Pablo Rey
Ci si è chiesti tante volte “ Che cos’è la letteratura?”. Ricordo che Jean Paul Sartre, che era anche un brillante scrittore oltre che un acuto filosofo, scrisse un saggio su questo tema. Anche per questo mi pare interessante riproporre oggi un pezzo, apparso su uno dei migliori siti letterari che conosco http://www.leparoleelecose.it/?p=12220 , che rilancia l’antica domanda:
Sul futuro della letteratura /1. Giancarlo Alfano
1 ottobre
2013 Pubblicato da Emanuele Zinato
[Ho chiesto ad alcuni critici di scrivere un saggio
sul futuro della letteratura. L’inchiesta è nata dalla convinzione che,
nell’ultimo decennio, ci si è interrogati fin troppo sulla critica, sulla sua
crisi e sulla sua funzione, e troppo poco su quel vuoto che chiamiamo
“letteratura”. Le nove domande o sollecitazioni che seguono, dunque, vertono
tutte sulla necessità di fare il punto sulla definizione della letteratura, sui
suoi confini, sui nessi con la realtà, nella convinzione che esista un rapporto
fra l’opera e una parte di mondo che sta fuori di essa, ma che su tale rapporto
si sia rinunciato a discutere.
Non si conosce senza distinguere e senza definire.
Immaginiamo che uno studente di lettere abbia bisogno di dare risposte al suo
compagno di medicina o di ingegneria che gli chiede, un po’ beffardamente, di
cosa si sta occupando. Immaginiamo che un lettore, girovagando nelle librerie,
chieda conto delle distinzioni a cui alludono gli scaffali: “letteratura” da
“romanzi”, fiction da
non fiction. E’ ancora possibile, oggi, tentare di rispondere alla domanda
sartriana “che cos’è la letteratura”? E’ possibile definire inoltre una
deontologia della ricerca letteraria? Genette suggerì, negli anni d’oro
della teoria e della critica, di distinguere fra due regimi letterari: uno
costitutivo, chiuso, garantito dalla convenzione, l’altro condizionale,
aperto. Come si sa, i confini del letterario variano da epoca a epoca: oggi a
esempio il termine sembra aver perso tutta la sua specificità. Nelle
università, gli indirizzi dei Cultural Studies non distinguono la
letteratura dagli altri documenti culturali. L’inchiesta parte da alcune
domande o riflessioni:
I. Sembra che oggi la narrazione, tradizionalmente
ritenuta un elemento dell’esperienza letteraria, non abbia mai goduto un così
ampio successo. Viviamo avvolti in una narratività diffusa, che in epoca
digitale contraddistingue aree assai forti, tradizionalmente considerate
extranarrative, come il marketing e la politica. Che effetto ha sul romanzo
questa narrazione espansa? E’ per questa ragione extraletteraria che il
concetto di letteratura si è andato trasformando in altri, più generici
concetti (l’immaginario, la comunicazione, il discorso)?
II. Per una sorta di paradosso, mentre la letteratura
ha perso la tradizionale posizione di prestigio goduta nel sistema culturale e
formativo, cresce l’interesse per le modalità della letteratura da parte di
studiosi di altre discipline: gli scienziati ricorrono alle potenzialità
euristiche della retorica, gli storici narrativizzano le loro ricostruzioni, i
medici usano il concetto di double coding, introducendo nella pratica medica componenti
dell’immaginario psicosociale, gli studiosi del diritto in base al binomio Law
and Literature si rivolgono alla dimensione retorica e letteraria del
linguaggio legale o ricostruiscono i casi giudiziari in base alla narratologia,
i geografi utilizzano la percezione dello spazio nelle opere letterarie per le
loro mappe cognitive e sensoriali. Questo fenomeno di migrazione della
letterarietà fuori dai suoi confini ne ribadisce paradossalmente la tenace
persistenza oppure è parte di una complessiva costipazione dell’immaginario ?
