Renato Guttuso, Colapesce
Salvatore Settis in questo articolo, tratto da Il Giornale dell'Arte
numero 324, ottobre 2012 , spiega le ragioni per cui gli italiani sono diventati nemici dell'arte:
Malgrado si sia
data le leggi migliori del mondo, oggi l’Italia maltratta l’arte: è stranamente
diventata un Paese ignorante e regredito dove prevalgono l’incultura e
l’indifferenza verso la devastazione del paesaggio e dell’ambiente. È dunque
necessario che sia il mondo a difendere il patrimonio artistico e naturale
dell’Italia?
In Europa e
nel mondo si moltiplica oggi il dibattito sul ruolo che deve giocare il
patrimonio culturale nella società del futuro. La questione del patrimonio è
particolarmente presente nell’agenda culturale e politica in Italia in ragione
della cieca politica di drastici tagli al budget per la cultura, della
privatizzazione del patrimonio culturale e dell’alleggerimento degli enti
pubblici di tutela che caratterizza l’attuale Governo. Io credo comunque che
l’osservatorio italiano su questo tema abbia una grande importanza, anche fuori
dall’Italia, in ragione della convergenza di tre caratteristiche storiche:
l’altissima densità del patrimonio in situ in Italia, il suo intimo legame con
il paesaggio e infine perché è in Italia (per la precisione negli Stati
precedenti all’unificazione politica del Paese) che le più antiche regole di
salvaguardia del patrimonio hanno visto la luce.
Intendiamoci sulla definizione più aggiornata di patrimonio
Le domande più frequenti sul patrimonio concernono la sua definizione, la sua importanza, l’utilizzo (o gli utilizzi) che ne vogliamo fare, la sua proprietà e i suoi costi di conservazione. La definizione di «patrimonio culturale» si è gradualmente ampliata e ha reso ancora più complessa la sua conservazione; e ciò, oltre alla sua importanza nella società contemporanea dominata dalla retorica della globalizzazione e dall’ossessione del presente, è continuamente messo in discussione in nome dei «valori» del mercato. La funzione del patrimonio culturale oscilla in continuo tra quella di deposito passivo della memoria storica e dell’identità culturale e quella, opposta, di potente stimolo per la creatività del presente e la costruzione del futuro. In relazione a questi temi, si solleva spesso un interrogativo sulla proprietà del patrimonio culturale, sballottata di continuo tra la sfera pubblica e la sfera privata; in questo interrogativo i linguaggi del diritto, dell’etica e della storia si mescolano inestricabilmente. Infine, la questione dei costi per la conservazione e la salvaguardia del patrimonio culturale è spesso trattata oggi separandola da quella della sua funzione. Si dà inoltre per scontato che il patrimonio culturale è un fardello che pesa sul budget dello Stato e non che possa divenire una riserva di energia per i cittadini e per le Nazioni.
Gli uomini politici e gli economisti affrontano spesso queste questioni riferendosi esclusivamente alla prospettiva presente, ai problemi della spesa pubblica e della libera concorrenza di mercato. Non è tuttavia meno legittimo rivendicare il ruolo della storia. La storia può dimostrare come il patrimonio culturale non sia un inutile fardello che ci trasciniamo da secoli in mancanza di nozioni economiche e politiche, ma come al contrario partecipi alla cosciente elaborazione di una strategia sociale destinata a formare e rafforzare l’identità culturale, i legami di solidarietà, il senso di appartenenza che sono condizioni necessarie di ogni società strutturata e, come riconoscono gli economisti con sempre maggiore chiarezza, sono anche un fattore non trascurabile di produttività. Se vogliamo comprendere i problemi del presente e del futuro col metro della storia secolare della conservazione, è quindi indispensabile comprendere storicamente le ragioni ultime della nozione di patrimonio e della sua funzione nelle società.
Le risibili e false stime del nostro patrimonio
Accenneremo ora all’Italia di oggi per tornare in seguito a quella di ieri. Vorrei cominciare con qualche citazione: 1. «Secondo le stime dell’Unesco, l’Italia possiede tra il 60 e il 70% del patrimonio culturale mondiale» (rapporto Eurispes 2006). 2. «Il 72% del patrimonio culturale europeo si trova in Italia e almeno il 50% del patrimonio mondiale è situato nel nostro Paese» (Silvio Berlusconi, conferenza stampa a Londra, 10 settembre 2008). 3. Secondo un ministro siciliano, «È situato in Italia il 60% del patrimonio culturale mondiale, il 60% del quale in Magna Grecia e il 60% di quest’ultimo in Sicilia»; ma secondo un consigliere regionale toscano, «L’Italia possiede da sola il 60% del patrimonio culturale dell’umanità, il 50% del quale si concentra in Toscana»; secondo un collaboratore del sindaco di Roma, «l’Urbe detiene dal 30 al 40% del patrimonio culturale del mondo». Sommando tutte queste cifre risulta che l’Italia da sola supererebbe di gran lunga il 100% del patrimonio culturale del pianeta. Evidentemente questi «dati dell’Unesco» non esistono e le cifre periodicamente improvvisate sono forse un sintomo dell’orgoglio nazionale, ma sicuramente di irresponsabile superficialità.
L’Italia è tuttavia un Paese molto importante in materia di patrimonio culturale. Il suo ruolo centrale non risiede però nella quantità ma piuttosto nella qualità del suo patrimonio e soprattutto in tre fattori diversi che sono l’armonia secolare tra le città e il paesaggio, la forte presenza nel territorio del patrimonio e dei valori ambientali e l’uso continuo in situ di chiese, palazzi, statue e quadri. In Italia, i musei non contengono che una piccola porzione del patrimonio artistico che è sparpagliato nelle città e nelle campagne. In questo insieme che è il frutto di un accumulo plurisecolare di ricchezza e civiltà, il totale è superiore alla somma degli addendi. Esiste tuttavia un quarto fattore non meno importante, è il «modello Italia» della cultura e della conservazione del patrimonio.
I primi al mondo a darci delle leggi
Molto prima dell’unificazione del Paese, gli Stati italiani sono stati i primi al mondo a dotarsi di regole e istituzioni pubbliche in questo campo. L’Italia è stata la prima a integrare la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale nei principi fondamentali della sua Costituzione. La consistenza e la qualità del patrimonio da un lato, la cultura italiana della salvaguardia dall’altro sono le due facce della stessa medaglia. Le regole in merito alla conservazione non avrebbero visto la luce del giorno senza un senso civico risvegliato dalla densità del patrimonio culturale e la presenza di quest’ultimo non sarebbe mai stata così durevole se non fosse stata garantita da regole nel corso dei secoli. Che debbano esistere delle regolamentazioni pubbliche dei principi di tutela non è affatto dimostrato e, in effetti, la maggior parte dei Paesi non ne hanno avute per molto tempo. Nel XX secolo e in particolare all’inizio della seconda guerra mondiale, le leggi di tutela del patrimonio si sono moltiplicate in diversi Paesi (ad esempio in America Latina, in Africa e in Asia) seguendo modelli importati dall’Europa, ma i modelli europei si sono sviluppati a loro volta prendendo esempio dall’Italia.
Il concetto di patrimonio culturale si è formato a partire dall’idea di patrimonio nazionale elaborato in Francia tra la Rivoluzione e la Restaurazione allo scopo di utilizzare il patrimonio per definire la Nazione come un’unità culturale e giuridica. L’enorme bottino di opere d’arte messo insieme dall’esercito francese e trasportato a Parigi ha quindi dato luogo ad appassionati dibattiti. Questa razzia trovava la sua giustificazione nell’idea (ispirata da Winckelmann) che le arti non si sviluppino se non in un regime di libertà. È questa la ragione per cui la Francia postrivoluzionaria, in quanto patria della libertà, era di diritto la patria dell’arte.
