10 aprile 2013

RILEGGIAMO ERICH AUERBACH




Dal sito http://www.leparoleelecose.it questa mattina prendiamo il capitolo iniziale del libro di Riccardo Castellana, La teoria letteraria di Erich Auerbach. Una introduzione a «Mimesis», Artemide 2013.

1. Mimesis prima e dopo il 1953

Nel 1949, a tre anni dalla pubblicazione di Mimesis, uno dei primi recensori presentò il libro come «il suggello al lavoro di un’intera generazione di filologi». Era vero. Non solo perché si trattava del risultato più maturo di un metodo che aveva profondamente rinnovato gli studi di filologia romanza in Germania e in Austria (il metodo stilistico, fondato un ventennio prima da Leo Spitzer), ma anche per il valore di testimonianza generazionale di quelle pagine, espressione delle inquietudini, delle speranze e dei valori della diaspora intellettuale ebraico-tedesca negli anni tragici del nazismo.
È del resto quasi impossibile separare i due aspetti, quello strettamente metodologico e quello più personale o generazionale, nella lettura di un libro come Mimesis. L’elemento autobiografico che affiora, in modo discreto ma netto, in molte pagine è rimasto un topos della sua ricezione fino ad oggi. E non si comprenderebbe fino in fondo il significato culturale del libro, il suo valore di posizione nel campo della critica del secondo dopoguerra, se si trascurasse di ricordare al lettore di oggi che chi lo ha scritto era un professore tedesco di origine ebraica, obbligato dalla promulgazione delle leggi razziali a lasciare da un giorno all’altro la cattedra di Filologia romanza all’università di Marburg e fortunosamente approdato nella lontana e allora quasi ignota Turchia dove trovò asilo. Proprio a Istanbul, dov’era arrivato nel 1936 come successore di Spitzer al seminario di filologia romanza, che nell’arco di quattro anni, tra il 1942 e il 1945, Auerbach scrisse Mimesis. E Istanbul significava allora, per chi come lui si era assunto l’impegno etico di “salvare” (facendola rivivere nella propria riflessione critica) una tradizione umanistica seriamente minacciata dalla barbarie nazista e dalla guerra, una forma di esilio ancora più lacerante, dato che quel compito appariva persino più arduo nella quasi totale assenza di biblioteche attrezzate per gli studi filologici, nell’impossibilità di consultare i periodici scientifici più recenti e di lavorare su edizioni critiche affidabili. È alla Conclusione che è affidato il compito di ricordare al lettore che cosa significasse scrivere un libro come Mimesis nella Turchia degli anni Quaranta, ma non tanto per prevenire possibili critiche negative (che pure vi furono, ad esempio da parte di Ernst Robert Curtius), quanto piuttosto per riconoscere il debito profondo verso lo stato d’eccezione rappresentato dall’esilio:
Del resto, è possibilissimo che il libro debba la sua esistenza proprio alla mancanza d’una grande biblioteca specializzata; se avessi potuto far ricerche, informarmi su tutto quello che è stato scritto intorno a tanti argomenti, forse non mi sarei più indotto a scriverlo. (II, 343)
È una dichiarazione che nella sua paradossalità ci ricorda almeno due cose. La prima è che anche un libro di storia letteraria è a sua volta un prodotto storico, situato nel tempo, e che «Mimesis è coscientemente un libro scritto da una determinata persona, in una determinata situazione, all’inizio degli anni Quaranta», come Auerbach stesso ricorderà qualche anno dopo, negli Epilegomena a «Mimesis» del 1953. E la seconda, che certe condizioni temporali particolarmente straordinarie ci costringono ad interrogarci su quali siano le cose davvero importanti nella riflessione critica – ed è chiaro dalle righe che abbiamo riportato che, per Auerbach, la scrupolosa, paziente e virtualmente infinita raccolta dei dati, per quanto auspicabile e in certa misura necessaria, non può essere tra queste; e può anzi diventare un ostacolo alla comprensione dell’essenziale soprattutto oggi, nell’epoca della disponibilità virtuale e telematica dello scibile.
