Un invito a
leggere un grande scrittore, ancora troppo poco conosciuto in Italia.
Riccardo
Iori - Roberto Bolaño. Il trionfo non fa per me
Nella cucina letteraria di Roberto Bolaño viveva un
guerriero. «Un guerriero che alcune voci (voci senza corpo, né ombra) chiamano scrittore»,
spiegava lui stesso in un articolo del 2001. Una mostra allestita dal Centro di
cultura contemporanea di Barcellona ("Archivio Bolaño 1977-2003",
fino al 30 giugno) svela ora una parte di quella grande cucina in cui sono
stati sfornati capolavori della letteratura contemporanea come I detective
selvaggi (1997) e 2666, monumentale opera postuma. Gli ingredienti:
storie, ossessioni, vita quotidiana, ritagli di giornale, fotografie. E gli
strumenti: taccuini e quaderni invasi da una calligrafia cristallina e
torrenziale, la macchina da scrivere con i tasti consumati, il rudimentale
computer, senza dimenticare i suoi inseparabili occhiali da vista.
Bolaño, cileno di nascita, visse la sua adolescenza in
Messico, dove abbandonò la scuola a quindici anni per dedicarsi alla sua
vocazione di scrittore. Dopo aver girovagato il Sudamerica - tornò anche nel
suo Cile alla vigilia del golpe del 1973 e passò otto giorni nelle carceri di
Pinochet- si stabilì in Spagna che aveva ventiquattro anni: Barcellona, Girona,
Blanes, dove diventerà padre. E il decennale della sua morte, che lo sorprese a
cinquant'anni mentre aspettava un trapianto di fegato che non arrivò in tempo,
è il momento scelto dalla vedova, Carolina López, per aprire una parte del suo
archivio (quattro romanzi, ventisette racconti e centinaia di poesie, la sua
prima passione, sono ancora inediti) e far emergere così le sue due uniche
grandi ossessioni: leggere e scrivere, fino allo sfinimento.
La sua cucina era sempre aperta. «Era capace di
svegliare la gente all'una di notte per commentare un verso di una poesia.
Nella mostra si può leggere una descrizione minuziosa di una pala d'altare
medievale per poi scoprire che è una riproduzione su una scatola di cerini che
aveva davanti alle quattro di mattina mentre lavorava come guardiano notturno
nel campeggio di Castelldefels», racconta Juan Insua, organizzatore della mostra
insieme a Valerie Miles.
I suoi incessanti esercizi di stile non disdegnavano
nessun ingrediente; notizie bislacche e di dubbia veridicità provenienti dalla
Cina cui i giornali dedicavano un insignificante trafiletto - un uomo di 142
anni che pedala in bicicletta, un bambino i cui occhi portentosi possono vedere
attraverso i muri e un mostro marino che appare in un lago come se di una
Nessie orientale si trattasse - si trasformano in una storia coerente che
prende vita prima in un'agenda, poi in un quaderno e finalmente in una copia
dattiloscritta con la quale parteciperà a un concorso letterario, uno dei modi
in cui Bolaño tentava di tenersi a galla economicamente. «Era al corrente di
tutti i concorsi. Una volta disse che i premi erano bufali e lui un pellerossa
che doveva andarne a caccia, perché da quello dipendeva la vita. La prima volta
che lo fece cacciammo insieme e la nostra freccia fu Los Consejos », ricorda
con orgoglio Antonio García Porta,col quale Bolaño scrisse appunto il suo primo
romanzo, nel 1984, Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di
Joyce. Le ricette elaborate potevano essere tenute in caldo aspettando il
momento propizio; una frase di un taccuino del 1980 chiude nove anni più tardi
il secondo capitolo di un romanzo, La pista di ghiaccio. I dispiaceri del
vero poliziotto, su cui lavorerà dal 1990 al 2003 (e che uscirà postumo), è
in gran parte smembrato e fagocitato da 2666.
