Questa mattina prendo dal sito http://www.leparoleelecose.it la parte conclusiva del saggio di Rino Genovese, Il destino
dell’intellettuale, pubblicato
qualche mese da Manifestolibri.
Il compito da
affidare all’intellettuale, a questo punto, è evidente: coltivare l’utopia per
quanto irrealizzabile possa apparire, anzi proprio perché irrealizzabile[1].
Non il culto delle origini o del passato, non una tradizione culturale e
neppure i valori umanistici da cui non si riesce a mandare via il puzzo
d’impostura: piuttosto ancora una volta il nuovo, il mutamento, il
progresso-utopia con tutto il suo rischio. Ma il destino è un’altra cosa, e fa
di testa sua: nessuno può deciderne. Per questo all’utopia si affianca lo
scetticismo che, con le sue virtù pragmatiche, permette di superare i traumi di
una delusione sempre in agguato. Questo scetticismo impegnato consente
eventualmente di affrontare anche da soli il destino, in mancanza di contesti
ricettivi e di un gruppo sociale definito di riferimento.
A lungo, nel
linguaggio idealistico-marxista, ci si è esercitati intorno a un fantomatico
rapporto teoria-prassi. Da dove verrebbero le teorie (anche le più astruse,
anche la mia piccola della centralità dello spostamento del punto di vista
nella conoscenza e quella stessa dell’impegno scettico) se non da una
determinata temperie storica e dal livello preconcettuale raggiunto dalle
pratiche correnti nel concreto dell’agire e del conoscere collettivo, da un
senso comune che si fa astratto nel cielo della teoria per tornare sulla terra
come un concreto ancora più concreto nell’arricchimento costante della prassi
sociale? Un tale circolo, virtuoso o vizioso che sia, non tiene più. E quindi
neppure il suo arresto ha più ragion d’essere, nella forma del vagheggiamento
di una prassi non deteriorata come in Adorno[2].
In generale è proprio la nozione di prassi – che aveva un significato, guarda
un po’, solo all’interno di una data costellazione teorica – a venire meno. Ad
essa va sostituito il concetto di un’amplissima comunicazione sociale, entro
cui si può e insieme non si può essere accettati – e ciò in generale, non solo
in quanto teorici –, con tutte le deformazioni più o meno scorrette, con tutti
i fraintendimenti più o meno grossolani che nel loro intrico costituiscono il
destino.
Le azioni allora
non sono ispirate dalle teorie, non sono le loro traduzioni nella prassi; e
neanche le teorie provengono da questa come i suoi doni più rari e preziosi. Le
azioni sono mosse di un tipo particolare nella comunicazione corrente
che, sollecitando l’attribuzione da un ricevente verso un soggetto agente,
consentono di fare il punto, di orientare i processi comunicativi in un modo
anziché in un altro. Le teorie, in particolare quelle sociali, perse a loro
volta nel mare della comunicazione in cui cercano un proprio spazio, tentano
d’influenzare i comunicatori affinché questi possano farsi un’idea meno ingenua
e più complessa del mondo. Ma una teoria, soprattutto una teoria sociale,
sebbene si collochi comunque in una storia collettiva, reca nella sua
elaborazione un’impronta individuale; e il modo in cui viene trasmessa non può
che essere da individuo a individuo. Non riguarda, non tocca le cosiddette
grandi masse: in nessun caso può pretendere di formarle o, peggio,
d’indottrinarle.
Oscar Wilde, per il
quale «una mappa del mondo che non include il paese dell’Utopia non vale
neppure un’occhiata»[3],
aveva perfettamente compreso che il socialismo è l’individualismo integrale.
Oggi – pensava – una completa espressione di sé è riservata solo a pochi poeti
e scrittori, da Byron a lui stesso. Con la fine della proprietà privata le
possibilità di uno sviluppo onnilaterale, di un arricchimento sostanziale
dell’individuo nel senso dell’essere e non dell’avere, saranno a disposizione
di tutti. E metteva al tempo stesso in guardia dalle forme autoritarie che la
pretesa di realizzare l’utopia avrebbe potuto assumere, cancellando così
l’individualismo.
