Clotilde Bertoni – Consolo
e la tragedia del quotidiano
Per Vincenzo Consolo il romanzo (o meglio
l’antiromanzo) storico si rivela presto, secondo le sue parole, «l’unica forma
narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente». Ma con il
presente, tra gli anni sessanta e i settanta, lo scrittore intrattiene anche un
contatto ravvicinato: grazie a una discontinua ma fitta attività giornalistica,
riservata in particolare all’“Ora” di Palermo, all’epoca, sotto la direzione di
Renato Nisticò, tra i nostri più coraggiosi quotidiani d’assalto. Una
collaborazione ora riportata in luce dal volume Esercizi di cronaca
(Sellerio, pp. 248, E 13,00), curato da Salvatore Grassia e introdotto da
Silvano Nigro: ampia selezione di articoli eterogenei, dalle note riservate
alla rubrica “Fuori casa”, a pezzi di cronaca sulla Sicilia terra d’origine
rivisitata spesso, e sulla Milano città d’adozione della vita; sfaccettato
caleidoscopio sulla società del tempo, percorso però da riconoscibili costanti.
La più vistosa consiste in uno slancio di denunzia che
da un bersaglio all’altro colpisce sempre un obiettivo di fondo, il
«capitalismo onnivoro e autoritario» dilagante in tutta la penisola, le sue
pieghe aberranti come i suoi volti giornalieri, le sue impennate drammatiche
come la sua consueta routine. Il sequestro a Salemi di Lorenzo Corleo, esattore
legato ai Salvo, nota famiglia di imprenditori mafiosi, diventa mezzo per
contrapporre l’«inferno di distruzione e condizione inumana» del Belice alla
sfacciata ricchezza della criminalità collusa con le istituzioni; vicende
milanesi diverse – un feroce delitto gratuito commesso da giovani fascisti di
buona famiglia, il gesto disperato di un camionista suicida insieme ai figli,
la storia tristemente paradossale di un operaio licenziato perché continua a
esprimersi in dialetto campano – disegnano altre contrapposizioni, tra la
carica di violenza che va montando nella grande borghesia fradicia di soldi e
pregiudizi e quella di ingiustizia che seguita a rovesciarsi sulle classi
disagiate, tra il lusso delle vie del centro e lo squallore dei quartieri
periferici abitati dagli emigranti (dove nei giorni festivi «si mastica la
desolazione e l’angoscia, si palpa la pena»); una serie di articoli più
insoliti, diario di una straniante scorribanda estiva tra gli uffici e gli
assessorati di Palermo, illustra la deriva della città – soffocata dalla
carenza d’acqua e dagli abusi dell’amministrazione – attraverso tragedie di
vita quotidiana, ordinarie come i reclami per la pensione di un’«umanità
scarnificata e derelitta», surreali come il caso dell’uomo che scopre di essere
secondo lo Stato Civile defunto a quindici giorni dalla nascita.
Tutti questi pezzi sono compattati anche dalla
chiarezza informativa, da un’adesione all’impegno giornalistico pienissima, ma
al tempo stesso mai incolore o prevedibile. Come giustamente sottolineano Nigro
e Grassia, negli articoli Consolo evita le rielaborazioni romanzesche della
cronaca rese di moda da Capote e dai suoi epigoni, e inoltre rinuncia allo sperimentalismo
compositivo e linguistico caratteristico della sua produzione di scrittore; ma
l’approccio letterario apparentemente accantonato riemerge di continuo, non
solo nei virtuosismi stilistici, nelle pause descrittive o nei rimandi
pittorici (l’indugio in Sosta a Sapri sul «cielo sospeso» della
primavera siciliana, «d’un colore, come solo Antonello ha saputo fissare nella Crocefissione»);
ma soprattutto nella vocazione a oltrepassare la superficie degli eventi, a
situarli in prospettive inedite, a penetrarne i sensi profondi come le
irriducibili dissonanze.
