03 aprile 2013

LA MAFIA SECONDO LEONARDO SCIASCIA







In questo blog trovate diversi pezzi di e su Leonardo Sciascia. D'altra parte è uno dei nostri scrittori preferiti; e quello che, tra i tanti, più ci ha aiutato a comprendere la Sicilia.
Di seguito ripropongo la recensione di un suo breve saggio ristampato recentemente:






Leonardo Sciascia ha scritto "La storia della mafia" nel 1972. Nello stesso anno il breve saggio fu pubblicato nella rivista "Storia illustrata". E' stato ripresentato nel 1976 su "Libération" e, più tardi, nel 1986, è stato incluso nel libro di Fabrizio Calvi "La vita quotidiana della mafia dal 1950 ad oggi". Da quel momento de "La storia della mafia" non si hanno più notizie. Fino al 2013, almeno: la rediviva casa editrice Barion, marchio editoriale nato tra le due Guerre e rilevato, negli anni sessanta, da Ugo Mursia, ha recuperato l'interessante scritto di Sciascia e lo ha riportato alla luce in un volumetto di sole 67 pagine che comprendono, oltre al testo dello scrittore siciliano, anche "Io, Nanà e i don" (un'intervista di Giancarlo Macaluso a Stefano Vilardo, storico amico di Sciascia) e la lucida postfazione di Salvatore Ferlita.

"La storia della mafia" parte dalle radici stesse della parola "mafia". Come farebbe un solerte filologo, Sciascia scava nel tempo per recuperarne le prime tracce. Il primo vocabolario del dialetto siciliano che riporta la parola "mafia" è quello del Traina, risalente al 1868, nel quale si spiega che la parola "mafia" sia giunta in Sicilia al seguito dei funzionari e dei soldati giunti dal Piemonte, dopo Garibaldi: "dove maffia (due effe) vuol dire miseria e smàferi vuol dire sgherri". Il Traina, quindi, spiega la mafia come la mescolanza tra la miseria ad una buona dose di "apparente ardire, sicurtà d'animo". Un altro studioso, il Pitrè, non si discosta granché da questa logica, anzi la elabora in maniera più sofisticata: "La mafia è la coscienza del proprio essere, l'esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra in contrasto, di ogni urto d'interessi e d'idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé…".

Da queste spiegazioni Sciascia rileva un atteggiamento piuttosto diffuso secondo il quale, appunto, la mafia non sarebbe un'associazione ma una sorta di "ipertrofia dell'io dei singoli siciliani". Sciascia recupera poi le riflessioni del magistrato agrigentino Alessandro Mirabile che, prima e più di altri, aveva inteso la natura autentica della mafia riconoscendole i caratteri di un'associazione criminale regolata in maniera molto rigida e con legami strettissimi tra gli affiliati. Mirabile, come altri siciliani, sapeva che parlare pubblicamente della mafia, descriverne la natura, i meccanismi e le regole è il sistema migliore per combatterla perché fingere che un male non esista significa non volersene liberare.

Ma è alla stringente ed acuta relazione di don Pietro Ulloa, procuratore generale a Trapani, che Sciascia dedica grande attenzione. Siamo nel 1838 ed Ulloa fotografa usi ed abusi del suo tempo ma straordinariamente contemporanei: "Non c'è impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a trarre profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz'altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. […] Il popolo è venuto a convenzione coi rei. […] Molti alti magistrati coprono queste fratellanze di una protezione impenetrabile…". Ovviamente Ulloa aveva sottoposto le sue analisi al governo che, altrettanto ovviamente, non ne tenne mai conto né allora né nei decenni a seguire. Eppure già nel 1838 le pericolose collusioni tra quelle "fratellanze" di cui parla Ulloa e il potere statale erano state individuate.