III. L’istruzione superiore allo sbando, le pagine
culturali dei quotidiani infarcite di gossip, la narrativa arrancante dietro ai
fumetti e al cinema di intrattenimento: il tutto sotto l’imperio delle
televisioni. Sul destino della cultura, si sono affrontati, nello scenario
degli ultimi vent’anni di spettacolo e di intrattenimento, i due vecchi
duellanti in maschera evocati da Eco: apocalittici e integrati. Da un lato
l’allarme di chi ha visto inverarsi le profezie orwelliane, dall’altro
l’entusiasmo di coloro i quali hanno inneggiato alla democraticità del nuovo
orizzonte. La letteratura è davvero in pericolo? Vi sono fattori che la
precipitano verso una "fine"? (Todorov) E’ possibile o necessaria una
riflessione sul rapporto tra i linguaggi letterari e le modificazioni radicali
che si sono avute nell'universo della politica, dell'ideologia, della comunicazione,
della tecnologia, sullo scorcio finale del Novecento e all'inizio del XXI
secolo? E’ ancora plausibile opporre passione e responsabilità al dominio cieco
del mercato e della pubblicità?
IV. Spesso si sente parlare, a proposito della nostra
letteratura, di vuoto di realtà e di distanza dalle cose. Per gli italiani, la
letteratura è stata uno dei pilastri dell’identità nazionale. Anche di recente,
si è misurata tuttavia la distanza della nostra letteratura dalle cose proprio
a partire dal suo precoce fissarsi nella norma toscana, dall’aver costretto i
propri narratori e poeti a esprimersi in una lingua acquisita solo sui libri.
Il prezzo pagato per questa scelta da un paese che spicca proprio per la
ricchezza e la varietà delle sue culture è stato forse la perdita delle
esperienze più vive. Di lì nasce la scarsa leggibilità e la scarsa popolarità
dei classici italiani? La nostra letteratura è stata autoreferenziale perché
scritta in quell’astratto esperanto che è stato il toscano letterario? Ha
davvero eluso le drammatiche vicende della nostra storia? Oppure le ha
paradossalmente affrontate grazie alla sua specifica “lingua morta” (Fortini)?
V. Quale peso ha, nell’esperienza letteraria, lo
scenario della globalizzazione e delle grandi migrazioni? Soprattutto dagli Stati
Uniti si è diffusa l’esigenza di rivedere il canone letterario. In Inghilterra
il canone viene stilato partendo dal criterio dei sillabi, elenchi di opere di cui
alcune obbligatorie e altre che gli insegnanti debbono scegliere da una lista
trasmessa a livello governativo. Quali sono i nostri syllabi? Quale il
nostro canone? Che peso ha su di essi la condizione postcoloniale e l’arrivo,
non solo fra i lettori ma anche fra gli scrittori, dei nuovi migranti?
VI. Per la definizione del campo letterario, tornano
oggi a far capolino termini-chiave che sembravano del tutto fuori gioco: a
esempio realtà,
impegno, stile. I narratori degli anni Zero sembrano muoversi di prefenza
fra autofinzione e reportage, per dar vita a inchieste o testimonianze sui mali
del presente. Pasolini tuttavia come si sa intitolò un suo celeberrimo articolo
Romanzo delle stragi: già lì, molto prima del “caso Saviano”, pezzi di
realtà erano connessi fra loro, o rielaborati come le fantasie infantili
famigliari secondo Freud, da segmenti d’invenzione. E’ plausibile oggi una
letteratura impegnata oppure la letteratura è sempre impolitica? E se esiste
una modalità dell’impegno, magari per frammenti (cfr. Postmodern impegno.
Ethics and Commitment in Contemporary Italian Cuture, a c. di P. Antonello e F.
Mussgnug, Peter Lang, 2009) questo tende di necessità al basso grado di
figuralità, alla vigilanza su invenzione e stile?
