09 aprile 2013

DA LENIN A GRILLO...







ANDREA MANZELLA - DA LENIN AI CINQUE STELLE


QUANDO Lenin commenterà l’esperienza della Comune di Parigi (1871) dove il Consiglio si era organizzato in commissioni, lo farà con parole celebri: “Un’assemblea parlamentare che si trasforma da mulino di chiacchiere in luogo di lavoro”. Rivoluzione e rivoluzionari a parte, ogni parlamento moderno ha seguito quella via. Perché oggi da noi vi sono incertezze su questa organizzazione parlamentare? Perché la geografia politica definitiva delle commissioni riproduce quella del governo: quella del governo: come strumenti essenziali per l’attuazione del suo programma, come snodi delle filiere di maggioranza e opposizione. Fino a che un nuovo governo si forma, non si possono perciò avere commissioni “permanenti”. Pragmaticamente però, “coperti” da Costituzione e regolamenti, i presidenti della Camera e del Senato hanno costituito due commissioni “speciali” transitorie come il periodo che attraversiamo. Il tempo però si prolunga e anche crescono le materie su cui le competenze delle due commissioni risultano affastellate. Di qui la richiesta di ampliarne le competenze, di articolarle in sottocomitati o di crearne altre, per tre o quattro macro-aree, fermo restando la precarietà temporale.

Spetterà alle assemblee decidere sul punto. E speriamo che lo facciano presto e non diano forza alla cattiva immagine - che già circola - di un Parlamento “disoccupato”, in “cassa integrazione” pagata dai contribuenti. Si è già visto che il Parlamento, anche se appena eletto, non è certo considerato “innocente” da chi grida disperazione sociale. È bene infatti che quale che sia la complicata vicenda nella formazione del governo, i nuovi parlamentari “trovino subito lavoro”. Non solo per esaminare e controllare i provvedimenti del governo dimissionario ma anche per stimolare, nel confronto e sul terreno, le loro prime riflessioni: sul Parlamento che hanno trovato e sul Parlamento che devono cambiare. Per diventare insomma anche loro, “saggi”.

Capiranno così che non basta la necessaria lotta agli sprechi della casa per dare slancio ed anima ad istituzioni rappresentative accartocciate su se stesse. Ci sono altri problemi e altre verità da scoprire sullo stato del Parlamento. Visto da un lato come istituzione “in sé”, autonoma nei suoi poteri. Dall’altro, come istituzione che condivide con il governo il peso delle decisioni pubbliche, delle “politiche generali”.

Sul piano istituzionale, se si fa il confronto con gli altri Parlamenti dell’Unione, il nostro sistema parlamentare è il più debole d’Europa. Non vi sono rappresentate le Regioni come in Germania, in Spagna, in Francia. Non ha le garanzie contro lo scioglimento anticipato che hanno il Bundestag e la Camera dei Comuni britannica. Non ha, unico in tutta l’Europa continentale, la possibilità di ricorso diretto di minoranza al tribunale costituzionale. Non ha, soprattutto, la forza rappresentativa che ovunque le leggi elettorali, con i collegi uninominali e le piccole circoscrizioni, danno, con il legame al territorio, agli altri parlamenti.

A questa specifica povertà istituzionale italiana si aggiungono, drammaticamente, le difficoltà dei Parlamenti a tenere dietro ai governi - nazionali e sovranazionali - nelle decisioni pubbliche. L’ordinamento delle decisioni pubbliche - dominate dall’urgenza - si è verticalizzato e “semplificato”. La questione non è più quella dell’equilibrio democratico nelle decisioni tra governo e Parlamento. La questione è se le decisioni pubbliche, comunque adottate, siano adeguate nella tempistica e nel merito alle necessità da fronteggiare nella crisi. E su quale sia il luogo abilitato per valutarne gli effetti. Nel magma della grande crisi, sembra ormai anacronistico richiamare rigidi schemi di competenze parlamentari (come le risalenti grida contro l’abuso della decretazione d’urgenza: vi è persino il dubbio che, alla luce della situazione attuale, la Corte costituzionale non avrebbe sentenziato contro la reiterazione dei decretilegge ...).
Le domande sono ora più radicali: lo strumento legislativo ordinario è adeguato a reggere il peso di questa nuova situazione? Dobbiamo “rinunciarvi” perché il governo ha i mezzi più idonei ad intervenire in questo contesto? Come si rimodula il Parlamento dinanzi ad una tale “dispersione” della sovranità? Come possiamo salvaguardarne le prerogative essenziali? La situazione di emergenza continua e strutturale impone, infatti, di spostare l’accento dai temi consueti della crisi della legislazione a quelli – per molti aspetti inediti - della legislazione della crisi. Non è un giuoco di parole. Non si può infatti affrontare la crisi – con le sue cause e componenti irriducibili ai confini statali e perfino ad una unione sovranazionale (come l’Ue) – costringendola nel “letto di Procuste” delle vecchie procedure normative. Sono queste procedure, invece, a dovere essere investite da uno sforzo culturale di adattamento, di meticciato, talora di de-formazione (con l’utilizzazione di moduli tradizionali per ottenere risultati nuovi; con l’immissione di procedure partecipative).

Una cosa rimane ben ferma: la necessità di una funzione di controllo parlamentare spostata sul versante dei risultati, della valutazione delle politiche pubbliche, della verifica delle procedure deliberative. La necessità del Parlamento come pubblico ministero della Nazione.

Insomma, nel funzionamento della nostra democrazia è aperta una grande “questione parlamentare”. Che ha due versanti. Quello della costruzione di una energia istituzionale del Parlamento, almeno pari a quella degli altri europei (con cui oltretutto la “cooperazione” prevista dai Trattati è zoppa, se non ad armi uguali). Quello della invenzione di procedure nuove nella vasta area che la Costituzione lascia libera per la deliberazione legislativa e in quella ancora più larga del controllo sulle politiche pubbliche. Ignorare tutto questo, non è più possibile: al di là dell’attuale, e passeggera, polemica su commissioni “permanenti” e commissioni “speciali”.

Da  La Repubblica di oggi

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