Jean Starobinski è nato a Ginevra il 17 novembre 1920
Si è occupato in numerose opere della creazione poetica e dei problemi dell'
interpretazione: i suoi saggi sull' arte del XVII secolo sono considerati
classici Le sue esperienze di medico e psichiatra lo hanno spinto a studiare la
malinconia ed è stato il primo a pubblicare, nel 1964, le ricerche del
linguista Ferdinand de Saussure.
Nonostante i novant’anni superati Starobinski non ha
perduto lucidità e voglia di fare. Qualche mese fa ha dichiarato: « Adesso per me è importante
ricapitolare, raggruppare, mettere insieme i saggi sparsi, cercando di andare
più lontano, di perfezionare, di arricchire, di imprimere un nuovo ordine alle
cose già scritte». Ecco perché è tornato ad occuparsi del suo amato
Diderot, maestro di scrittura breve, elegante ed incisiva. Egli però, a
differenza dei tanti odierni frequentatori di twitter, ha saputo sempre distinguere i liberi pensatori dagli
uccelli in gabbia, gli autentici amici della ragione dalle numerose vittime del
cliché e del chiacchiericcio.
Riproponiamo di seguito una parte di un suo recente
saggio pubblicato domenica scorsa da Il Sole 24 ore:
J. STAROBINSKI – E DIDEROT INVENTO’ TWITTER
«Cinguettio», «grido»: basta pronunciarle, e le due parole valgono a dire il contrasto fra la durata di un canto disteso e la patetica brevità di un’esclamazione «animale». Contrasto che ritornerà, in forma più ampia e più libera, nella Satira seconda, nelle affermazioni del nipote di Rameau: questa volta, a proposito dei ranghi sociali. «È un cinguettio del diavolo, il mio. Un cinguettio balzano, per metà da gente di mondo e di lettere, per l’altra metà da gente di bancarella e di mercato»: secondo l’ammissione stessa dell’eroe, il suo è un parlare bipartito come bipartita era stata, in un’altra epoca, la tenuta vestimentaria del folle.
Il termine «cinguettio» è anche quello che Diderot sceglie per designare lo stile degli scrittori, e ciò che lo stile rivela delle loro disposizioni innate. Come esempi, fa i nomi di Buffon, di d’Alembert e di Rousseau. Li confronta: «Ecco tre stili ben diversi». Caratterizza rapidamente Buffon («largo, maestoso»), d’Alembert («semplice, chiaro, senza figura, senza movimento, senza estro, senza colore»), Rousseau, che Diderot ammira come grande «colorista» («tocca, agita, sommuove»). E Diderot aggiunge, con paragone insolito: «Non è dato a questi autori di cambiare tono più di quanto sia dato agli uccelli della foresta di cambiare cinguettio».
Senonché il «cinguettio» è soggetto a un’ambiguità di fondo, così etica come estetica. Ci si trova infatti lungo un crinale dove le voci e i dialoghi sono attribuibili sia a un’espressione libera, sia – al contrario – a un gioco regolato, a una lezione ripetuta come in uno spettacolo da fiera. Non per caso, nel 700, i difensori della natura e del naturale partono lancia in resta per combattere, simbolicamente, contro gli uccellatori e contro gli uccelli addestrati (a meno che gli opposti non vengano conciliati, facendo dell’uccellatore un «uomo della natura»: Papageno nel Flauto magico…).
L’uccello addestrato e il suo cinguettio diventano allora termini metaforici per additare certi bersagli polemici, e metterli in ridicolo. Da un lato, i devoti e le devote che pappagallescamente accettano le formule ripetitive della liturgia cristiana. Dall’altro lato, gli adepti della civiltà mondana, cioè di uno stile di vita del quale Diderot stesso, va pur detto, partecipava pienamente. Quante lezioni uno spirito come quello di Diderot era destinato a trarre dalla coincidenza fra la perdita della libertà, la reclusione in una voliera, e le raffinatezze della lingua!-
*Leggi il testo integrale dell’articolo sul sito del Sole 24 ore
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