VII. Il provincialismo e la debolezza della
letteratura italiana rispetto ad altre letterature dell’Occidente, da molti segnalato
negli anni Novanta, continua anche negli anni Zero? Vi sono controtendenze? Ciò
che manca oggi ai romanzi italiani è ancora la lingua, materia prima della vera
opera d'arte, a dispetto e contro ogni serialità e riproducibilità?
VIII. Negli anni Zero ciò che chiamiamo postmodernismo
si arricchisce (ma anche si complica) con l’uso letterario della rete.
Fioriscono riviste e blog letterari frequentati assai più largamente rispetto
alle tradizionali riviste: Carmilla, Nazione Indiana, Vibrisse, Minimaetmoralia, Punto Critico,
Doppiozero, Le parole e le cose… Il web 2.0 può essere una risorsa per la
letteratura e per la critica? (ez)]
Ciò di cui siamo fatti. Per una descrizione del nostro
modello di mondo
0. Premessa
Ammesso pure che qualcuno possa farlo, non credo che
la previsione del futuro sia tra le responsabilità dello studioso. Tanto meno
quando il futuro riguarda l’arte, che spesso procede per salti improvvisi o
comunque per discontinuità, ridefinendo il patrimonio culturale e formale da
cui proviene e al quale però, fatalmente, ritorna. Lo studioso può tuttavia
provare a descrivere il presente, cogliendone i cardini strutturali e insomma
descrivendo quello che, con Jury Lotman (1975, 1985), potremmo chiamare il
“modello di mondo” nel quale viviamo. Nelle pagine che seguono mi sono avvalso
di alcuni libri molto recenti accomunati dalla forma del “manifesto” e della
dichiarazione programmatica per provare a definire i primi elementi utili per
una descrizione di questo tipo.
1. Il paradosso del canone
Quanto è successo nell’ultimo decennio del secolo XX
potrebbe essere descritto come un paradosso: la riflessione letteraria
contemporanea si è concentrata sul concetto di canone proprio nel momento in
cui stava diventando impossibile procedere alla definizione di un canone valido
per la conteporaneità. In verità non era un paradosso, ma l’effetto di una
nuova condizione culturale: poiché la contemporaneità stava rendendo
tendenzialmente impossibile stabilire un canone, la discussione si appuntava su
questa improvvisa e inattesa impossibilità.
Si è tentato a più riprese di individuare le ragioni
di un tale profondo cambiamento, ed è probabile che le spiegazioni più lucide
siano quelle che hanno ravvisato l’origine della nostra attuale condizione: 1)
nell’allargamento a dimensioni planetarie della discussione estetica; 2) nella
generalizzazione delle medesime regole al complessivo mercato letterario
mondiale; 3) nella progressiva attestazione delle nuove forme di comunicazione.
Ci saranno senza dubbio ulteriori concause. È però
utile riflettere in breve sulle tre fomule che ho appena utilizzato. La prima
riguarda la questione sollevata, soprattutto in ambito statunitense, sulla
necessità di allargare lo sguardo al di là dei tradizionali confini europei, in
particolare verso le tradizioni indiana, estremo-orientale, sudamericana e
africana. Ne è sorta l’ampia discussione collegata ai cosiddetti studi
post-coloniali, i cui esiti sono stati spesso di grande rilevanza concettuale e
dei quali non è in nessun caso legittimo liberarsi con una semplice scrollata
di spalle. Chi lavora dalla prospettiva centro-mediterranea, come succede
inevitabilmente in Italia, non può infatti ignorare l’efficace avvertimento di
Edward Said: «nessuno di noi è al di fuori o al di qua della geografia, nessuno
di noi si può astrarre completamente dalla lotta sulla geografia» (1993: 107).
