Tiziana
Migliore - Emilio Isgrò, l'arte di cancellare le parole dall'oblio
Per Emilio
Isgrò il mestiere di poeta visivo deve far aprire gli occhi sui fenomeni di
assuefazione. Un libro recente, Come difendersi dall'arte e dalla pioggia
(edizioni Maretti, pp. 268, euro 22), mostra il risvolto politico dell'ostinata
cancellatura per cui è noto. Redattore del Gazzettino in gioventù, intuisce la
forza della parola opaca, negativa. Nel libro che raccoglie articoli apparsi su
riviste e quotidiani, dal '71 al 2012, Isgrò tenta di cancellare verbalmente
ciò che oggi rende il mondo esausto: l'abitudine a una «Parart» piatta,
autoreferenziale e sola, «a comando per agiati parvenu». Non è disimpegnata. Si
impegna rispecchiando un'altra scala di valori, diversa, per esempio - precisa
Isgrò - dall'assiologia di chi ha scritto il patto sociale di un popolo in pericolo,
la nostra Costituzione. In un Lamento di Lorenzo De' Medici, introduttivo al
volume, Isgrò immagina che sia Il Magnifico a biasimare questa «pararte». È una
pioggia «da tutti i buchi, / da tutti i pori», che cade dentro e «ributta
indietro». Aste e successo mediatico di fronte ai quali il mecenate invoca armi
di difesa. L'interlocutore è il poeta Isgrò e, attraverso lui, il
lettore-spettatore, che il discorso diretto chiama alla critica.
Se pareba boves, alba pratàlia aràba et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba. Da cinquant'anni Isgrò svelle dal terreno le certezze su cui ci assestiamo, causa di torpore. I primi libri anneriti, anonimi, espongono un universo filantropico, partecipativo: /per dirgli/ que-sta parola/ (1964); /capito/ /che/ /stesse/ /accadendo/ /un/ /altro/ (1965).
Isgrò non ara «bianchi prati», come l'amanuense dell'indovinello veronese. Sparge invece un seme nero su un patrimonio culturale normalizzato: dall'Odissea all'Inno di Mameli, dai Vangeli all'Enciclopedia Treccani, dal Corano ai codici ottomani, fino alla Costituzione della Repubblica italiana. Un oltraggio, certo, ma all'usura, al disuso o al cattivo uso di questa summa. China e acrilico nero coprono e rinfacciano una scrittura che è già «sotto cancellatura», perché caduta nell'oblio. Isgrò la presentifica così, traccia di comportamenti deleteri e antidoto alla pioggia torrenziale, che devasta e annacqua. Ne La Costituzione cancellata (2010) si contano tre superstiti: i termini /una/ /indivisibile/ minora/ta/. Il volume, curato da Beatrice Benedetti, è diviso in sette sezioni e include un prologo e un epilogo, rispettivamente una conversazione con Arturo Schwarz (1998) e un'intervista con Alberto Fiz (2007). I titoli di alcuni capitoli - Volpi e leoni, Terremoti e tecnologie, Disdetta italiana - indicano il dissenso di Isgrò, che ricusa l'«artista vedette» e imputa a un «piano Marshall» certe strategie nazionali, come il preferire Rauschenberg a Fontana. Particolarmente mordace è la sezione Manifestini. Con il «brevetto rivoluzionario» della cancellatura Isgrò si ricollega ai movimenti d'avanguardia, operativi nel modificare il corso delle cose. Nel 2012, al Mart, cancella perciò il Manifesto del Futurismo.
La tecnica warholiana della riproduzione in serie serve all'artista siciliano per una distruzione «beatrice» (Mallarmé), di iniziazione al cambiamento. Ha questo senso il gigantesco seme d'arancia installato a Barcellona Pozzo di Gotto, sua città natale. Tufo impastato con sabbie vulcaniche, pomice in polvere e resine antisismiche. Schwarz, primo editore e collezionista di Isgrò, stana l'alchimia nascosta nel monolite. Dell'arancia cancellata rimane un seme che è principio di differenziazione, energia locale, offerta civica per la rinascita.
Se pareba boves, alba pratàlia aràba et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba. Da cinquant'anni Isgrò svelle dal terreno le certezze su cui ci assestiamo, causa di torpore. I primi libri anneriti, anonimi, espongono un universo filantropico, partecipativo: /per dirgli/ que-sta parola/ (1964); /capito/ /che/ /stesse/ /accadendo/ /un/ /altro/ (1965).
Isgrò non ara «bianchi prati», come l'amanuense dell'indovinello veronese. Sparge invece un seme nero su un patrimonio culturale normalizzato: dall'Odissea all'Inno di Mameli, dai Vangeli all'Enciclopedia Treccani, dal Corano ai codici ottomani, fino alla Costituzione della Repubblica italiana. Un oltraggio, certo, ma all'usura, al disuso o al cattivo uso di questa summa. China e acrilico nero coprono e rinfacciano una scrittura che è già «sotto cancellatura», perché caduta nell'oblio. Isgrò la presentifica così, traccia di comportamenti deleteri e antidoto alla pioggia torrenziale, che devasta e annacqua. Ne La Costituzione cancellata (2010) si contano tre superstiti: i termini /una/ /indivisibile/ minora/ta/. Il volume, curato da Beatrice Benedetti, è diviso in sette sezioni e include un prologo e un epilogo, rispettivamente una conversazione con Arturo Schwarz (1998) e un'intervista con Alberto Fiz (2007). I titoli di alcuni capitoli - Volpi e leoni, Terremoti e tecnologie, Disdetta italiana - indicano il dissenso di Isgrò, che ricusa l'«artista vedette» e imputa a un «piano Marshall» certe strategie nazionali, come il preferire Rauschenberg a Fontana. Particolarmente mordace è la sezione Manifestini. Con il «brevetto rivoluzionario» della cancellatura Isgrò si ricollega ai movimenti d'avanguardia, operativi nel modificare il corso delle cose. Nel 2012, al Mart, cancella perciò il Manifesto del Futurismo.
La tecnica warholiana della riproduzione in serie serve all'artista siciliano per una distruzione «beatrice» (Mallarmé), di iniziazione al cambiamento. Ha questo senso il gigantesco seme d'arancia installato a Barcellona Pozzo di Gotto, sua città natale. Tufo impastato con sabbie vulcaniche, pomice in polvere e resine antisismiche. Schwarz, primo editore e collezionista di Isgrò, stana l'alchimia nascosta nel monolite. Dell'arancia cancellata rimane un seme che è principio di differenziazione, energia locale, offerta civica per la rinascita.
Da il manifesto del 4 aprile 2013
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