Molto è cambiato tuttavia, dagli anni Quaranta, nel modo in cui le diverse generazioni dei lettori hanno accolto il libro. Se si volesse indicare una data, un anno preciso a partire dal quale una svolta irreversibile si è compiuta nella ricezione di Mimesis, questo anno dovrebbe essere molto probabilmente il 1953. A quel tempo Auerbach aveva già lasciato la Turchia per andare ad insegnare e a vivere negli Stati Uniti, e la Princeton University Press decise di tradurre Mimesis in inglese (la versione, tuttora in catalogo, era quella di Willard Trask, a detta di molti piuttosto soddisfacente, e in genere più fedele di altre). Da quel momento in poi il pubblico originario del libro cominciò rapidamente ad allargarsi e a farsi più variegato, identificandosi sempre meno nella ristretta élite dei romanisti tedeschi cui inizialmente era o sembrava essere destinato. Le sue tesi iniziarono a circolare prima nei campus americani e poi nel dibattito internazionale sulla critica e sulla storiografia letteraria, tra sociologi della letteratura, storicisti di varia estrazione e critici legati alla tradizione marxista. Basti ricordare, a questo proposito, che in Italia il critico che più di ogni altro si è richiamato ad Auerbach tra gli anni Cinquanta e Sessanta, talora deformandone consapevolmente le categorie più note, è stato Pier Paolo Pasolini, come vedremo più avanti. E che anche Franco Fortini, pur muovendo da una concezione del realismo non certo come «imitazione seria del quotidiano» (Auerbach), ma piuttosto come rappresentazione dei conflitti sociali sintetizzata criticamente dal concetto di “tipico” (sulla scorta di György Lukács), si interessò alla riflessione sulla figuralità, ritenendola un requisito fondamentale di tutta la grande arte («tutta l’arte che ancora ci parla è figurale») e non solo della Commedia di Dante.
Persino l’ondata decostruzionista che negli anni Ottanta si abbattè sugli Stati Uniti, dove Auerbach aveva insegnato negli ultimi anni della sua vita, tra Princeton e Yale, risparmiò Mimesis, che ottenne anzi parole di elogio da parte dei contestatori del New Criticism («è forse il solo libro di storia letteraria che abbiamo», scriveva ad esempio Geoffrey Hartman all’inizio del decennio). E con qualche eccezione – la più vistosa è quella della Francia, dove Mimesis dovette attendere vent’anni prima di bucare il silenzio dell’accademia (la traduzione di Gallimard arrivò infatti solo nel 1968), e ne impiegò molti meno per uscire da un dibattito egemonizzato dall’antistoricismo strutturalista – pochi altri libri di storia letteraria hanno avuto una vitalità e una longevità paragonabili.
Non stupisce perciò che nel 1994 George Steiner potesse definire Mimesis «il capolavoro della letteratura comparata moderna», essendo ormai chiaro a questa altezza temporale che il paradigma comparatistico proposto dal libro era del tutto diverso da quello di origine positivista della filologia romanza. Auerbach aveva inaugurato una pratica della comparatistica come confronto tra testi di generi (e non necessariamente di generi letterari), di epoche e di tradizioni culturali diversi, nella convinzione che proprio tale diversità potesse illuminarli reciprocamente. «Auerbach non compara il simile ma il dissimile», procedendo per grandi opposizioni. Ciò spiega, tra le molte altre cose, anche perché in Mimesis non abbia sostanzialmente alcuna rilevanza il problema che di solito ossessiona la critica filologica: quello delle influenze, delle fonti e delle origini.