E tuttavia è interessante notare che la gran parte del dibattito si è
incentrata sul punto di vista del lettore, innanzitutto del lettore
specializzato: da qui la questione dei canone e la polemica contro la
centralità della tradizione europea. Quando ci si è occupati di autori, si è
provveduto semmai a ricostruire forme e temi del loro modo di raccontare
l’altro (l’Oriente, l’Esotico, il Nativo) e, di conseguenza, della relazione
tra le loro opere e il modello culturale cui appartenevano. Non ha avuto invece
altrettanta rilevanza il tentativo di una riflessione estetica complessiva che
riguardasse lo statuto del letterario, nemmeno all’interno del pur rilevantissimo
dibattito sulla traduzione (per tutti questi problemi cfr. l’efficace
presentazione di Benvenuti – Ceserani 2012).
La seconda formula che ho utilizzato porta invece a
riflettere su tre aspetti differenti ma profondamente intrecciati. Il primo
riguarda il sistema produttivo, ossia l’industria letteraria. La
globalizzazione significa infatti: possibilità di dislocare la produzione dove
è più conveniente (rispetto alle regole imposte al mercato del lavoro) e
capacità di distribuire i prodotti su scala globale (semmai in condizioni di
oligopolio). Quel che accade con le vetture automobilistiche, con le calze di
nylon o con le attrezzature sportive, accade anche con le opere letterarie, che
entrano in un agone aperto ai prodotti provenienti dalle più diverse aree
culturali. Certo, per quanto tutte le merci siano inserite nella medesima
routine di produzione e distribuzione, occorre ricordare che il prodotto
artistico conserva un surplus per così dire non monetizzabile, che consiste
nella sua efficacia estetica, nel piacere che offre. E tuttavia la riflessione
sociologica di Pierre Bourdieu, da una parte, e le ricerche dell’antropologia,
dall’altra, ci hanno insegnato che questa efficacia e questo piacere
interagiscono con altri aspetti del consumo culturale, quali per esempio le
variazioni del gusto e le gerarchie di valore. Sorge qui la rilevanza del
secondo aspetto: il ruolo dei critici, cui nel corso dei secoli il mondo
occidentale ha attribuito la responsabilità della selezione proprio in base a
criteri di gusto e a gerarchie di valore. In un sistema di generalizzazione
delle medesime regole appare evidente che questo ruolo debba perdere di
rilievo: non sono i critici a stabilire i criteri, non sono loro a creare
gerarchie. Il mercato si governa da sé, come nel più classico sogno del
liberismo economico. Ed ecco il terzo aspetto, che riguarda gli autori e le
loro decisioni estetiche. In un “mercato globale”, definito nel modo che ho
appena chiarito, è piuttosto evidente che gli autori abbiano finalmente la
possibilità di accedere al “centro” pur provenendo dalle periferie. Ma
l’accesso al centro è possibile a patto di entrare nella catena distributiva,
il che implica la necessità di accettare un alto livello di traducibilità
interlinguistica e interculturale.[1]
Passo infine alla terza formula, riguardante le nuove
forme della comunicazione odierna, e cioè il cosiddetto web 2.0, che consente
l’interattività di ogni fruitore col sistema complessivo. Il dibattito intorno
alla democrazia della rete è stato ed è tuttora molto ampio. Per semplicità, mi
pare si possa dire che in esso non si contrappongono (più) apocalittici e
integrati, ma si confrontano coloro che vedono nella comunicazione digitale un
potenziamento delle possibilità di espressione individuale, un aumento della
somma di conoscenze disponibili gratuitamente e una partecipazione diretta alla
creazione di conoscenza e coloro che, pur constatando gli indubbi vantaggi del
sistema odierno, osservano come l’aumentata possibilità di esprimersi abbia
reso meno importante il confronto con gli altri testi (semmai pure presenti in
rete), come l’aumento delle conoscenze a disposizione divenga puro stoccaggio
di materiali, indipendentemente dal loro “consumo” effettivo, come, infine, la
partecipazione alla creazione di conoscenza non avvenga in un clima di libera
concorrenza proprio per il fatto che chiunque può parteciparvi, facendo, di
conseguenza, aumentare gli elementi di disturbo all’interno del sistema.