Una vocazione che segna specialmente la sezione più
corposa del libro, la serie di pezzi su un processo d’Assise che ebbe luogo a
Trapani nell’estate del 1975, relativo al caso di tre bambine trucidate a
Marsala nel 1971, seguito a un’istruttoria travagliata e a un primo processo
interrotto, e per giunta complicato dalle rivelazioni lacunose e
contraddittorie dell’imputato, Michele Vinci, tipico esempio di reo confesso
inattendibile (infine condannato, ma probabilmente capro espiatorio di un
complotto mafioso concepito come ritorsione contro il padre di una delle
vittime). Un processo nelle cui ombre Consolo si inoltra non solo mediante
rinvii già classici (come quello al Così è (se vi pare) pirandelliano,
dramma sulla frantumazione della verità in versioni incompatibili,
frequentemente evocato nelle cronache giudiziarie), ma soprattutto attraverso
un efficace dosaggio di pathos e umorismo, una serrata alternanza tra cupe
immagini dell’inestricabile confusione della storia (vista come «terribile
metafora» del pozzo buio in cui erano state ritrovate due delle bambine) e
squarci ironici sul funzionamento della macchina giudiziaria, sul curioso senso
«di indifferenza, di apatia, di assuefazione» prodotto dai suoi riti, dalle sue
punte grottesche (il colpo di sonno di un perito, l’atmosfera da gita
scolastica di un sopralluogo) e dai suoi tipici addentellati (l’eloquenza
fiorita e ampollosa di alcuni avvocati, la calca di spettatori e reporter che,
come già notava un altro scrittore giornalista, Buzzati, rende i dibattimenti
simili a prime teatrali) .
La refrattarietà delle cose a spiegazioni e soluzioni
rassicuranti è avvertita con lucidità implacabile ma non rassegnata: ulteriore
costante della raccolta, e forse ragione principale della sua presa, è la
perdurante sospensione tra una dichiarata amarezza e una tenace volontà di
resistenza. Il pessimismo è aspro, sferzante, esteso alla stessa letteratura,
ormai compressa e snaturata dagli ingranaggi dell’industria culturale (come
indica in particolare Conversazione a Milano, resoconto di una
passeggiata – tra librerie rigurgitanti di classici in «nuove e lussuose
confezioni» e di volumi «sui vini, sulle automobili, sui fiori» – in compagnia
di uno Sciascia turbato perché al successo delle sue opere non ha corrisposto
una vera sensibilizzazione sulla realtà siciliana); il che però non esclude
l’auspicio di una reazione, il richiamo a una tensione etica diversa da quella
astratta e intellettualistica biasimata nel Sorriso dell’ignoto marinaio,
immersa invece nella singolarità e nei disagi dei contesti specifici.
Una tensione a volte ricercata con fervore in voci del
passato, come quella del Carlo Pisacane definito «il più acceso e lucido
rivoluzionario del nostro Risorgimento», a volte individuata con acume in voci
ancora in germe, come quella del giovane pubblico ministero che nel processo
Vinci prova a smontare la tesi della colpevolezza unica dell’imputato con una
«critica chiara, precisa, serrata»: Giangiacomo Ciaccio Montalto, poi sempre
più in prima linea nella lotta al crimine, lasciato allo sbaraglio, ucciso
dalla mafia nel 1983. Uno tra i numerosi esponenti di quella che Consolo
definisce, in un articolo dedicato proprio all’“Ora”, l’«altra Sicilia», «della
cultura e della speranza»: magistrati, sindacalisti, giornalisti quasi mai
ricordati, forse perché la forza delle loro vite smentisce troppo i nauseanti e
pervicaci stereotipi sull’equazione tra Sicilia e mafia (tanto cari ai
battutisti da tre soldi, tanto comodi per la cattiva coscienza nazionale); o
perché la vergogna delle loro morti, spesso agevolate dalla mancanza di
qualsiasi protezione, mette in gioco responsabilità troppo pesanti dello Stato;
o anche perché restringere il più possibile il numero dei martiri,
enfatizzandone così l’eccezionalità, aiuta a eludere l’esigenza faticosa, e
prioritaria, di un nuovo impegno collettivo.
Clotilde Bertoni su Alias/Il Manifesto
Non vedo più in giro scrittori come Consolo, Sciascia e Pasolini.
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