Per uno strano caso in questi giorni mi è
tornata sotto gli occhi una bellissima poesia di Pier Paolo Pasolini, La Resistenza e la sua luce: “Così
giunsi ai giorni della Resistenza / senza saperne nulla se non lo stile: / fu
stile tutta luce, memorabile coscienza / di sole”. Pasolini racconta della
Resistenza di suo fratello e dello sguardo della madre sulle montagne lontane.
Così come una sorta di memoria, ancorché non esperita – una “memoria del
possibile” – abbia unito migliaia di giovani, singole vite, questioni personali
frammentate dall’indifferenza del Ventennio, in una pratica che si è rivelata
identica, e che è diventata poi la “luce” con cui si sono liberati paesi,
piazze, città: “La luce è sempre uguale ad altra luce. / Poi variò: da luce
diventò incerta alba / che cresceva, si allargava”.
Se non sbaglio qualcosa di simile sta
avvenendo nei nostri giorni. E non sono soltanto io a pensarlo:
GIANFRANCO
FERRARO – LE LUCCIOLE DELLA RESISTENZA
Certo però è che, da sabato sera, come una cappa buia sembra calata sulla storia della “sinistra” italiana. Come se qualcosa di intollerabile, e di gravissimo, fosse accaduto. E non si tratta appunto di una elezione presidenziale o di un inciucio, o di un accordo sottobanco. Perché tutto questo è già stato ingoiato, e più volte in questi anni, dalla sinistra di questo paese.
No. Si tratta di qualcosa di più pesante, che le sprezzanti parole di Angela Finocchiaro di fronte alle contestazioni della sua “base” si incaricano emblematicamente di rappresentare. Si tratta di un atto di violenza, maturato nella totale indifferenza di un ceto politico tronfio e arroccato sulle premesse della propria esistenza esattamente come lo era l’aristocrazia francese di due secoli fa. Una violenza prodotta dalla cieca abitudine al potere di attori autoreferenziali e incapaci quindi di recitare qualcos’altro che non sia una trama già scritta.
E non possono esserci, di fronte a questa violenza, né scuse né atti riparatori. Ma solo atti uguali e contrari. E’ talmente grave e ridicolo insieme il tradimento del proprio mandato “sostanziale” da parte dei deputati e dei senatori democratici, che neanche un lavacro pubblico, come può essere un Congresso, può ricomporre il rapporto con gli elettori.
Ma se una ferita così grave è stata inferta all’agire pubblico in cui si è riconosciuto per lo meno fino a questo momento chi si è detto “di sinistra” in Italia, non basta semplicemente raccontare, di questa ferita, la sua genealogia. Certo, può servire a rassicurare e a rassicurarci – soprattutto quanti non hanno condiviso il percorso del Pds, Ds, Pd – raccontare la storia di questi venti anni, ripensare alla “gioiosa macchina da guerra”, e poi alla Bicamerale, alle tante inettitudini insomma e alle tanti colpevoli complicità che hanno fatto dire a un regista visionario come Moretti che con quei dirigenti non si sarebbe vinto mai.
Ma l’eco di quell’applauso risuonato in quell’aula di Montecitorio ormai davvero sorda a quanto accade fuori dalle sue mura non è nelle parole di Grillo del giorno dopo o nei vari “vergogna” che hanno popolato le piazze o i nostri status sui social network. Non è nelle parole, semplicemente.
L’eco di quell’applauso è nel silenzio con cui ognuno di noi si è dovuto misurare in queste ore, e questo vale sia per chi viene dalla sinistra estrema sia per chi si è sempre considerato, fin qui, un “moderato” o “riformista”. Perché solo la ridicola tragedia, o la tragica commedia, di un ceto dirigente che nulla ha visto, che nulla ha voluto vedere, e che in nulla sarà ricordato dalla storia delle generazioni future, poteva sospingere la “tradizione degli oppressi”, in cui pure ogni “sinistra” si è dovuta riconoscere, nel buio della propria impotenza. Nel silenzio rabbioso di queste ore seguite alla bocciatura del nome di Rodotà.
Ora, questo ceto dirigente i cui protagonisti, quasi una vera e propria tribù, come ha spiegato qualcuno recentemente, “si conoscono fin dall’infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene”, è giunto alla fine della sua parabola storica, trascinando con sé tutti i piccoli e medi antagonisti che gli si sono contrapposti, con le migliori e con le peggiori intenzioni, fino ad ora.
Domani, cioè oggi, l’ottantasettenne neo sovrano – “sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione” (Schmitt) – della Cecenia repubblicana, Giorgio Napolitano, giurerà su una Costituzione la cui storia affonda nella terra e nella fatica della Resistenza. Quanto possa dirci oggi quella Costituzione è cosa che dobbiamo discutere, ma quanto possano dirci le pratiche che l’hanno legittimata e fondata è cosa che ci riguarda subito.
Per uno strano caso in questi giorni mi è tornata sotto
gli occhi una bellissima poesia di Pier Paolo Pasolini, La Resistenza e la sua luce: “Così
giunsi ai giorni della Resistenza / senza saperne nulla se non lo stile: / fu
stile tutta luce, memorabile coscienza / di sole”. Pasolini racconta della
Resistenza di suo fratello e dello sguardo della madre sulle montagne lontane.
Così come una sorta di memoria, ancorché non esperita – una “memoria del
possibile” – abbia unito migliaia di giovani, singole vite, questioni personali
frammentate dall’indifferenza del Ventennio, in una pratica che si è rivelata
identica, e che è diventata poi la “luce” con cui si sono liberati paesi,
piazze, città: “La luce è sempre uguale ad altra luce. / Poi variò: da luce
diventò incerta alba / che cresceva, si allargava”.
La scomposizione che il paese ha vissuto in questi anni e la frammentazione
delle vite prodotta dall’economia contemporanea ha come fatto temere a tutti
che di quella luce solo poche lucciole si potessero avvistare di tanto in
tanto, nelle nostre città e nelle nostre reti ormai vocate all’artificio.Non è così. Perché se è vero che è calato il buio, dove più questo buio ci appare fitto, nel giuramento sulla Costituzione di un’ottantasettenne che gioca a fare, in un regno di diffusa impunità, il Padre della Patria, qui riappare anche, di nuovo, nei volti e nei silenzi di chi in questi giorni ha detto “no”, la luce della Resistenza. Quella Resistenza che si è fatta un giorno Stato ma che come “punto di irriducibile contestazione e rivolta” è sempre tornata, contro ogni sopraffazione e ogni dominio lungo la breve storia di questo Stato. Come una “memoria” di quanto è accaduto, e di quanto può ancora accadere, come un appello a ogni presente, accanto e fuori dallo Stato: nel cuore libero, fragilissimo e pieno di luce, della democrazia.
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