Secondo il ministro degli Interni François de Neufchâteau (1794), «i grandi artisti del passato non lavoravano per i re o i papi» ma per i cittadini, perché questi creatori «prevedevano i destini dei popoli». «…mani famosi, divini genii (…) Sì: era per la Francia che partorivate i vostri capolavori. Alla fine quindi essi hanno trovato la loro destinazione», Parigi. In Italia questa gigantesca razzia venne vissuta come una violenza, ma la reazione più severa e coerente è venuta dalla stessa Francia. Nelle sue Lettres au général Miranda sur le préjudice qu’occasionneraient aux Art set à la Science le déplacement des monuments de l’art de l’Italie, le démembrement de ses écoles et le spoliation de ses écoles, galeries, musées (1796), Quatremère de Quincy sostenne che strappare le opere d’arte dal contesto per il quale erano state create era un crimine contro la memoria storica: un Raffaello uscito dal suo contesto non esprime niente, non è una reliquia (come un frammento della Santa Croce) che può comunicare «le virtù legate all’insieme». Le stesse posizioni furono molto presto difese in una petizione indirizzata al Direttorio e firmata da 50 artisti, tra i quali David. Quatremère focalizzava la sua attenzione su Roma e ricordava, a questo fine, le antiche regole di tutela dei papi in vigore dal XV secolo. È così che a partire dalla Francia si è diffuso in tutta Europa un grande dibattito culturale e politico, di cui l’Italia era il centro generatore.
In tutti gli Stati italiani preunitari esistevano regole di conservazione del patrimonio molto simili tra di loro e con influenze reciproche. Percorreremo brevemente una storia che si svolge tra Firenze, Roma e Napoli tra il 1725 e il 1755. Intorno al 1725, a Firenze, appariva ormai evidente che la dinastia dei Medici volgeva al termine e che le potenze europee avrebbero attribuito il Granducato di Toscana a una nuova dinastia. Per paura che il nuovo Granduca esportasse i tesori artistici dei Medici, nel 1728 venne fondata un’istituzione per la pubblicazione delle collezioni del Granducato che diede alle stampe i 12 volumi del Museum Florentinum a partire dal 1731. Neri Corsini, divenuto in seguito cardinale, faceva parte del novero dei promotori dell’iniziativa e, quando la Toscana venne attribuita a Francesco Stefano di Lorena, fu l’ispiratore del «patto di famiglia» tra il nuovo granduca e l’ultima dei Medici, Anna Maria Luisa (1737), in virtù del quale le collezioni dei Medici sarebbero dovute restare per sempre a Firenze come in effetti poi avvenne.
Spostiamoci ora a Roma. Nel 1728, il cardinale Alessandro Albani, nipote del papa Clemente XI, vendette al re di Polonia Augusto II trenta delle più belle statue della sua collezione (oggi a Dresda). I regolamenti pontifici vietavano l’esportazione di antichità, ma il cardinale camerlengo che avrebbe dovuto farli rispettare era allora Annibale Albani, fratello di Alessandro che non impedì questa vendita. Eppure, nel 1733, quando Alessandro Albani cercò di vendere la sua seconda collezione in Inghilterra, questa venne bloccata e le sculture furono acquistate dal nuovo papa Clemente XII, che in questa occasione fondò il Museo Capitolino, primo museo pubblico d’Europa (1734). Il nuovo papa era un Corsini di Firenze e l’ispiratore di questa iniziativa era suo nipote il cardinale Neri Corsini, lo stesso che si era battuto per il mantenimento dei tesori artistici dei Medici a Firenze.
Passiamo ora a un’altra capitale italiana: Napoli. Il re Carlo di Borbone, allora diciottenne, inaugurò una nuova era del regno ridivenuto indipendente dopo secoli di dominazione spagnola. Iniziò gli scavi a Ercolano (a partire dal 1738) e a Pompei (a partire dal 1748) che portarono in luce una massa enorme di nuove antichità. È in questo contesto che apparve la legislazione napoletana sulla tutela del patrimonio (1755), il cui punto di partenza era il «profondo disappunto» del re per le esportazioni di antichità e che riprendeva la legge pontificia del 1733. Da lì nacquero i volumi delle Antichità di Ercolano esposte e il Real Museo Borbonico. L’idea della conservazione degli oggetti d’arte nel contesto del loro luogo d’origine, idea delle più «italiane», si affermò così anche a Napoli. In effetti, quando Carlo III divenne re di Spagna (1759), egli non promulgò nessuna misura di protezione. Il «profondo disappunto» espresso per la mancanza di salvaguardia delle opere d’arte a Napoli scomparve quindi a Madrid? No. In un caso come nell’altro, il sovrano non elaborava personalmente le leggi, ma esprimeva la cultura civica e giuridica del posto.
L’emulazione tra Stati presuppone una profonda sintonia culturale che appartiene a un fondo comune di valori civici e morali. In effetti, la storia delle regole di tutela del patrimonio negli antichi Stati italiani comincia ben prima dell’Unità e prosegue fino a oggi.
Domandiamoci allora perché esista una tale continuità. A Roma, leggi molto organiche vengono emanate da Pio VII nel 1802 e nel 1819 (poco dopo la razzie di opere d’arte perpetuata dall’esercito francese e poco dopo il ritorno in patria delle opere saccheggiate). Il Commissario pontificio per le antichità Carlo Fea si rifece alle regole dei papi del passato, a cominciare da Martino V (1425), Pio II (1462) e Leone X (1515) e stabilì una continuità con i principi del diritto romano imperiale, in particolare rintracciando nella Roma antica le origini del concetto di publica utilitas così spesso evocato nella legislazione dei pontefici.
Le regole degli altri Stati italiani erano molto simili, da Venezia a Lucca, da Parma a Modena e a Milano. Dovunque si prendeva l’iniziativa di redigere il catalogo delle opere d’arte (innanzi tutto a Venezia nel 1773) e di creare istituzioni di sorveglianza come il Generale Ispettore delle Arti di Venezia (1773) o la Regia Custodia delle Antichità di Sicilia (1778). Ma perché gli antichi Stati italiani agivano in questo modo emulandosi gli uni con gli altri, quando nulla li obbligava a farlo?
Perché gli Stati italiani davano tanta importanza alle proprie opere d’arte
L’origine di questa cultura civica e giuridica si deve, credo, alle città italiane che, a partire dal XII secolo, elaborarono un potente concetto di cittadinanza secondo il quale i monumenti di ogni città costituivano un principio di identità civica e di identificazione emotiva che corrispondeva all’idea stessa del far parte di una comunità ben governata.
Mi limiterò a citare due documenti. 1) La delibera della municipalità di Roma (1162) sulla Colonna Traiana, in virtù della quale, «per salvaguardare l’onore pubblico della Città di Roma, la Colonna non dovrà mai essere danneggiata o demolita ma restare così com’è, per tutta l’eternità, intatta e inalterata fino alla fine del mondo. Se qualcuno attenterà alla sua integrità, sarà condannato a morte e i suoi beni saranno confiscati dal fisco». 2) Gli Statuti della municipalità di Siena (1309) in virtù dei quali colui «che governa la città deve in primo luogo assicurare la sua bellezza e il suo ornamento, essenziali alla felicità e alla gioia dei forestieri, ma anche all’onore e alla prosperità dei senesi». In centinaia di documenti come questo leggiamo gli stessi principi: bellezza, abbellimento (decorum), dignità, onore pubblico, bene comune o publica utilitas.
L’unanimità con la quale gli Stati preunitari si sono dotati di regole di tutela è stata (così come l’uso della lingua italiana dalle Alpi alla Sicilia) un autentico linguaggio comune nutrito di uno stesso senso della «bellezza» e dell’«ornamento» delle città e di un’identica tensione nel trasmettere i valori da una generazione all’altra, anche per il tramite di appositi magistrati come gli Ufficiali dell’Ornato (ente per l’abbellimento), attivi a Siena dal 1403. Queste regole trovavano il loro fondamento giuridico nella nozione di publica utilitas che, come ho già spiegato, risaliva al diritto romano. Per esempio, la Costituzione apostolica Quae publice utilia ac decora di Gregorio XIII (1574) affermava espressamente l’assoluta priorità del bene pubblico sugli interessi privati nell’edificazione. È su questo principio che si è esplicitamente fondato l’editto del 1733 che legava le collezioni di antichità a Roma, come le leggi che l’hanno seguito, a Roma come a Napoli e altrove.