Ma non erano liquidi solo i confini tra un'opera e
l'altra, bensì anche quelli tra realtà e fiction. Mentre La letteratura nazista
in America è una dettagliata enciclopedia di scrittori immaginari, le vicissitudini
sue e dei suoi colleghi diventavano oggetto di narrazione, come nel
meraviglioso racconto Sensini, in cui i protagonisti sono un giovane
partecipante di concorsi letterari e un grande vecchio della narrativa. Vittima
del suo stesso gioco metaletterario, Bolaño entrò a far parte, come
personaggio, de I soldati di Salamina (2001), romanzo chiave della
Spagna contemporanea, il cui autore, Javier Cercas, fu un suo caro amico nelle
ultime tappe della vita.
Il suo riconoscimento come artista è tardivo, e però
indubitabile. Mentre in Cina apre una libreria che si chiama "2666",
negli Stati Uniti l'effetto dei suoi libri «è più simile a uno tsunami che a
una marea ascendente, tutto il mondo che legge letteratura parla di Bolaño»,
scrive Barbara Epler, direttrice di New Directions, la prima casa editrice a
pubblicarlo negli States. «Una parte della mia libreria è riservata ai classici
dei quali periodicamente rileggo qualche pagina. In quello scaffale ci sono
Salinger, Borges, Joyce, Proust e senza che me ne accorgessi Bolaño vi si è
intrufolato», confessa Porta. E Insua rincara la dose: «Allo stesso modo in cui
Bolaño disse che chiunque scriva in spagnolo deve passare per le fessure e le
porte lasciate aperte da Borges, oggi qualsiasi scrittore che voglia dire
qualcosa di nuovo in castigliano deve passare per l'opera di Bolaño». Un
passaggio obbligato a partire da I detective selvaggi, il ricordo dei suoi
movimentati anni messicani (Arturo Belano, uno dei protagonisti, è il suo alter
ego) e un canto d'amore alla poesia omaggiata in forma di prosa. Spiega Porta:
«Quando lo leggi, sai che è figlio di una generazione nuova, capace di scrivere
con lo zaino in spalla, seduto per terra, totalmente diversa da quella del
Boom». Il Boom a cui fa riferimento è il movimento di cui si è appena celebrato
il cinquantenario.
Nel 1962 furono pubblicati libri come La città e i
cani, opera prima di Mario Vargas Llosa, La Mala Ora e I funerali
della Mamá Grande di Garcìa Márquez, La Morte di Artemio Cruz di
Carlos Fuentes e Storie di cronopios e di famas di Julio Cortázar, che
solo un anno dopo avrebbe dato alle stampe Il gioco del mondo. Un
terremoto che collocò l'America Latina al centro della letteratura mondiale e
lasciò un'eredità difficile da gestire. «Gli scrittori della generazione
successiva al Boom si trasformarono in epigoni, continuatori senza talento,
oppure cercarono, con scarso successo, di uccidere il padre, dicendo che i
Vargas Llosa e i Márquez non erano poi così eccelsi. Bolaño fu l'unico capace
di fare quello che, citando Pasolini, si deve fare con i maestri: mangiarli in
salsa piccante. Squartarli, tirarne fuori le budella, cucinarli e poi divorarli
per creare qualcosa di nuovo», chiosa Cercas.
Una metafora che ci riconduce a quella cucina in cui
Bolaño non smetteva mai di combinare, amalgamare, creare. Il guerriero che vive
in quella stanza «sa che alla fine, qualsiasi cosa faccia, uscirà sconfitto»,
scriveva. Del resto lo aveva spiegato a chiare lettere quanto poco gli
importasse di uscire vincitore dalla battaglia con i demoni della letteratura:
«Non credo nel trionfo. Tra i trionfatori uno può incontrare gli esseri più
miserabili della terra, e fin lì io non ci sono arrivato. E non credo di avere
lo stomaco per arrivarci».
(Da: La
Repubblica del 31 marzo 2013)
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