L'analisi di Sciascia riprende lì dove Ulloa si è fermato, ossia dalla condizione sociale di una Sicilia mai uscita dal medioevo: "il capo mafia al posto del signore feudale", con gli stessi diritti di vita e di morte sui suoi sudditi. La rivoluzione illuminata, in Sicilia, non c'è mai stata. La regione è passata, senza grossi scossoni, dai baroni ai borghesi seguendo un percorso tipicamente mafioso: servi che divengono padroni e che dei padroni assumono gli stessi vizi, gli stessi difetti: "volevano soltanto la terra, terra quanto più estesa possibile". Terra da possedere, non da migliorare o bonificare. E, recuperando le tesi dello studioso inglese Eric J. Hobsbawm e passando per "Il Gattopardo", Sciascia si sofferma su quella classe borghese-mafiosa che, proprio come fanno gli sciacalli e le iene, rubano quanto possono e divorano, distruggendo. E tra iene e sciacalli, proprio come in natura, sorgono spesso conflitti interni, fondati sulla frode e sulla violenza e nella frode e nella violenza risolti.

La definizione che Sciascia dà della mafia è, quindi, la seguente: "la mafia è un'associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i proprio associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato". La mafia si evolve e di adatta, proprio come fosse un organismo vivente. La mafia si è mescolata ai garibaldini, rimase neutra rispetto al fascismo ma tornò a rinvigorirsi con l'arrivo degli anglo-americani, fino a trovare un habitat perfetto grazie alla macchina politico-elettorale. Sciascia, come spiega nella sua postfazione Salvatore Ferlita, non era e non si riteneva un esperto di mafia ma, sicuramente, è stato il primo scrittore a raccontare la mafia attraverso la narrativa. Un merito enorme. D'altro canto non si può non notare che quasi l'intera opera letteraria di Sciascia è dedicata ad una ricostruzione della storia della mafia, i suoi intrighi, le sue collusioni con il potere, la sua psicologia. Una forma particolare di lotta alla mafia, la sua. Quella che passa per libri che sono divenuti delle pietre miliari della storia letteraria italiana e che, forse, dovremmo degnare di una maggiore attenzione.

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, provincia di Agrigento, nel 1921. La sua prima opera, Favole della dittatura, risale al 1950. L'attività letteraria di Sciascia tocca vari ambiti, dalla narrativa con opere come Le parrocchie di Regalpetra (1956), Gli zii di Sicilia (1958), Il giorno della civetta (1961), Il Consiglio d'Egitto (1963), A ciascuno il suo (1966), Il contesto (1971), Todo modo (1974), La scomparsa di Majorana (1975), Candido (1977); alla saggistica: La corda pazza (1970), Nero su nero (1979); alle opere di denuncia sociale ed episodi veri di cronaca nera: Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), I pugnalatori (1976) e L'affaire Moro (1978). Sciascia, nel 1979, accetta di candidarsi al Parlamento Europeo e alla Camera dei Deputati per il Partito Radicale. Riesce in entrambi gli ambiti, ma sceglie l'incarico di deputato, attività che porta avanti fino al 1983 occupandosi in maniera costante dei lavori relativi alla Commissione d'Inchiesta sul rapimento Moro. Le ultime opere di Leonardo Sciascia sono A futura memoria (pubblicato postumo) e Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989). Lo scrittore muore a Palermo il 20 novembre del 1989. E' sepolto a Racalmuto.

Leonardo Sciascia, "La storia della mafia", Barion, Milano, 2013. Postfazione di Salvatore Ferlita.

(monnalisa, aprile 2013)



2 commenti:

  1. alcune delle considerazioni che hai raccolto si trovano nella prefazione che Sciascia curò all'opera di un capitano dei carabinieri di stanza ad Agrigento: RENATO CANDIDA, QUESTA MAFIA (1957), IN CUI L'UFFICIALE INVESTIGAVA ANCHE SUI RAPPORTI TRA MAFIA E PARTITI DI SINISTRA (NATURALMENTE FU TRASFERITO DALL'ISOLA E A LUI SI ISPIRò LO SCRITTORE NEL DISEGNARE LA FIGURA DEL Capitano BELLODI NE <>. PROPRIO LA CONSIDERAZIONE DELL'IPERTROPFIA DELL'IO è UNA DELLE INTUIZIONI DEL CANDIDA.

    Bernardo Puleio

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  2. Caro Bernardo, come ben sai, sono d'accordo con te. Peraltro tanti hanno dimenticato che l'importante Prefazione di Sciascia al libro di Candida è del 1957!

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