I piemontesi difendevano la proprietà privata
Il principio «d’utilità pubblica» del patrimonio culturale è un elemento forte di continuità nella storia nazionale d’Italia. Tuttavia, dopo la costituzione del Regno d’Italia (1859-60 con la successiva annessione di Roma nel 1870), ci è voluto molto tempo per arrivare a una legge unitaria di tutela. Lo Stato promotore dell’unità italiana era il Regno di Sardegna che comprendeva il Piemonte, la Liguria e la Savoia, dove la tradizione di tutela del patrimonio era molto debole e lo Statuto concesso dal re Carlo Alberto nel 1848 affermava l’inviolabilità della proprietà privata, cioè esattamente il contrario che negli Stati Pontifici e nel Regno di Napoli. Da qui sono nati conflitti protrattisi per decenni nel Parlamento nazionale mentre la capitale si spostava da Torino a Firenze e poi a Roma. Si è dovuto attendere il 1902 per arrivare a una prima legge, seppure molto debole, che è stata rimpiazzata nel 1909 da una migliore. L’argomento che faceva abortire le numerose proposte di legge era sempre lo stesso. Era il primato del bene pubblico sugli interessi privati che suscitava strenue resistenze da parte dei grandi proprietari terrieri fortemente rappresentati in Senato (allora nominato dal re). Negli anni 1907-1908 ci fu un’importante mobilitazione pubblica che alla fine portò alla legge del 1909, intesa in continuità diretta alle regole di certi Stati preunitari, in particolare di Roma e Napoli.
La legge del 1909 sancì il primato dell’interesse pubblico sulla proprietà privata per tutti «i beni mobili e immobili dotati di interesse storico, archeologico, paleontologico e artistico» vietando la loro alienazione quando fossero di proprietà pubblica e incaricando della loro sorveglianza e conservazione il Ministero della Pubblica Istruzione. I beni rilevanti di proprietà privata non erano oggetto di una tutela completa a meno che presentassero un «interesse importante»: in questo caso si procedeva a una misura di notifica e la loro esportazione era vietata. In caso di vendita, lo Stato disponeva di un diritto di prelazione. Le scoperte archeologiche vennero dichiarate proprietà dello Stato e la loro esportazione vietata. La versione originale della legge conteneva anche altri principi approvati dalla Camera ma non dal Senato, fra cui l’azione popolare che si riferiva all’actio popularis del diritto romano. Questa doveva dare a ogni cittadino la facoltà di «far valere i diritti di competenza dello Stato», cioè di reclamare il rispetto delle regole di tutela per difendere il bene pubblico. Era insomma una sorta di class action destinata (secondo la relazione alla Camera) ad «avere un’opinione pubblica forte, ben costituita, ben diretta e ausiliaria dello Stato nella conservazione del patrimonio artistico». Ma questo principio non venne adottato né allora né successivamente.
La proprietà fondiaria contro la tutela del paesaggio
Nel testo approvato dalla Camera, la legge contemplava anche la tutela del paesaggio, che fu annullata dal Senato in cui sedevano numerosi rappresentanti dell’aristocrazia e della grande proprietà fondiaria. All’epoca si parlava ormai spesso di tutela del paesaggio in Italia, anche sotto l’influenza di altre esperienze, tra le quali ebbe grande riscontro in Italia la legge francese Beauquier (1906) e il movimento per la protezione della natura sviluppatosi negli Stati Uniti tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Sotto la presidenza di Theodore Roosevelt (1901-1909) si era svolta la più vasta campagna della storia nell’ambito della tutela dell’ambiente naturale e si era concretizzata attraverso la creazione di 6 parchi nazionali, 18 monumenti nazionali, 51 riserve ornitologiche federali e 150 foreste nazionali. Roosevelt si era esplicitamente ispirato a un principio già formulato da Gifford Pinchot (primo capo del servizio forestale degli Stati Uniti): «conservare significa creare il massimo vantaggio possibile per il maggior numero possibile (di cittadini) il più a lungo possibile». Egli commentò anche: «il criterio del maggior numero possibile deve applicarsi a tutto il corso dei tempi e, in questo ambito, noi che viviamo oggi non rappresentiamo che una frazione insignificante. Noi abbiamo il dovere di rispettare l’insieme degli uomini, soprattutto le generazioni non ancora nate. Dobbiamo dunque impedire che una minoranza senza principi distrugga un patrimonio che appartiene alle generazioni a venire. Il movimento per la conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali è per la sua stessa essenza democratico nello spirito, nelle finalità e nel metodo». Tra i pionieri della difesa dell’ambiente è annoverato George Perkins Marsh, primo ambasciatore americano in Italia per vent’anni (1861-82), che vi ha scritto il suo libro L’Uomo e la natura o la geografia fisica modificata dall’azione umana (1864), immediatamente tradotto in Italiano.
La protezione della natura come obbligo morale nei confronti delle generazioni future e il forte legame tra la salvaguardia della natura e l’identità nazionale non solo sono state caratteristiche della difesa dell’ambiente in America ma anche di analoghi movimenti in Europa (per esempio in Francia, in Germania e nel Regno Unito). John Ruskin si è mostrato particolarmente eloquente nel contesto inglese. Secondo lui, il paesaggio deve essere protetto in quanto fonte di esperienze etiche ed estetiche forti, non soltanto sul piano individuale ma per la collettività dei cittadini. Il paesaggio riflette e determina l’ordine morale e per questo è un luogo chiave per la responsabilità sociale. Di fronte ad esso, le istanze sociali e politiche sono obbligate a misurarsi con i valori della natura, della bellezza e della memoria e non possono rinunciarvi senza tradire se stesse. Le teorie di Ruskin sono state diffuse in Francia da Robert de la Sizeranne in un libro (Ruskin et la religion de la beauté, 1897) che ha avuto grande successo in Italia. Da questo è tratta la frase che, spesso attribuita a Ruskin, diventerà lo slogan della protezione della natura in Italia: «Il paesaggio è il volto amato della patria».
Tuttavia, il paesaggio italiano non è solo natura. Esso è stato modellato nel corso dei secoli da una forte presenza umana. È un paesaggio intriso di storia e rappresentato dagli scrittori e dai pittori italiani e stranieri e, a sua volta, si è modellato con il tempo sulle poesie, i quadri e gli affreschi. In Italia, una sensibilità diversa e complementare si è quindi immediatamente aggiunta all’ispirazione naturalista. Essa ha assimilato il paesaggio alle opere d’arte sfruttando le categorie concettuali e descrittive della «veduta» che si può applicare tanto a un quadro o a un angolo di paesaggio come lo si può osservare da una finestra (in direzione della campagna) o da una collina (in direzione della città). Secondo il Viaggio in Italia di Goethe, le architetture inserite nel paesaggio italiano sono «una seconda natura destinata alla pubblica utilità» o «che opera a fini civili».
La legge del 1920 voluta da Benedetto Croce
La tutela del paesaggio in Italia si è innestata sullo stesso tessuto etico, giuridico, civile e politico che aveva dato luce alle regole di tutela del patrimonio. Con la crescita dell’industrializzazione (più lenta che nel nord Europa), i pericoli per il paesaggio italiano sono cresciuti e il movimento di protezione della natura si è sviluppato. Ha dato vita ad associazioni e movimenti di opinione e, nel 1905, a una regolamentazione ad hoc per la salvaguardia della pineta di Ravenna. Tuttavia, la prima legge organica è stata elaborata nel 1920 da Benedetto Croce, allora ministro della Pubblica Istruzione. Nella sua relazione al Senato, Croce si appella ai precedenti americani ed europei e allude a ciò che è e resta il «doppio cuore» del problema, cioè da un lato la relazione tra natura e cultura (in Italia tra città e campagne), e dall’altro l’equilibrio tra interesse pubblico e proprietà privata. Un «grandissimo interesse morale e artistico legittima l’intervento dello Stato», scrive Croce, perché il paesaggio «non è nient’altro che la rappresentazione materiale e visibile della patria».