Qualunque dei due partiti si scelga, la questione è
decisiva perché in ogni caso è evidente che il “mercato globale” è costituito
anche dal web, e che anzi il sistema delle comunicazioni digitali sia al tempo
stesso un importante luogo delle transazioni economiche e una delle principali
arene in cui si organizza il consenso, si producono i “valori” estetici, si
determina il “gusto” prevalente.
Ed eccoci così tornati alla discussione sul canone e
al finto paradosso di partenza. Discutere di un corpus di opere che sia sentito
fondamentale per la propria identità culturale e modellizzante per i propri
atteggiamenti emotivi, cognitivi ed estetici significa anche oggi quel che ha
sempre significato: ragionare sulle forme di organizzazione del potere e sui
modi della mediazione simbolica. Mi pare in tal senso significativo che in un
suo recente (2007: 151) contributo intitolato Quanto vale e quanto dura un
canone? Cesare Segre abbia spiegato che nella nostra «epoca di
multimedialità» le frontiere tradizionali tra i «“generi” artistici» cadono,
perché i loro «elementi costitutivi» si scambiano l’un l’altro «in un continuo
movimento magmatico». L’illustre critico ne ha dedotto che «non essendo più
alla testa delle cose letterarie autori o istituzioni culturali questi
movimenti saranno governati soltanto da un’imprenditoria anonima», fatto tanto
più preoccupante per la ragione che «nessuno ha mai reclamato la proprietà
collettiva dei mezzi di comunicazione, come si faceva una volta per la
proprietà dei mezzi di produzione».
2. Farsi antologia
L’ispirazione marxiana della conclusione di Segre
mostra quanto sia importante nell’ambito estetico-letterario il rapporto tra i
tre termini che abbiamo descritto in precedenza: mercato (che oggi equivale al
sistema di produzione), funzione critica e funzione d’autore. Se con
quest’ultima dobbiamo intendere qualcosa a metà tra il “marchio” impresso sul
prodotto dal suo produttore e la autorizzazione che l’addetto alla produzione
riceve dal sistema in cui è immerso, è evidente che il mercato finisce con
l’essere il luogo effettivo di produzione di quella funzione, giacché è lì che
si patteggia l’immagine dell’autore, l’autorizzazione di uno scrivente a
diventare scrittore. I lettori, del resto, agiscono in quell’agone (nel
mercato), così che l’altra funzione, quella critica, mano a mano che si
sviluppa sempre più al di fuori dei canali tradizionali ed è praticata da un
numero crescente di addetti, appare sempre meno “indipendente” dal sistema del
mercato.
Certo è vero che la produzione intellettuale è sempre
stata in relazione diretta con il sistema della produzione e quindi con il
potere. Ma ciò accadeva in quanto realizzava un esercizio di mediazione tra
“autore” e “pubblico” fondamentale per il funzionamento stesso del mercato.
Oggi non è più così. O meglio, oggi è il mercato ad avere assunto in proprio la
funzione di mediazione, giacché chi controlla i mezzi di produzione controlla
anche i mezzi di distribuzione, ossia – per riprendere ancora l’osservazione di
Segre – i mezzi di comunicazione. Lo mostra l’esistenza dei supporti di lettura
elettronica, da Kindle all’Ipad, attraverso i quali le grandi catene di
produzione condizionano la possibilità stessa di fruizione, inverando così
quella Editoria senza editori di cui ha parlato André Schriffin (1999).
In un recente libro, Milad Doueihi si è espresso a
favore di un umanesimo digitale. Nel suo saggio, che s’intitola Pour un
humanisme numérique, l’autore fa osservare una serie importante di
meccanismi, propri della rete e dei cosiddetti social network, che andrebbero
nella direzione di un potenziamento del contatto e del riconoscimento
reciproci, creando forme dell’amicizia che, pur nuovissime, potrebbero essere
considerate come una sorta di sviluppo odierno del De amicitia
ciceroniano. La presentazione, non priva di ardore apostolico, di alcuni
fenomeni fa riflettere.
