03 aprile 2013

LA CULTURA FA ANCHE MANGIARE!




Oggi esce per Guanda un libro su un tema che dovrebbe interessare tutti, non solo chi “opera nel settore”. Per chi crede, insomma, che con la cultura si mangi, alla faccia di Tremonti. Il sito http://www.nazioneindiana.com/2013/04/04/la-cultura-si-mangia/  anticipa un breve estratto dalle pag 23-26 del libro che di seguito si ripropongono:

 Bruno Arpaia e Pietro Greco – La cultura non è un lusso

Ora, finalmente, dopo averlo negato con ostinazione per anni, lo dicono in tanti: l’Italia è in declino. Ma, si badi, è un declino non soltanto economico. Il regresso in termini culturali, di coesione sociale, di partecipazione politica, di qualità ambientale è ancora più grande. È ancora più grave. Siamo un Paese che cerca di sopravvivere in un eterno presente e non riesce più nemmeno a immaginare un futuro. Tanto meno un futuro migliore.
Oggi, purtroppo, l’Italia è tra i Paesi più statici, con meno mobilità sociale, con più inefficienza, con più disuguaglianza, con meno idee su se stessa e su quello che potrà e dovrà essere. Già, le idee. Perché poi, gratta gratta, sono le idee a essere importanti, a orientare perfino la direzione della crescita economica o la politica industriale. Perché, con tutti i cambiamenti degli ultimi decenni, sarebbe imperativo cercare di capire dove va il mondo e reagire, adattarsi, riconquistare pezzi di futuro.
Non ci vuole poi molto a dimostrare che è proprio la cultura a generare, spesso in forme nuove legate alle tecnologie emergenti, valore economico e sociale. Anzi, sembrerebbe addirittura ovvio, eppure in giro non si trova molta gente disposta a capirlo, e ancora meno ad agire di conseguenza. Tanto è vero che, negli ultimi dieci anni (destra, sinistra o «tecnici» al governo), i sovvenzionamenti alla cultura sono passati dal 2,1 per cento dell’intera spesa pubblica del 2000, all’1 per cento del 2008, allo 0,2 per cento o poco più dell’ultimo anno, laddove Francia e Germania, che pure stanno facendo i conti con la grande crisi, vi hanno investito, rispettivamente, l’1 e l’1,5 per cento. Ma non basta: secondo l’ultimo rapporto di Federculture, con i nuovi tagli agli enti locali dal 2012 i comuni dovranno ridurre la spesa per la cultura di 7,2 miliardi l’anno. Tra il 2005 e il 2009 il settore ha perso il 15 per cento delle risorse e negli ultimi dieci anni lo Stato ha ridotto il proprio impegno nella cultura del 32,5 per cento.
L’idea di base, insomma, largamente presente in tutto il mondo battuto dalla «tempesta perfetta», ma estremizzata dal nostro Paese, è che « la cultura è un lusso » che non ci possiamo più permettere, un «vuoto a perdere» che ingoia risorse più utili altrove. Eppure, come ha scritto Christian Caliandro, autore con Pier Luigi Sacco del libro Italia Reloaded. Ripartire con la cultura, «non ci potrebbe essere quasi nulla di più sbagliato e controintuitivo, proprio in un momento del genere. Ridurre, comprimere, soffocare, eliminare la produzione e la fruizione culturale vuol dire, molto semplicemente, segare il ramo su cui si è seduti. Cancellare le proprie chance presenti e future; condannarsi all’impermanenza».

Del resto, la Storia dovrebbe insegnarcelo (ma ci vorrebbe cultura anche per quello…) Come ci hanno recentemente spiegato il premio Nobel per l’economia Paul Krugman e tanti altri, avremmo già la strada spianata da chi aveva affrontato la Grande Depressione ed era riuscito a uscirne. Tanto per dire: Franklin Delano Roosevelt. Invece di seguire il programma di austerità del suo predecessore Hoover, il presidente del New Deal, come ha notato Barbara Spinelli su «la Repubblica», «aumentò ancor più le spese federali. Investì enormemente sulla cultura, la scuola, la lotta alla povertà». Purtroppo, aggiunge la Spinelli, «non c’è leader in Europa che possegga, oggi, quella volontà di guardare nelle pieghe del proprio continente e correggersi. Non sapere che la storia è tragica, oggi, è privare di catarsi e l’Italia, e l’Europa».
Già: addirittura una «catarsi». Ma è proprio quello che ci vorrebbe. Roosevelt, infatti, non mise solo i disoccupati a scavare buche e a riempirle, come tanto spesso si dice. Tre dei più importanti progetti della Works Progress Administration, i più singolari, innovativi e duraturi, furono quelli compresi nel cosiddetto Progetto Federale numero 1, altrimenti noto come Federal One, che sponsorizzò per la prima volta piani di lavoro per insegnanti, scrittori, artisti, musicisti e attori disoccupati. Il Federal Writers’ Project, il Federal Theatre Project e il Federal Art Project misero al lavoro per qualche anno più di ventimila knowledge workers (come li chiameremmo oggi), tra i quali c’erano Richard Wright, Ralph Ellison, Nelson Algren, Frank Yerby, Saul Bellow, John A. Lomax, Arthur Miller, Orson Welles, Sinclair Lewis, Clifford Odets, Lillian Hellman, Lee Strasberg (il fondatore del mitico Actors Studio) ed Elia Kazan.
Non si trattò di elemosina: checché. Oltre a produrre opere d’arte (migliaia di manifesti, disegni, murales, sculture, pitture, incisioni…), gli artisti plastici e figurativi vennero impiegati nella formazione artistica e nella catalogazione dei beni culturali, e crearono e resero vivi anche un centinaio di community art centres e di gallerie in luoghi e regioni in cui l’arte era completamente sconosciuta. In tre anni, nella sola New York, più di dodici milioni (12.000.000!) di persone assistettero agli spettacoli teatrali incentivati dal Federal Theatre Project. Quanto al Writers’ Project, che costò ventisette milioni di dollari in quattro anni, produsse centinaia di libri e opuscoli, registrò storie di vita di migliaia di persone che non avevano voce e le classificò in raccolte etnografiche regionali, ma soprattutto, con le American Guide Series, contribuì a ridare forma all’identità nazionale degli Stati Uniti, che la Grande Depressione aveva profondamente minato, fondandola su ideali più inclusivi, democratici ed egualitari. E scusate se è poco.



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