Le misure di tutela rappresentano, è vero, una limitazione dei diritti della proprietà privata, ma si tratta, dice Croce, di una servitù di pubblica utilità, assolutamente necessaria. Sarebbe ugualmente inammissibile «sfigurare un monumento o fare oltraggio a un bel paesaggio, entrambi destinati al godimento di tutti». Si riallaccia qui al tema della publica utilitas e richiama il diritto romano. Nel corso dei dibattiti alla Camera, furono evocate le servitù di veduta (servitus prospectus) previste nel diritto romano, per esempio per Costantinopoli.
Le due leggi «fasciste» di Bottai del 1939
La legge Croce venne approvata pochi mesi prima dell’avvento del fascismo, nel 1922. Per diciassette anni, il regime di Mussolini non modificò nulle delle regole di tutela ma, nel 1939, il ministro Giuseppe Bottai intraprese una riforma organica ed elaborò due leggi parallele per la tutela del patrimonio e la tutela del paesaggio. Queste leggi, seppure emanate sotto un governo fascista, non avevano niente di particolarmente «fascista». Esse presentavano al contrario una redazione più precisa e completa della regolamentazione dell’Italia liberale, la legge Rava del 1909 e la legge Croce del 1920-22. In materia di paesaggio, Bottai impose il principio della «servitù di godimento pubblico» esplicitamente ripresa da Croce. In materia di patrimonio, la legge si ispirava al primato dell’interesse pubblico sulla proprietà privata. Durante la fase di elaborazione delle leggi, Bottai si avvalse della migliore intellighenzia italiana, in particolare di Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e del grande giurista Santi Romano.
Le due leggi del 1939, che è impossibile descrivere nel dettaglio in questa sede, sono state elaborate come dittico e hanno stabilito che la tutela del paesaggio e la tutela del patrimonio storico, archeologico e artistico erano le due facce della stessa medaglia, conclusione in corrispondenza perfetta con la tradizione civile e giuridica secolare degli italiani. Possiamo anche risalire alle origini molto antiche di questo strettissimo legame nei sistemi giuridici italiani, e ritornare indietro almeno fino all’ordinanza del Patrimonio reale di Sicilia del 21 agosto 1745 che impose congiuntamente la conservazione delle antichità di Taormina e del bosco di Carpineto sul monte di Mascali come del «castagno dei cento cavalli» (oggi nel parco dell’Etna). L’autore di questa misura era il vicere di Sicilia Bartolomeo Corsini, nipote di Clemente XII, il papa cui dobbiamo importantissime regole di tutela (1733) e la creazione del Museo Capitolino, come abbiamo visto. Il viceré Corsini era anche fratello del cardinale Neri Corsini, l’ispiratore del Museum Florentinum e del «patto di famiglia» Medici-Lorena (1737) che ha assicurato il mantenimento perpetuo delle collezioni dei Medici a Firenze.
Le due leggi Bottai, approvate in dittico nel giugno del 1939 a qualche settimana di distanza l’una dall’altra, erano così poco fasciste che dopo la guerra e la catastrofica caduta del fascismo, la Repubblica nata dalla Resistenza ne ha iscritto il nucleo originario tra i principi fondamentali dello Stato nella Costituzione della Repubblica.
L’articolo 9 della Costituzione (entrata in vigore il 1° gennaio 1948) enuncia: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». L’Assemblea Costituente giunse a questa formulazione dopo lunghi dibattiti e undici differenti formulazioni. I rappresentanti di tutti i partiti contribuirono al testo finale, in particolare il comunista Concetto Marchesi e il democristiano Aldo Moro. Nella Costituzione italiana, fa parte dei «principi fondamentali dello Stato» e si lega a una sapiente struttura di valori, in particolare «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3), i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), i limiti imposti alla proprietà individuale «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (art. 42). E inoltre, la Corte Costituzionale ha ugualmente riconosciuto come valore costituzionale la tutela dell’ambiente (non espressamente menzionata nel testo) facendola derivare dalla convergenza della tutela del paesaggio (art. 9) e il diritto alla salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art.32).
Insomma, l’articolo 9 della Costituzione italiana è la sintesi di un processo secolare che ha due caratteristiche principali: la priorità dell’interesse pubblico sulla proprietà privata e lo stretto legame tra tutela del patrimonio culturale e la tutela del paesaggio. Si è trattato in effetti di una «costituzionalizzazione» delle leggi di tutela del 1939 come attestato dai dibattiti dell’Assemblea Costituente. Dire che «La Repubblica protegge il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione» non è una dichiarazione d’intenti, ma piuttosto la descrizione di un sistema normativo e istituzionale già in atto. Da un alto le regole (le due leggi Bottai del 1939) e dall’altro le istituzioni (il sistema delle Soprintendenze territoriali divise per competenze e incaricate concretamente di una missione di sorveglianza e tutela). La perfetta continuità tra le leggi dell’Italia liberale, le due leggi approvate dal governo fascista e infine l’articolo 9 della Costituzione della Repubblica non sorprenderà se non quelli che ragionano per etichette e appartenenze senza entrare nella complessità della storia delle idee. Ancora più sorprendente sarà per essi l’evidente continuità tra le regole di tutela degli Stati italiani dell’ancien régime (come Roma o Napoli) e la cultura del patrimonio e della conservazione diffusa in Europa dopo la rivoluzione francese. Non si trattava quindi di «restaurazione» delle regole più antiche, ma di una nuova riflessione sui linguaggi e le regole dell’ancien régime alla luce di idee direttrici nuove come quelle di nazione, di sovranità popolare e di cittadinanza, che gli avvenimenti della rivoluzione francese avevano cambiato per sempre fornendo contenuti inediti alla nozione di «bene comune» e incarnandolo anche nei monumenti.
Una breve citazione dei Principi della filosofia e del diritto di Hegel (1821) lo dimostra bene: «I monumenti pubblici sono proprietà nazionale, cioè più esattamente, come nel caso delle opere d’arte in generale quando esse sono utilizzate, i monumenti pubblici hanno valore di fini viventi e autonomi fin tanto che sono abitati dall’anima della memoria e dell’onore. Quando quest’anima li ha lasciati, al contrario, essi diventano in questo senso, per la nazione, delle proprietà private, anonime e accidentali, come le opere d’arte greche ed egiziane in Turchia». In questo testo molto denso, si riconosce la nobile concezione del patrimonio nazionale che abbiamo visto nascere con Quatremère. I due poli convergenti di «memoria» e «onore» con la loro forte carica etica ritornano alla collettività dei cittadini ma presuppongono la forma dello Stato e richiedono una piena armonia tra etica e politica. Se «l’anima della memoria e dell’onore» scompare dall’orizzonte della vita e della storia, si produce una perdita radicale di significato. Questo evento, secondo Hegel, si era prodotto in Turchia, cioè nell’Impero Ottomano, per le antichità greche e egiziane.
Dagli statuti dei Comuni italiani del Medioevo alle leggi degli Stati preunitari e dell’Italia unificata fino alla Costituzione della Repubblica si disegna il percorso della cultura della tutela del patrimonio in Italia, un percorso unico per la sua lunga durata oltre che per la sua coerenza. Che i principi della tutela debbano essere iscritti nella Costituzione di un Paese moderno non è affatto evidente, e ancora oggi assai raro. L’articolo 9 della Costituzione italiana non ha avuto che due precedenti: la Costituzione della Repubblica di Weimar (1919) e quella della Repubblica Spagnola (1931), che fu peraltro di brevissima durata. In nessuno di questi due casi, comunque, la tutela del patrimonio faceva parte dei principi fondamentali dello Stato. A tutt’oggi, pochi Stati hanno dato a questo principio un rango costituzionale. In Europa, è uno dei principi fondamentali della Costituzione maltese e portoghese e ricopre forme diverse in altri Paesi, dalla Polonia alla Grecia ma anche nel continente americano, per esempio in Costa Rica e in Brasile.