Tra i vari spunti m’interessa qui mettere in rilievo
quanto Doueihi (2011: 105-138) osserva a proposito della «culture anthologique»
prodotta dalla rete. Lo strumento dell’antologia è storicamente collegato in
maniera intrinseca con l’identificazione del canone: la creazione di un canone
implica infatti la scelta di conservare certe storie e certi componimenti
poetici riunendoli in uno o più libri, da cui sono escluse le altre storie e
gli altri componimenti. Storie e componimenti così identificati e conservati
sono il “fiore” (anthos) di quanto realizzato da una certa civiltà
(considerata esemplare), essi pertanto rientrano in una antologia. Si è di
solito trattato, almeno prima del Novecento, di operazioni che non esprimevano
il “gusto” o le idiosincrasie di un unico letterato, ma che ambivano a
rappresentare la collettività. Esse erano al contempo fortemente orientate,
ossia caratterizzate in senso ideologico o formale (ammesso che i due livelli
possano essere distinti). Ciò, per fare un solo esempio, è fondativo nella
storia della poesia italiana, le cui Origini duecentesche sono conservate da
tre soli manoscritti antologici (chiamati L, P e V) che esprimono chiaramente
posizioni differenti se non addirittura contrapposte, come è il caso del
“guittoniano” L e del “fiorentinocentrico” V.
Chiarito, dunque, il lavoro di mediazione e selezione
realizzato dall’antologia, è interessante osservare, con Doueihi, che oggi essa
è la «forma dominante di una nuova economia, un’economia dell’abbondanza». In
un tale sistema, i frammenti, altro che essere considerati come elementi di un
modello inattingibile nella sua interezza (ma che alludevano a una compiuta
integrità), «sono concepiti e formati per la circolazione e trasmissione in un
ambiente che valorizza una nuova maniera di leggere e di scrivere». L’enorme
disponibilità di testi, sembra dunque di capire, insieme alla loro
accessibilità e manipolabilità, fa sì che ogni fruitore divenga una sorta di
antologizzatore perpetuo, il quale “pesca” nel «gran mar de l’essere» digitale
ciò che più gli conviene o interessa per creare continuamente nuove
configurazioni. «La cultura digitale, nella sua dimensione antologica, inaugura
la rinascita del lettore», continua Doueihi, in conformità con lo statuto
ontologico del digitale, in base al quale anche le identità sono in continua
contrattazione e modificazione («la stessa identità [è] formata
dall’assemblaggio di “frammenti di personalità”»).
Torneremo più avanti su questo importante aspetto; non
prima però di aver notato che nel ragionamento dello studioso francese
l’antologia, da strumento della mediazione culturale, qual era in origine,
diviene strumento della mediazione soggettiva. È probabilmente una descrizione
efficace di quel senso di libertà e anche di ebrezza che si prova quando si
naviga in rete affiancando spezzoni di film a citazioni di libri rari e a
jingle pubblicitari della propria infanzia. Ma è una descrizione che elude un
elemento centrale per ogni cultura: secondo quali modelli di mondo il fruitore
della rete produce la propria antologia? Quali sono le grandi mediazioni
simboliche e formali che guidano, o almeno orientano la costruzione di identità
perennemente in progress?
3. Dall’invenzione all’impasto
Di un’antologia parla anche Kenenth Goldsmith in Uncreative
Writing (2011), saggio scritto a difesa di una scrittura non-creativa, cioè
scrittura fatta di prelievi, citazioni, riscritture, trascrizioni parola per
parola, reimpasti di testi già editi, letterari o anche non letterari.
Discutendo proprio del senso della appropriazione, l’autore ha presentato il
caso dell’antologia di poesia in lingua inglese intitolata Issue 1,
nelle cui 3.785 pagine tre anonimi scrittori hanno raccolto ben 3.164 autori.