L’idea di estendere
a tutti gli esseri umani il privilegio intellettuale di pochi, con il porre
fine all’ignoranza e cambiando le condizioni della produzione, non era affatto
esclusiva di un dandy come Wilde: la si ritrova nei “classici” del pensiero
socialista. Nel mondo contemporaneo essa diventa, molto parzialmente, una
realtà per via delle notevoli cognizioni, non solo tecniche, che
l’organizzazione del lavoro nelle sue punte avanzate richiede. Soltanto, ciò
avviene sotto il regime stretto della proprietà privata, e sotto condizioni di
esistenza per i nuovi lavoratori della conoscenza segnate dalla disoccupazione,
dalla precarietà e da una flessibilità di tipo servile. Così anche
l’eccentricità, quando c’è, non può che scadere a maniera, intrecciandosi con
il più anonimo individualismo di massa basato sui consumi privati e sulla
fruizione incessante e passiva di un mondo estetizzato soprattutto nel senso
del kitsch. Insomma pressoché l’opposto dell’individualismo integrale e
sostanziale predicato da Wilde, fondato sulla messa in comune del bello.
Apparentemente
lontano dall’estetismo di Wilde, ma a lui vicino nella forte impronta
individualistica, Bertolt Brecht, l’ex giovane anarchico trasformatosi in un
hegelo-marxista a suo modo rigoroso, aveva sviluppato una capacità di
adattamento alle situazioni, una personale astuzia della ragione, che lo
condurrà dopo la guerra ad aderire allo Stato tedesco-orientale. Era, per certi
versi, la più flagrante contraffazione del rapporto teoria-prassi che si
potesse concepire: la natura dello stalinismo era infatti nota fin dagli anni
trenta, e nel complesso non sfuggiva a Brecht che, se Stalin era stato “utile”
(per esempio nella guerra contro il nazismo), i difetti di un socialismo da
caserma erano di gran lunga più gravi dei suoi quasi inesistenti pregi. Tuttavia
si stabilì a Berlino Est. Perché?
La risposta chiama
in causa la nozione di un impegno scettico, nel caso di Brecht preso dal suo
rovescio. Stando all’interno di quel mondo, così lontano e insieme così vicino,
egli pensava in una certa misura di poterlo influenzare, d’introdurvi il segno
di una contraddizione con il suo teatro per quanto “protetto”, con i suoi
interventi per quanto censurati, come quello in occasione della rivolta operaia
del giugno 1953. Era un tentativo di stare in quella comunicazione, con la
speranza di scioglierne in parte il grigio grumo totalitario. Perciò, mentre un
impegno propriamente scettico si terrebbe a distanza da un’ideologia reificata,
Brecht vi si collocò invece ben dentro per consumarne i limiti con il suo acido
corrosivo – in maniera forse presuntuosa e, per così dire, da dandy[4].
Non essere un
autore realista là dove il realismo socialista era una prescrizione assoluta,
parteggiare per un’interpretazione della dialettica alla Mao con tutte le
stranianti cineserie del caso[5],
mostrarsi pacifista fino in fondo, senza distinzioni tra la guerra imperialista
e la “difesa della patria socialista”: sono altrettante eccentricità
“piccolo-borghesi”, così saranno state bollate all’epoca da quei funzionari cui
Brecht aveva dedicato questo strano pensiero, non si sa se più dialettico o più
dandystico: «Me-ti odiava i funzionari. Ma ammetteva di non poter scorgere
altra via per liberarsene dal trasformare tutti in funzionari»[6].
Le condizioni dei paesi di democrazia popolare e del socialismo reale avevano
in effetti creato un funzionariato generale. Ciò che poi è mancato, e non
poteva non mancare, è il capovolgimento per cui da una società di
tecnoburocrati si sarebbe passati a una società di individui liberi. Grazie
alla dialettica, si sa, qualsiasi cosa può essere giustificata e insieme criticata.
Ma l’eccentricità di Brecht non traspare tanto dal gioco di prestigio
concettuale, quanto dall’odio dichiarato per i funzionari e dall’intenzione di
cancellarli per sempre. Una protesta disorganica contro l’organicismo
burocratico, che gli valse un destino finale (la morte arrivò nel 1956, a
cinquantotto anni) certamente amaro.