Ho finora raccontato una storia «in crescendo», dalle regole sparse di qualche città nel Medioevo alla Costituzione di uno Stato moderno; e potrei benissimo proseguire ancora aggiungendo delle leggi e delle regole più recenti, in particolare la creazione del ministero dei Beni Culturali (1975) e, più recentemente, il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (2004, modificato nel 2006 e 2008) alla cui redazione ho partecipato e che ha modificato le leggi del 1939 conservandone tuttavia la
Intendiamoci sulla definizione più aggiornata di patrimonio
Le domande più frequenti sul patrimonio concernono la sua definizione, la sua importanza, l’utilizzo (o gli utilizzi) che ne vogliamo fare, la sua proprietà e i suoi costi di conservazione. La definizione di «patrimonio culturale» si è gradualmente ampliata e ha reso ancora più complessa la sua conservazione; e ciò, oltre alla sua importanza nella società contemporanea dominata dalla retorica della globalizzazione e dall’ossessione del presente, è continuamente messo in discussione in nome dei «valori» del mercato. La funzione del patrimonio culturale oscilla in continuo tra quella di deposito passivo della memoria storica e dell’identità culturale e quella, opposta, di potente stimolo per la creatività del presente e la costruzione del futuro. In relazione a questi temi, si solleva spesso un interrogativo sulla proprietà del patrimonio culturale, sballottata di continuo tra la sfera pubblica e la sfera privata; in questo interrogativo i linguaggi del diritto, dell’etica e della storia si mescolano inestricabilmente. Infine, la questione dei costi per la conservazione e la salvaguardia del patrimonio culturale è spesso trattata oggi separandola da quella della sua funzione. Si dà inoltre per scontato che il patrimonio culturale è un fardello che pesa sul budget dello Stato e non che possa divenire una riserva di energia per i cittadini e per le Nazioni.
Gli uomini politici e gli economisti affrontano spesso queste questioni riferendosi esclusivamente alla prospettiva presente, ai problemi della spesa pubblica e della libera concorrenza di mercato. Non è tuttavia meno legittimo rivendicare il ruolo della storia. La storia può dimostrare come il patrimonio culturale non sia un inutile fardello che ci trasciniamo da secoli in mancanza di nozioni economiche e politiche, ma come al contrario partecipi alla cosciente elaborazione di una strategia sociale destinata a formare e rafforzare l’identità culturale, i legami di solidarietà, il senso di appartenenza che sono condizioni necessarie di ogni società strutturata e, come riconoscono gli economisti con sempre maggiore chiarezza, sono anche un fattore non trascurabile di produttività. Se vogliamo comprendere i problemi del presente e del futuro col metro della storia secolare della conservazione, è quindi indispensabile comprendere storicamente le ragioni ultime della nozione di patrimonio e della sua funzione nelle società.
Le risibili e false stime del nostro patrimonio
Accenneremo ora all’Italia di oggi per tornare in seguito a quella di ieri. Vorrei cominciare con qualche citazione: 1. «Secondo le stime dell’Unesco, l’Italia possiede tra il 60 e il 70% del patrimonio culturale mondiale» (rapporto Eurispes 2006). 2. «Il 72% del patrimonio culturale europeo si trova in Italia e almeno il 50% del patrimonio mondiale è situato nel nostro Paese» (Silvio Berlusconi, conferenza stampa a Londra, 10 settembre 2008). 3. Secondo un ministro siciliano, «È situato in Italia il 60% del patrimonio culturale mondiale, il 60% del quale in Magna Grecia e il 60% di quest’ultimo in Sicilia»; ma secondo un consigliere regionale toscano, «L’Italia possiede da sola il 60% del patrimonio culturale dell’umanità, il 50% del quale si concentra in Toscana»; secondo un collaboratore del sindaco di Roma, «l’Urbe detiene dal 30 al 40% del patrimonio culturale del mondo». Sommando tutte queste cifre risulta che l’Italia da sola supererebbe di gran lunga il 100% del patrimonio culturale del pianeta. Evidentemente questi «dati dell’Unesco» non esistono e le cifre periodicamente improvvisate sono forse un sintomo dell’orgoglio nazionale, ma sicuramente di irresponsabile superficialità.
L’Italia è tuttavia un Paese molto importante in materia di patrimonio culturale. Il suo ruolo centrale non risiede però nella quantità ma piuttosto nella qualità del suo patrimonio e soprattutto in tre fattori diversi che sono l’armonia secolare tra le città e il paesaggio, la forte presenza nel territorio del patrimonio e dei valori ambientali e l’uso continuo in situ di chiese, palazzi, statue e quadri. In Italia, i musei non contengono che una piccola porzione del patrimonio artistico che è sparpagliato nelle città e nelle campagne. In questo insieme che è il frutto di un accumulo plurisecolare di ricchezza e civiltà, il totale è superiore alla somma degli addendi. Esiste tuttavia un quarto fattore non meno importante, è il «modello Italia» della cultura e della conservazione del patrimonio.
I primi al mondo a darci delle leggi
Molto prima dell’unificazione del Paese, gli Stati italiani sono stati i primi al mondo a dotarsi di regole e istituzioni pubbliche in questo campo. L’Italia è stata la prima a integrare la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale nei principi fondamentali della sua Costituzione. La consistenza e la qualità del patrimonio da un lato, la cultura italiana della salvaguardia dall’altro sono le due facce della stessa medaglia. Le regole in merito alla conservazione non avrebbero visto la luce del giorno senza un senso civico risvegliato dalla densità del patrimonio culturale e la presenza di quest’ultimo non sarebbe mai stata così durevole se non fosse stata garantita da regole nel corso dei secoli. Che debbano esistere delle regolamentazioni pubbliche dei principi di tutela non è affatto dimostrato e, in effetti, la maggior parte dei Paesi non ne hanno avute per molto tempo. Nel XX secolo e in particolare all’inizio della seconda guerra mondiale, le leggi di tutela del patrimonio si sono moltiplicate in diversi Paesi (ad esempio in America Latina, in Africa e in Asia) seguendo modelli importati dall’Europa, ma i modelli europei si sono sviluppati a loro volta prendendo esempio dall’Italia.
Il concetto di patrimonio culturale si è formato a partire dall’idea di patrimonio nazionale elaborato in Francia tra la Rivoluzione e la Restaurazione allo scopo di utilizzare il patrimonio per definire la Nazione come un’unità culturale e giuridica. L’enorme bottino di opere d’arte messo insieme dall’esercito francese e trasportato a Parigi ha quindi dato luogo ad appassionati dibattiti. Questa razzia trovava la sua giustificazione nell’idea (ispirata da Winckelmann) che le arti non si sviluppino se non in un regime di libertà. È questa la ragione per cui la Francia postrivoluzionaria, in quanto patria della libertà, era di diritto la patria dell’arte.
Secondo il ministro degli Interni François de Neufchâteau (1794), «i grandi artisti del passato non lavoravano per i re o i papi» ma per i cittadini, perché questi creatori «prevedevano i destini dei popoli». «…mani famosi, divini genii (…) Sì: era per la Francia che partorivate i vostri capolavori. Alla fine quindi essi hanno trovato la loro destinazione», Parigi. In Italia questa gigantesca razzia venne vissuta come una violenza, ma la reazione più severa e coerente è venuta dalla stessa Francia. Nelle sue Lettres au général Miranda sur le préjudice qu’occasionneraient aux Art set à la Science le déplacement des monuments de l’art de l’Italie, le démembrement de ses écoles et le spoliation de ses écoles, galeries, musées (1796), Quatremère de Quincy sostenne che strappare le opere d’arte dal contesto per il quale erano state create era un crimine contro la memoria storica: un Raffaello uscito dal suo contesto non esprime niente, non è una reliquia (come un frammento della Santa Croce) che può comunicare «le virtù legate all’insieme». Le stesse posizioni furono molto presto difese in una petizione indirizzata al Direttorio e firmata da 50 artisti, tra i quali David. Quatremère focalizzava la sua attenzione su Roma e ricordava, a questo fine, le antiche regole di tutela dei papi in vigore dal XV secolo. È così che a partire dalla Francia si è diffuso in tutta Europa un grande dibattito culturale e politico, di cui l’Italia era il centro generatore.
