaria corrisponde un'altra madre uccisa dal mantenimento di un ordine oppressivo. Oggi siamo ancora tutti di fronte a questo bivio.

Che senso ha, alla luce di tutto questo, la libertà umana per Camus? Il senso del folgorante giudizio che Sartre diede di lui all'indomani della sua morte («coi suoi no testardi riaffermava nella nostra epoca, contro le machiavellerie, contro il vello d'oro del realismo, l'esistenza del fatto morale») è che nell'opera camusiana la libertà di scelta e la scelta morale sono affermate anzitutto in quanto rifiuto, cioè come limiti regolativi dell'azione.

Camus è, come ha detto Alain Finkielkraut, «un pensatore del limite» e quella camusiana è una profondissima, geniale «ontologia del limite». Nelle sue strutturali contraddizioni, l'antropologia di Camus è la più alta formulazione del concetto di uomo come individuo collocato nel presente finito, refrattario alla predeterminazione finalistica di un destino collettivo.

Questo difficile cammino filosofico, l'unico a spezzare realmente il cerchio infernale dell'antropologia nazista, costituì un fallimento per molti intellettuali che, pur nella nettezza della loro dissidenza, restarono interni ad un'antropologia essenzialista e finalistica: così Thomas Mann, che nel discorso Goethe come rappresentante dell'età borghese tenuto il 18 marzo 1932, esortò la borghesia tedesca a contrastare l'ascesa hitleriana facendo appello al concetto nazista di Lebensraum, «spazio vitale» («Il diritto alla potenza è subordinato alla missione storica di cui si è o si può legittimamente credersi esponenti. Quando lo si rinneghi o ci si dimostri ad esso impari, converrà sparire»).

Nel Novecento, riportare nel dominio della filosofia l'individuo in carne e ossa ha significato riformularne la solitudine cercando una nuova mediazione tra il singolo e la storia. Un certo pensiero antropologico - ad esempio quello di Ernesto De Martino, cui non a caso l'idealista Croce negò ogni statuto filosofico - ha individuato questa mediazione in un momento fondativo ed originario di unità tra l'individuo e il tutto naturale. Il piano della «metastoria mitico-rituale» è il motivo filosofico centrale degli scritti di Camus che descrivono la relazione tra l'uomo e il paesaggio algerino prodotti tra il 1936 e il 1953, poi riuniti in Nozze e in Estate.

La percezione della natura africana - il deserto, il mare - riconduce l'uomo alla coscienza di essere vivo, in relazione con ciò che rende la sua vita presente. La vita è «solarità tragica», «pienezza angosciante» in cui tutta la storia si azzera e rinasce concretamente, individualmente, misteriosamente nel rapporto tra natura e singolarità concreta. È questo il senso del titolo che Camus diede al suo ultimo romanzo, pubblicato postumo nel 1994: Il primo uomo è l'individuo còlto nel concreto assoluto della sua esistenza, così chiusa nel presente da rendere il figlio che visita la tomba del padre morto in guerra a vent'anni per sempre «più vecchio» del defunto. L'amore e la solidarietà possono medicare momentaneamente l'assurdo, ma non il suo mistero: nella tragicità dell'eterno presente vitale non c'è spazio per la progressione della storia.

(Da: Il Manifesto del 22 marzo 2013)



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