2. Auerbach renaissance?

Alcuni convegni internazionali, organizzati a Stanford, Berlino, Parigi, Istanbul tra il 1996 e il 2007, in occasione del cinquantenario della pubblicazione di Mimesis o della morte del suo autore, avvenuta nel 1957, hanno permesso di fare il punto su quello che è ormai unanimemente considerato un classico della critica ma anche di verificare tenuta e attualità delle sue tesi. Non è un caso che il termine “eredità” ritorni insistentemente nei titoli di alcuni di questi incontri, a voler sottolineare appunto l’importanza di un lascito che continua a fruttare nel presente. Anche gli incontri dedicati a Mimesis tra il 2007 e il 2008 in Italia (a Pisa, Bressanone, Siena) hanno puntato non solo a ribadirne la statura di classico (Einaudi lo mantiene in catalogo, ininterrottamente, dal 1956, cosa inimmaginabile per qualsiasi altro libro di critica del Novecento), ma anche a riscoprirne la vitalità, suscitando nuovo interesse soprattutto tra le ultime generazioni di studiosi.
Senza dubbio questa riscoperta ha trovato un terreno favorevole nel progressivo indebolimento della Teoria di ispirazione strutturalista e post-strutturalista, il cui dominio nel campo critico-letterario da qualche tempo a questa parte non è più incontrastato, e agli osservatori più attenti appare anzi sulla via del tramonto. Non è un caso che i migliori studi di teoria, oggi, siano quelli capaci di fondare il proprio discorso sulla dimensione storica, e che nessuna riflessione seria sui generi letterari possa più fare a meno di grandi schemi diacronici di lunga o media durata. Né è un caso che il rinnovato interesse per il realismo (o per essere più fedeli al sottotitolo originario di Mimesis, alla «rappresentazione della realtà») abbia coinciso con il declino del postmoderno e con il ritorno della Storia come conflitto e come trauma.
Mentre la letteratura degli anni Zero (almeno in Italia) non ha saputo o potuto rappresentare i traumi del nostro tempo, la riflessione teorica e critica si è rivelata da questo punto di vista molto più sensibile e attenta, allineandosi o addirittura precorrendo certe tendenze della filosofia attuale. Sarebbe del resto ingenuo pensare che il “ritorno alla realtà” degli ultimi anni (per riprendere il titolo di una inchiesta promossa dalla rivista «Allegoria» nel 2011) abbia comportato o comporti di per sé una ripresa di poetiche “realistiche” nel romanzo e nella letteratura in generale. Usare Mimesis come manifesto di un “nuovo realismo narrativo” sarebbe improprio oltre che inutile. Si sa che la scrittura letteraria reagisce in modi (e con tempi) suoi propri ai mutamenti epocali, e che i traumi raccontati in molti romanzi degli ultimi anni, piuttosto che rispecchiare i traumi reali, sono per lo più traumi immaginari, forme di compensazione o sublimazione di quella paralisi dell’agire politico che ha colpito soprattutto la generazione formatasi negli anni Ottanta. Ed è anche per questo che occorre maneggiare con molta cautela la categoria di “realismo” quando si tenti di capire di cosa parla la letteratura a noi contemporanea.
3. Metodo critico ed etica intellettuale
Del resto il realismo in senso proprio, come poetica nata e sviluppatasi nel corso dell’Ottocento, è ben lungi dall’essere l’unico tema di Mimesis. Nonostante il sottotitolo assai impreciso dell’edizione italiana, come vedremo meglio più avanti, Mimesis non è affatto una storia del realismo occidentale, ma qualcosa di più e di diverso: è al tempo stesso uno studio sui differenti codici con cui la realtà è stata rappresentata o “imitata” nel corso dei secoli; una storia dei veti impliciti e delle censure simboliche che sono stati posti a questa “imitazione”; una riflessione etica e in senso lato politica sulla realtà di cui la letteratura parla, che per Auerbach è essenzialmente la realtà quotidiana, l’esperienza ordinaria e comune che chiunque, indipendentemente dal proprio nome e dal rango a cui appartiene, può fare del mondo che lo circonda.
Dopo un breve profilo biografico dell’autore, esporremo sinteticamente i contenuti dell’analisi storica di Mimesis rispettando l’ordine cronologico scelto da Auerbach e mettendone in evidenza le principali linee di forza. Nei capitoli successivi, invece, concentreremo la nostra attenzione su singoli concetti particolarmente notevoli, come “figura” o “mescolanza degli stili”, e cercheremo di ricostruire a grandi linee il metodo di Auerbach, mostrandone i rapporti con quelle riflessioni filosofiche e critiche che più hanno contribuito alla sua genesi.