In tutti gli Stati italiani preunitari esistevano regole di conservazione del patrimonio molto simili tra di loro e con influenze reciproche. Percorreremo brevemente una storia che si svolge tra Firenze, Roma e Napoli tra il 1725 e il 1755. Intorno al 1725, a Firenze, appariva ormai evidente che la dinastia dei Medici volgeva al termine e che le potenze europee avrebbero attribuito il Granducato di Toscana a una nuova dinastia. Per paura che il nuovo Granduca esportasse i tesori artistici dei Medici, nel 1728 venne fondata un’istituzione per la pubblicazione delle collezioni del Granducato che diede alle stampe i 12 volumi del Museum Florentinum a partire dal 1731. Neri Corsini, divenuto in seguito cardinale, faceva parte del novero dei promotori dell’iniziativa e, quando la Toscana venne attribuita a Francesco Stefano di Lorena, fu l’ispiratore del «patto di famiglia» tra il nuovo granduca e l’ultima dei Medici, Anna Maria Luisa (1737), in virtù del quale le collezioni dei Medici sarebbero dovute restare per sempre a Firenze come in effetti poi avvenne.
Spostiamoci ora a Roma. Nel 1728, il cardinale Alessandro Albani, nipote del papa Clemente XI, vendette al re di Polonia Augusto II trenta delle più belle statue della sua collezione (oggi a Dresda). I regolamenti pontifici vietavano l’esportazione di antichità, ma il cardinale camerlengo che avrebbe dovuto farli rispettare era allora Annibale Albani, fratello di Alessandro che non impedì questa vendita. Eppure, nel 1733, quando Alessandro Albani cercò di vendere la sua seconda collezione in Inghilterra, questa venne bloccata e le sculture furono acquistate dal nuovo papa Clemente XII, che in questa occasione fondò il Museo Capitolino, primo museo pubblico d’Europa (1734). Il nuovo papa era un Corsini di Firenze e l’ispiratore di questa iniziativa era suo nipote il cardinale Neri Corsini, lo stesso che si era battuto per il mantenimento dei tesori artistici dei Medici a Firenze.
Passiamo ora a un’altra capitale italiana: Napoli. Il re Carlo di Borbone, allora diciottenne, inaugurò una nuova era del regno ridivenuto indipendente dopo secoli di dominazione spagnola. Iniziò gli scavi a Ercolano (a partire dal 1738) e a Pompei (a partire dal 1748) che portarono in luce una massa enorme di nuove antichità. È in questo contesto che apparve la legislazione napoletana sulla tutela del patrimonio (1755), il cui punto di partenza era il «profondo disappunto» del re per le esportazioni di antichità e che riprendeva la legge pontificia del 1733. Da lì nacquero i volumi delle Antichità di Ercolano esposte e il Real Museo Borbonico. L’idea della conservazione degli oggetti d’arte nel contesto del loro luogo d’origine, idea delle più «italiane», si affermò così anche a Napoli. In effetti, quando Carlo III divenne re di Spagna (1759), egli non promulgò nessuna misura di protezione. Il «profondo disappunto» espresso per la mancanza di salvaguardia delle opere d’arte a Napoli scomparve quindi a Madrid? No. In un caso come nell’altro, il sovrano non elaborava personalmente le leggi, ma esprimeva la cultura civica e giuridica del posto.
L’emulazione tra Stati presuppone una profonda sintonia culturale che appartiene a un fondo comune di valori civici e morali. In effetti, la storia delle regole di tutela del patrimonio negli antichi Stati italiani comincia ben prima dell’Unità e prosegue fino a oggi.
Domandiamoci allora perché esista una tale continuità. A Roma, leggi molto organiche vengono emanate da Pio VII nel 1802 e nel 1819 (poco dopo la razzie di opere d’arte perpetuata dall’esercito francese e poco dopo il ritorno in patria delle opere saccheggiate). Il Commissario pontificio per le antichità Carlo Fea si rifece alle regole dei papi del passato, a cominciare da Martino V (1425), Pio II (1462) e Leone X (1515) e stabilì una continuità con i principi del diritto romano imperiale, in particolare rintracciando nella Roma antica le origini del concetto di publica utilitas così spesso evocato nella legislazione dei pontefici.
Le regole degli altri Stati italiani erano molto simili, da Venezia a Lucca, da Parma a Modena e a Milano. Dovunque si prendeva l’iniziativa di redigere il catalogo delle opere d’arte (innanzi tutto a Venezia nel 1773) e di creare istituzioni di sorveglianza come il Generale Ispettore delle Arti di Venezia (1773) o la Regia Custodia delle Antichità di Sicilia (1778). Ma perché gli antichi Stati italiani agivano in questo modo emulandosi gli uni con gli altri, quando nulla li obbligava a farlo?
Perché gli Stati italiani davano tanta importanza alle proprie opere d’arte
L’origine di questa cultura civica e giuridica si deve, credo, alle città italiane che, a partire dal XII secolo, elaborarono un potente concetto di cittadinanza secondo il quale i monumenti di ogni città costituivano un principio di identità civica e di identificazione emotiva che corrispondeva all’idea stessa del far parte di una comunità ben governata.
Mi limiterò a citare due documenti. 1) La delibera della municipalità di Roma (1162) sulla Colonna Traiana, in virtù della quale, «per salvaguardare l’onore pubblico della Città di Roma, la Colonna non dovrà mai essere danneggiata o demolita ma restare così com’è, per tutta l’eternità, intatta e inalterata fino alla fine del mondo. Se qualcuno attenterà alla sua integrità, sarà condannato a morte e i suoi beni saranno confiscati dal fisco». 2) Gli Statuti della municipalità di Siena (1309) in virtù dei quali colui «che governa la città deve in primo luogo assicurare la sua bellezza e il suo ornamento, essenziali alla felicità e alla gioia dei forestieri, ma anche all’onore e alla prosperità dei senesi». In centinaia di documenti come questo leggiamo gli stessi principi: bellezza, abbellimento (decorum), dignità, onore pubblico, bene comune o publica utilitas.
L’unanimità con la quale gli Stati preunitari si sono dotati di regole di tutela è stata (così come l’uso della lingua italiana dalle Alpi alla Sicilia) un autentico linguaggio comune nutrito di uno stesso senso della «bellezza» e dell’«ornamento» delle città e di un’identica tensione nel trasmettere i valori da una generazione all’altra, anche per il tramite di appositi magistrati come gli Ufficiali dell’Ornato (ente per l’abbellimento), attivi a Siena dal 1403. Queste regole trovavano il loro fondamento giuridico nella nozione di publica utilitas che, come ho già spiegato, risaliva al diritto romano. Per esempio, la Costituzione apostolica Quae publice utilia ac decora di Gregorio XIII (1574) affermava espressamente l’assoluta priorità del bene pubblico sugli interessi privati nell’edificazione. È su questo principio che si è esplicitamente fondato l’editto del 1733 che legava le collezioni di antichità a Roma, come le leggi che l’hanno seguito, a Roma come a Napoli e altrove.