L’impresa appare monumentale, tale da indurre a una riflessione sul senso di
una “antologia” così imponente, che quasi sembra non voler antologizzare
affatto, per invece presentare il catalogo, quasi il mero elenco dei poeti
attivi in una certa area e in un certo periodo. Ma l’operazione si rivela
ancora più provocatoria: agli autori sono infatti attribuiti testi che quegli
autori non hanno mai scritto e che in realtà sono il prodotto dell’aggregazione
casuale a opera di un computer. Realizzate le associazioni, i curatori hanno
composto Issue 1 in un file pdf e lo hanno distribuito attraverso la
Rete per un solo fine-settimana.
Da molti punti di vista il gesto dei tre anonimi
curatori potrebbe essere considerato uno scherzo più o meno riuscito. Se fosse
stato composto in Italia, tuttavia, Issue 1 sarebbe stato forse accolto
come uno sviluppo delle riflessioni della metà degli anni ’70 quando con
l’antologia Il pubblico della poesia Berardinelli e Cordelli (1975,
2004) posero il problema dello squilibrio tra alto numero di autori e basso
numero di lettori di poesia, sino a sostenere la tendenziale sovrapponibilità
delle due figure. Goldsmith sceglie invece di discuterne nel suo libro per
presentare un caso concreto di spostamento della comunicazione estetica «dal
contenuto al contesto»: non conta più la manifattura del testo, contano invece
le condizioni di esistenza del testo, la sua trasferibilità. Per usare i
termini di Roman Jakobson (1963), quel provocatorio pdf sposta la riflessione
letteraria dalla funzione poetica alla funzione fàtica, sottolineando come,
nell’era digitale, «non solo i testi vengono appropriati, ma [viene operata]
un’appropriazione di nomi e reputazioni [letterarie]» (Goldsmith 2011: 123).
Ben oltre le discussioni sulla morte dell’autore e sul significato culturale ed
estetico della attribuzione di autorità – questione decisiva nel campo della
storia dell’arte, che, dopo le riflessioni di Gianfranco Contini sul Fiore
«attribuibile» a Dante, è entrata a pieno titolo anche nella teoria letteraria
e nella pratica filologica –, lo “scherzo” giocato dai curatori di Issue 1
alle migliaia di poeti da loro convocati chiama in causa la stessa identità
dell’autore nell’epoca della distribuzione generalizzata e controllata.
Siamo passsati nell’epoca della riproducibilità
tecnica dell’opera d’arte e del suo autore, che è quanto sostiene Bauman (2009)
quando afferma che non viviamo più in una società di produttori, ma in una società
di consumatori. Ma è anche qualcosa in più, se è vero che la nostra società
sembra imporre un modello di consumatore che partecipa alla produzione (quel
che i sociologi americani chiamano prosumer), “consumando” anche il
piacere simbolico di produrre. È la propensione antologica di cui parla
Doueihi, è la generalizzazione globale delle funzioni cut e paste dei
programmi Microsoft: il taglia e incolla che monta e uniforma un insieme di
frammenti di testi precedenti producendo un nuovo testo.
Certo, si può osservare che anche così non andiamo
molto lontano dalle più tradizionali formule della composizione narrativa, se è
vero che già l’antica disciplina dell’inventio come arte del comporre il
discorso dettava le regole per il rinvenimento degli argomenti a partire dal
principio cardinale del ri-uso (Lausberg 1949 e Barthes 1970). E d’altra
parte, senza scomodare la barocca arte del «rampino» che nel Seicento il
cavalier Marino attribuiva a se stesso per esaltare la propria abilità nel
rubare parole e concetti agli altri poeti, basta ricordare la forma poetica del
centone, cioè quel componimento realizzato coi versi di uno o più autori
precedenti. Eppure questo buffo aneddoto mostra la peculiare condizione moderna
dell’autorità letteraria e in generale della attribuzione nel campo dell’arte.