Il metodo di Auerbach, come vedremo meglio più avanti, affonda le proprie radici nella tradizione della Geistesgeschichte (storia dello “spirito”) tedesca, ed eredita da Hegel e dallo storicismo di Dilthey, Meinecke e Troeltsch l’esigenza di comprendere in una visione sintetica e totalizzante la cultura umana nel suo complesso. All’epoca di Auerbach la vocazione alla sintesi e alla totalità della Geistesgeschichte sembrava difficilmente conciliabile con una analisi “oggettiva” del dato e con la conoscenza erudita che contraddistingueva la filologia. Nata nell’alveo del positivismo, quest’ultima si era incamminata nella direzione diametralmente opposta, quella della analisi del dettaglio e della particolarità. Negli anni tra le due guerre mondiali, nei quali Auerbach si stava formando come studioso, filosofia e filologia potevano apparire inconciliabili sul piano stesso del metodo e di quella che noi chiamiamo teoria. Per uscire da questa impasse, Auerbach elaborò, richiamandosi anche a Vico, da lui visto come il precursore dello storicismo moderno, una filologia, o più propriamente una stilistica, di tipo storico, in cui le ragioni dello studio del passato avebbero dovuto chiarirsi a partire dalle esigenze del presente. E la sua scelta non andò verso l’esito (pure possibile) della rivendicazione romantica dei diritti assoluti del soggetto interpretante. Egli maturò invece la consapevolezza che il filologo e lo storico sono espressione di una comunità che agisce nel presente, e che la loro attività riflette valori, gusti e credenze di un preciso gruppo sociale. Lo storicismo di Auerbach è da questo punto di vista, come vedremo meglio nel corso del libro, molto lontano dallo storicismo positivistico d’impronta ottocentesca che ha alimentato (e in parte continua ad alimentare) la prassi filologica in Italia e in Europa: è invece uno storicismo ermeneutico e autoconsapevole, che accoglie la ricostruzione erudita e l’analisi “oggettiva” dello stile solo come termini dialettici di una sintesi più ambiziosa, o, come è stato detto, di una vera e propria filosofia della storia.
L’impressione che si ha leggendo i commentatori più recenti è che Auerbach sia attuale non solo nella misura in cui ha mostrato in concreto che cosa significhi, e cosa abbia significato per chi ci ha preceduto, raccontare la realtà, ma anche per il suo metodo, per il modo in cui ha impostato la sua ricerca e per l’atteggiamento etico che dovrebbe caratterizzare un umanista del nostro tempo. Il filologo non dovrebbe cercare la propria legittimazione da ciò che studia o dal rigore scientifico con cui lo fa, bensì dal tipo di domande che è in grado di porre agli oggetti:
Io ho sempre avuto l’intenzione di scrivere storia: mi accosto dunque al testo non considerandolo isolatamente, non senza presupposti: gli rivolgo una domanda, e la cosa più importante è questa domanda, non il testo. (LLP, 26)
Il testo è dunque importante non in sé ma nella misura in cui suscita questioni e offre spunti o appigli per cercare di risolverle. Per questo è inconcepibile avvicinarsi ad esso senza pre-giudizi, senza un’ipotesi conoscitiva di qualunque tipo. È qui che Auerbach prende le distanze dalla stilistica spitzeriana e si autorappresenta come “storico” interessato ai problemi della cultura. E in questa autorappresentazione sta anche uno dei motivi della sua attualità. Per lui il passato è un’«archeologia del presente»: studiandolo, comprendiamo meglio noi stessi, perché se esiste (e Auerbach ritiene esista) un’unità del genere umano, un’identità sostanziale di fini e scopi nell’agire frammentato e caotico dei singoli individui o nel conflitto politico tra le singole nazioni, allora è proprio la storia che può insegnarci a trovarla, a farci riconoscere il simile nel diverso. Oltre che un esempio di metodo, Mimesis è dunque anche un modello etico. L’utopia umanistica che lo sorregge è la volontà di salvare quanto di vivo e di prezioso custodisce la tradizione letteraria europea. Di salvarlo non solo dalla barbarie del nazismo, ma anche dall’omologazione sociale, dal livellamento degli stili di vita e dei consumi culturali. Alla nascita di questi ultimi fenomeni, che a noi oggi interessano in modo particolare, Auerbach aveva potuto assistere con preoccupazione prima nella Germania di Hitler e poi nella nuova Turchia laicista e filo-occidentale di Kemal Atatürk, e su questi avrà modo di riflettere tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà del decennio successivo, dopo averne conosciuto gli sviluppi nella società americana.
Proprio negli Stati Uniti, nel 1952, scriverà infatti che «mentre la vita degli uomini su tutto il nostro pianeta si sta uniformando», mentre abitudini, consumi, stili di vita si stanno rapidamente standardizzando, mentre i confini del mondo si restringono ad opera di quella che oggi chiamiamo “globalizzazione”, l’utopia goethiana della Weltliteratur, cioè di una letteratura capace di assorbire le influenze più diverse e di aprirsi alle tradizioni culturali più lontane, si sta paradossalmente allontanando dal nostro orizzonte. Cosa resta dunque da fare all’umanista? Non rifiutare la modernizzazione, ma accettarne la sfida: cercare di cogliere nel “restringimento” del mondo l’occasione per comprendere l’unità del genere umano nella differenza delle culture, di sforzarsi di riconoscere lo «sfondo molteplice di un comune destino» (SFDV, 182). Nulla di strano, quindi, che per studiare la letteratura in una simile prospettiva il filologo si trovi ad essere un po’ come un esule, e che Auerbach concludesse Filologia della Weltliteratur con l’elogio di un teologo del XII secolo, Ugo da San Vittore, che affermava: «perfectus vero cui mundus totus exilium est» [davvero perfetto è colui che si sente in esilio in ogni parte del mondo]:
La nostra patria filologica è la terra; la nazione non lo può più essere. La cosa più preziosa ed indispensabile che il filologo riceva in eredità è certo ancora e sempre la lingua e la cultura della propria nazione; ma solo separandosene e superandole queste divengono efficaci. (SFDV, 191)

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