I piemontesi difendevano la proprietà privata
Il principio «d’utilità pubblica» del patrimonio culturale è un elemento forte di continuità nella storia nazionale d’Italia. Tuttavia, dopo la costituzione del Regno d’Italia (1859-60 con la successiva annessione di Roma nel 1870), ci è voluto molto tempo per arrivare a una legge unitaria di tutela. Lo Stato promotore dell’unità italiana era il Regno di Sardegna che comprendeva il Piemonte, la Liguria e la Savoia, dove la tradizione di tutela del patrimonio era molto debole e lo Statuto concesso dal re Carlo Alberto nel 1848 affermava l’inviolabilità della proprietà privata, cioè esattamente il contrario che negli Stati Pontifici e nel Regno di Napoli. Da qui sono nati conflitti protrattisi per decenni nel Parlamento nazionale mentre la capitale si spostava da Torino a Firenze e poi a Roma. Si è dovuto attendere il 1902 per arrivare a una prima legge, seppure molto debole, che è stata rimpiazzata nel 1909 da una migliore. L’argomento che faceva abortire le numerose proposte di legge era sempre lo stesso. Era il primato del bene pubblico sugli interessi privati che suscitava strenue resistenze da parte dei grandi proprietari terrieri fortemente rappresentati in Senato (allora nominato dal re). Negli anni 1907-1908 ci fu un’importante mobilitazione pubblica che alla fine portò alla legge del 1909, intesa in continuità diretta alle regole di certi Stati preunitari, in particolare di Roma e Napoli.
La legge del 1909 sancì il primato dell’interesse pubblico sulla proprietà privata per tutti «i beni mobili e immobili dotati di interesse storico, archeologico, paleontologico e artistico» vietando la loro alienazione quando fossero di proprietà pubblica e incaricando della loro sorveglianza e conservazione il Ministero della Pubblica Istruzione. I beni rilevanti di proprietà privata non erano oggetto di una tutela completa a meno che presentassero un «interesse importante»: in questo caso si procedeva a una misura di notifica e la loro esportazione era vietata. In caso di vendita, lo Stato disponeva di un diritto di prelazione. Le scoperte archeologiche vennero dichiarate proprietà dello Stato e la loro esportazione vietata. La versione originale della legge conteneva anche altri principi approvati dalla Camera ma non dal Senato, fra cui l’azione popolare che si riferiva all’actio popularis del diritto romano. Questa doveva dare a ogni cittadino la facoltà di «far valere i diritti di competenza dello Stato», cioè di reclamare il rispetto delle regole di tutela per difendere il bene pubblico. Era insomma una sorta di class action destinata (secondo la relazione alla Camera) ad «avere un’opinione pubblica forte, ben costituita, ben diretta e ausiliaria dello Stato nella conservazione del patrimonio artistico». Ma questo principio non venne adottato né allora né successivamente.
La proprietà fondiaria contro la tutela del paesaggio
Nel testo approvato dalla Camera, la legge contemplava anche la tutela del paesaggio, che fu annullata dal Senato in cui sedevano numerosi rappresentanti dell’aristocrazia e della grande proprietà fondiaria. All’epoca si parlava ormai spesso di tutela del paesaggio in Italia, anche sotto l’influenza di altre esperienze, tra le quali ebbe grande riscontro in Italia la legge francese Beauquier (1906) e il movimento per la protezione della natura sviluppatosi negli Stati Uniti tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Sotto la presidenza di Theodore Roosevelt (1901-1909) si era svolta la più vasta campagna della storia nell’ambito della tutela dell’ambiente naturale e si era concretizzata attraverso la creazione di 6 parchi nazionali, 18 monumenti nazionali, 51 riserve ornitologiche federali e 150 foreste nazionali. Roosevelt si era esplicitamente ispirato a un principio già formulato da Gifford Pinchot (primo capo del servizio forestale degli Stati Uniti): «conservare significa creare il massimo vantaggio possibile per il maggior numero possibile (di cittadini) il più a lungo possibile». Egli commentò anche: «il criterio del maggior numero possibile deve applicarsi a tutto il corso dei tempi e, in questo ambito, noi che viviamo oggi non rappresentiamo che una frazione insignificante. Noi abbiamo il dovere di rispettare l’insieme degli uomini, soprattutto le generazioni non ancora nate. Dobbiamo dunque impedire che una minoranza senza principi distrugga un patrimonio che appartiene alle generazioni a venire. Il movimento per la conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali è per la sua stessa essenza democratico nello spirito, nelle finalità e nel metodo». Tra i pionieri della difesa dell’ambiente è annoverato George Perkins Marsh, primo ambasciatore americano in Italia per vent’anni (1861-82), che vi ha scritto il suo libro L’Uomo e la natura o la geografia fisica modificata dall’azione umana (1864), immediatamente tradotto in Italiano.
La protezione della natura come obbligo morale nei confronti delle generazioni future e il forte legame tra la salvaguardia della natura e l’identità nazionale non solo sono state caratteristiche della difesa dell’ambiente in America ma anche di analoghi movimenti in Europa (per esempio in Francia, in Germania e nel Regno Unito). John Ruskin si è mostrato particolarmente eloquente nel contesto inglese. Secondo lui, il paesaggio deve essere protetto in quanto fonte di esperienze etiche ed estetiche forti, non soltanto sul piano individuale ma per la collettività dei cittadini. Il paesaggio riflette e determina l’ordine morale e per questo è un luogo chiave per la responsabilità sociale. Di fronte ad esso, le istanze sociali e politiche sono obbligate a misurarsi con i valori della natura, della bellezza e della memoria e non possono rinunciarvi senza tradire se stesse. Le teorie di Ruskin sono state diffuse in Francia da Robert de la Sizeranne in un libro (Ruskin et la religion de la beauté, 1897) che ha avuto grande successo in Italia. Da questo è tratta la frase che, spesso attribuita a Ruskin, diventerà lo slogan della protezione della natura in Italia: «Il paesaggio è il volto amato della patria».
Tuttavia, il paesaggio italiano non è solo natura. Esso è stato modellato nel corso dei secoli da una forte presenza umana. È un paesaggio intriso di storia e rappresentato dagli scrittori e dai pittori italiani e stranieri e, a sua volta, si è modellato con il tempo sulle poesie, i quadri e gli affreschi. In Italia, una sensibilità diversa e complementare si è quindi immediatamente aggiunta all’ispirazione naturalista. Essa ha assimilato il paesaggio alle opere d’arte sfruttando le categorie concettuali e descrittive della «veduta» che si può applicare tanto a un quadro o a un angolo di paesaggio come lo si può osservare da una finestra (in direzione della campagna) o da una collina (in direzione della città). Secondo il Viaggio in Italia di Goethe, le architetture inserite nel paesaggio italiano sono «una seconda natura destinata alla pubblica utilità» o «che opera a fini civili».
La legge del 1920 voluta da Benedetto Croce
La tutela del paesaggio in Italia si è innestata sullo stesso tessuto etico, giuridico, civile e politico che aveva dato luce alle regole di tutela del patrimonio. Con la crescita dell’industrializzazione (più lenta che nel nord Europa), i pericoli per il paesaggio italiano sono cresciuti e il movimento di protezione della natura si è sviluppato. Ha dato vita ad associazioni e movimenti di opinione e, nel 1905, a una regolamentazione ad hoc per la salvaguardia della pineta di Ravenna. Tuttavia, la prima legge organica è stata elaborata nel 1920 da Benedetto Croce, allora ministro della Pubblica Istruzione. Nella sua relazione al Senato, Croce si appella ai precedenti americani ed europei e allude a ciò che è e resta il «doppio cuore» del problema, cioè da un lato la relazione tra natura e cultura (in Italia tra città e campagne), e dall’altro l’equilibrio tra interesse pubblico e proprietà privata. Un «grandissimo interesse morale e artistico legittima l’intervento dello Stato», scrive Croce, perché il paesaggio «non è nient’altro che la rappresentazione materiale e visibile della patria».
Le misure di tutela rappresentano, è vero, una limitazione dei diritti della proprietà privata, ma si tratta, dice Croce, di una servitù di pubblica utilità, assolutamente necessaria. Sarebbe ugualmente inammissibile «sfigurare un monumento o fare oltraggio a un bel paesaggio, entrambi destinati al godimento di tutti». Si riallaccia qui al tema della publica utilitas e richiama il diritto romano. Nel corso dei dibattiti alla Camera, furono evocate le servitù di veduta (servitus prospectus) previste nel diritto romano, per esempio per Costantinopoli.