Pur nella distanza
tra le due figure, le sorti pubbliche di Wilde e Brecht mostrano tratti
analoghi. La centralità conferita all’utopia, il dandysmo come sfida che li
accomuna, infine i loro fallimenti, nonostante la fama precocemente acquisita,
che condusse Wilde a una morte poverissima da esule a Parigi (nel 1900, a
quarantasei anni) e Brecht, dopo una vita da profugo, da esiliato interno nella
Germania divisa, in quella maledetta impasse che mostrava una volta di più come
per l’intellettuale la comunicazione, nient’altro che questa, fosse il destino:
tutto ciò li avvicina. E li rende agli occhi di chi viene dopo, anche in un
mondo mutato, due modelli di una stessa pervicacia intellettuale applicata alla
realtà artistica ma anche sociale e politica. Ciò che è davvero rilevante nella
loro esperienza non è l’uso dello scandalo (per Wilde) e della provocazione
(per entrambi), che sono risorse del tutto in linea con il modernismo artistico-letterario
da essi incarnato (e già André Breton, alla fine, aveva compreso che lo
scandalo invecchia), quanto piuttosto quello che hanno fatto della loro vita
giocandola in toto come mezzo simbolico di una comunicazione ogni volta
ulteriore. Il che significa che si sono mossi in un amalgama di verità
(ciò che non può non essere detto), d’impensato (ciò a cui non si può
non tendere, sia pure solo con la fantasia) e di prestigio, terzo
ingrediente e mezzo privilegiato del gioco stesso, che lo allontana dal potere
e dal denaro. Se si aggiunge il principio della coerenza di cui sopra,
quasi come una necessaria supervisione morale, si ha davanti agli occhi
l’insieme scheletrico della possibile comunicazione intellettuale, per quanto
improbabile possa essere.
La circostanza che
il filostalinista e il dandy convivano in uno stesso personaggio, non deve
sorprendere più di tanto. Né si può chiamare in causa come scusante
(storicistica) la durezza della storia: l’errore di Brecht è palese e non
chiede di essere giustificato, perché è tutt’uno con il suo spendersi nella
vicenda dell’epoca. Nella biografia di Wilde una certa corrispondenza la si può
trovare con il processo giudiziario in cui si cacciò e che lo condusse alla
rovina. Incerti di un mestiere disorganico. In Italia soprattutto Pasolini, ma
anche Fortini, qualcosa ne sapevano. E non vanno assolti dai loro errori,
piccoli o grandi che siano stati, più di quanto vadano lodati per
l’atteggiamento che li spinse a compierli.
Per l’intellettuale
il rapporto con la politica, che pure è costitutivo della sua funzione, è stato
sempre a dir poco problematico. E lo sarà ancora se – non si sa se rinascendo
dalle sue presunte ceneri o sfuggendo ai profeti di sventura – una funzione del
genere ci sarà in futuro. La ragione di ciò sta in quella cosa semplice e
indefinibile, preponderante in modo riflessivo nella vita del dandy ma di cui
chiunque ha esperienza, che è la noia. Con il lasciarvisi andare,
l’intellettuale si consegna senza infingimenti all’impotenza nei confronti
della storia e della realtà tutta. Però, grazie a quest’organo dell’utopia che
è la noia, egli entra in diretto contatto con la sua ineffettualità: così
insieme è e non è di questo mondo.
[1] Mi piace ricordare che Cesare Cases, a conclusione
del suo insegnamento all’università di Torino per limiti di età, terminò
augurando «buona utopia a tutti».
[2] Cfr. T. W. Adorno, Note marginali su teoria e
prassi, in Id., Parole chiave, cit., pp. 233-63. Si tratta di un
saggio dell’ultimo Adorno in risposta al movimento studentesco e al suo
“azionismo”. L’ultima volta in cui il concetto hegelo-marxista di prassi fece
la sua comparsa nella storia occidentale fu in effetti nel Sessantotto. Contro
una prassi irrazionale, deformata, Adorno mirerebbe a un rapporto teoria-prassi
basato sul riconoscimento che anche «il pensiero è un agire, la teoria una
forma della prassi» (ivi, p. 236). Ma né il pensiero è la stessa cosa
dell’agire né lo è la comunicazione nel suo senso ampio, come cerco appunto di
mostrare. Ciò pone dei problemi specifici all’intellettuale filosofo che si
muove nell’ambito della teoria – ben al di là sia dell’attivismo sessantottesco
sia della critica adorniana.
[3] O. Wilde, L’anima dell’uomo sotto il socialismo
(1891), trad. it. in Id., Opere, Mondadori, Milano 1979, pp. 329-75.
[4] Contro l’ambiente intellettuale della Repubblica
democratica tedesca, sembra che Brecht abbia detto una volta: «[…] in questo
deserto di sabbia in cui viviamo non si può fare i difficili. Potete immaginare
che, per fare un esempio, un personaggio come Oscar Wilde non è precisamente il
mio ideale, ma se ora fosse qui, lo inviterei a colazione e cercherei di
procurargli un’orchidea fresca tutte le mattine perché si sentisse a suo agio»
(citato nella Nota introduttiva di C. Cases a B. Brecht, I capolavori,
vol. I, Einaudi, Torino 1998, p. XII; ringrazio Barbara Carnevali per avere
attirato la mia attenzione su questo passo).
[5] Cfr. B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte,
trad. it., Einaudi, Torino 1970 (con un’introduzione di C. Cases).
[6] Ivi, p. 139.
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