Le due leggi «fasciste» di Bottai del 1939
La legge Croce venne approvata pochi mesi prima dell’avvento del fascismo, nel 1922. Per diciassette anni, il regime di Mussolini non modificò nulle delle regole di tutela ma, nel 1939, il ministro Giuseppe Bottai intraprese una riforma organica ed elaborò due leggi parallele per la tutela del patrimonio e la tutela del paesaggio. Queste leggi, seppure emanate sotto un governo fascista, non avevano niente di particolarmente «fascista». Esse presentavano al contrario una redazione più precisa e completa della regolamentazione dell’Italia liberale, la legge Rava del 1909 e la legge Croce del 1920-22. In materia di paesaggio, Bottai impose il principio della «servitù di godimento pubblico» esplicitamente ripresa da Croce. In materia di patrimonio, la legge si ispirava al primato dell’interesse pubblico sulla proprietà privata. Durante la fase di elaborazione delle leggi, Bottai si avvalse della migliore intellighenzia italiana, in particolare di Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e del grande giurista Santi Romano.
Le due leggi del 1939, che è impossibile descrivere nel dettaglio in questa sede, sono state elaborate come dittico e hanno stabilito che la tutela del paesaggio e la tutela del patrimonio storico, archeologico e artistico erano le due facce della stessa medaglia, conclusione in corrispondenza perfetta con la tradizione civile e giuridica secolare degli italiani. Possiamo anche risalire alle origini molto antiche di questo strettissimo legame nei sistemi giuridici italiani, e ritornare indietro almeno fino all’ordinanza del Patrimonio reale di Sicilia del 21 agosto 1745 che impose congiuntamente la conservazione delle antichità di Taormina e del bosco di Carpineto sul monte di Mascali come del «castagno dei cento cavalli» (oggi nel parco dell’Etna). L’autore di questa misura era il vicere di Sicilia Bartolomeo Corsini, nipote di Clemente XII, il papa cui dobbiamo importantissime regole di tutela (1733) e la creazione del Museo Capitolino, come abbiamo visto. Il viceré Corsini era anche fratello del cardinale Neri Corsini, l’ispiratore del Museum Florentinum e del «patto di famiglia» Medici-Lorena (1737) che ha assicurato il mantenimento perpetuo delle collezioni dei Medici a Firenze.
Le due leggi Bottai, approvate in dittico nel giugno del 1939 a qualche settimana di distanza l’una dall’altra, erano così poco fasciste che dopo la guerra e la catastrofica caduta del fascismo, la Repubblica nata dalla Resistenza ne ha iscritto il nucleo originario tra i principi fondamentali dello Stato nella Costituzione della Repubblica.
L’articolo 9 della Costituzione (entrata in vigore il 1° gennaio 1948) enuncia: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». L’Assemblea Costituente giunse a questa formulazione dopo lunghi dibattiti e undici differenti formulazioni. I rappresentanti di tutti i partiti contribuirono al testo finale, in particolare il comunista Concetto Marchesi e il democristiano Aldo Moro. Nella Costituzione italiana, fa parte dei «principi fondamentali dello Stato» e si lega a una sapiente struttura di valori, in particolare «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3), i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), i limiti imposti alla proprietà individuale «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (art. 42). E inoltre, la Corte Costituzionale ha ugualmente riconosciuto come valore costituzionale la tutela dell’ambiente (non espressamente menzionata nel testo) facendola derivare dalla convergenza della tutela del paesaggio (art. 9) e il diritto alla salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art.32).
Insomma, l’articolo 9 della Costituzione italiana è la sintesi di un processo secolare che ha due caratteristiche principali: la priorità dell’interesse pubblico sulla proprietà privata e lo stretto legame tra tutela del patrimonio culturale e la tutela del paesaggio. Si è trattato in effetti di una «costituzionalizzazione» delle leggi di tutela del 1939 come attestato dai dibattiti dell’Assemblea Costituente. Dire che «La Repubblica protegge il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione» non è una dichiarazione d’intenti, ma piuttosto la descrizione di un sistema normativo e istituzionale già in atto. Da un alto le regole (le due leggi Bottai del 1939) e dall’altro le istituzioni (il sistema delle Soprintendenze territoriali divise per competenze e incaricate concretamente di una missione di sorveglianza e tutela). La perfetta continuità tra le leggi dell’Italia liberale, le due leggi approvate dal governo fascista e infine l’articolo 9 della Costituzione della Repubblica non sorprenderà se non quelli che ragionano per etichette e appartenenze senza entrare nella complessità della storia delle idee. Ancora più sorprendente sarà per essi l’evidente continuità tra le regole di tutela degli Stati italiani dell’ancien régime (come Roma o Napoli) e la cultura del patrimonio e della conservazione diffusa in Europa dopo la rivoluzione francese. Non si trattava quindi di «restaurazione» delle regole più antiche, ma di una nuova riflessione sui linguaggi e le regole dell’ancien régime alla luce di idee direttrici nuove come quelle di nazione, di sovranità popolare e di cittadinanza, che gli avvenimenti della rivoluzione francese avevano cambiato per sempre fornendo contenuti inediti alla nozione di «bene comune» e incarnandolo anche nei monumenti.
Una breve citazione dei Principi della filosofia e del diritto di Hegel (1821) lo dimostra bene: «I monumenti pubblici sono proprietà nazionale, cioè più esattamente, come nel caso delle opere d’arte in generale quando esse sono utilizzate, i monumenti pubblici hanno valore di fini viventi e autonomi fin tanto che sono abitati dall’anima della memoria e dell’onore. Quando quest’anima li ha lasciati, al contrario, essi diventano in questo senso, per la nazione, delle proprietà private, anonime e accidentali, come le opere d’arte greche ed egiziane in Turchia». In questo testo molto denso, si riconosce la nobile concezione del patrimonio nazionale che abbiamo visto nascere con Quatremère. I due poli convergenti di «memoria» e «onore» con la loro forte carica etica ritornano alla collettività dei cittadini ma presuppongono la forma dello Stato e richiedono una piena armonia tra etica e politica. Se «l’anima della memoria e dell’onore» scompare dall’orizzonte della vita e della storia, si produce una perdita radicale di significato. Questo evento, secondo Hegel, si era prodotto in Turchia, cioè nell’Impero Ottomano, per le antichità greche e egiziane.
Dagli statuti dei Comuni italiani del Medioevo alle leggi degli Stati preunitari e dell’Italia unificata fino alla Costituzione della Repubblica si disegna il percorso della cultura della tutela del patrimonio in Italia, un percorso unico per la sua lunga durata oltre che per la sua coerenza. Che i principi della tutela debbano essere iscritti nella Costituzione di un Paese moderno non è affatto evidente, e ancora oggi assai raro. L’articolo 9 della Costituzione italiana non ha avuto che due precedenti: la Costituzione della Repubblica di Weimar (1919) e quella della Repubblica Spagnola (1931), che fu peraltro di brevissima durata. In nessuno di questi due casi, comunque, la tutela del patrimonio faceva parte dei principi fondamentali dello Stato. A tutt’oggi, pochi Stati hanno dato a questo principio un rango costituzionale. In Europa, è uno dei principi fondamentali della Costituzione maltese e portoghese e ricopre forme diverse in altri Paesi, dalla Polonia alla Grecia ma anche nel continente americano, per esempio in Costa Rica e in Brasile.
Ho finora raccontato una storia «in crescendo», dalle regole sparse di qualche città nel Medioevo alla Costituzione di uno Stato moderno; e potrei benissimo proseguire ancora aggiungendo delle leggi e delle regole più recenti, in particolare la creazione del ministero dei Beni Culturali (1975) e, più recentemente, il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (2004, modificato nel 2006 e 2008) alla cui redazione ho partecipato e che ha modificato le leggi del 1939 conservandone tuttavia la
di Salvatore
Settis, da Il Giornale dell'Arte
numero 324, ottobre 2012
Nessun commento:
Posta un commento