Sebbene infatti il Novecento abbia presentato innumerevoli esempi di poesia
realizzata a partire da testi già esistenti o secondo tecniche meccaniche
semmai incentrate sulla casualità, il prodotto finale era abitualmente o un
testo cartaceo rilegato nella forma libro (destinata alla permanenza) oppure
una esecuzione dal vivo (destinata al consumo immediato). Nelle applicazioni
digitali del cutup e simili tecniche elaborate dalle avanguardie
novecentesche, il tradizionale ruolo attribuito alla figura dell’Autore, a
lungo considerata la più sicura forma di certificazione di valore estetico,
viene minacciato dallo più stretto rapporto tra produzione e distribuzione e
dalla nuova centralità attribuita al consumatore. Dalla invenzione, che
guidava la ricerca di un individuo nella produzione di un discorso pubblico
(politico, giudiziario o estetico che fosse), si passa all’impasto, che
è la libera attività di un fruitore, svincolato da regole e procedure
routinarie obbligatorie.
Beninteso, i testi continueranno a esistere; la
funzione estetica non si esaurirà mai nella pura manipolazione di materiali
pre-esistenti. Ma questa emergenza dell’impasto come libertà individuale, come
affermazione dell’io può essere considerata un aspetto importante del modello
culturale che si sta imponendo nella nostra civiltà attuale.
4. Enfasi dell’io
«You don’t make art; you find it» ha del resto
dichiarato David Shields nell’aforisma 341 di Reality Hunger (2010). O
meglio, è quel che ha affermato di Charles Simic in Dime-Store Alchemy. The
Art of Jospeh Cornell (1992) e che Shields ha copiato nel suo libro senza
dichiarare la fonte.[2] L’appropriazione e il plagio non sono infatti soltanto uno dei
temi principali del libro, ma le stesse tecniche di composizione.
L’argomentazione dell’autore è piuttosto interessante per il discorso che qui
sto proponendo. Egli sostiene infatti che dopo il grande passaggio dalla copia
unica (il manoscritto) alla moltiplicazione delle copie (la stampa
gutenberghiana), nel mondo odierno è avvenuto un ulteriore passaggio al «regime
di sovrabbondanza delle copie gratuite» (si pensi alle varie forme di download
più o meno illegale e di condivisione di file ampiamente praticate in ogni
ambiente e in ogni fascia di età). In un tale regime, la proprietà della copia
non costituisce la base di ricchezza, la quale è invece assicurata da
«relazioni, collegamenti, connessione e condivisione». L’arte contemporanea si
produce a partire da queste nuove condizioni, che sono le basi materiali della
realtà e della propria stessa realizzabilità. Poiché «Reality can’t be
copyrighted», e la realtà è l’esistenza delle copie libere, di conseguenza il
surplus di valore estetico sarà dato dai «modi in cui le copie comuni di
un’opera creativa possono essere collegate, manipolate, pubblicate [o
“taggate”], sottolineate, segnalate, tradotte, vivificate da altri media, e
cucite insieme nella biblioteca universale» (2010: 29-30).
L’evidente consentaneità con le tesi di Goldsmith
appare tanto più notevole quando si osserva la centralità della scrittura di
sé. Se Shields sostiene che i lettori sono sempre più affamati di realtà (da
cui il titolo del suo libro) e che pertanto tendono a staccarsi dalla finzione
romanzesca per aderire a forme di narrazione “non-finzionale” (nonfiction),
così che si rafforzano le forme letterarie derivanti dal Memoir (2010:
42), Goldsmith avverte che «la scrittura non-creativa consente un nuovo tipo di
scrittura di noi stessi: chiamiamola autobiografia obliqua» (2011: 188).
Entrambi enfatizzano inoltre la dinamicità del
processo, sebbene declinandone aspetti differenti, che possono forse fornirci
un ulteriore spunto di riflessione. Da un lato, Goldsmith (2011: 188-189)
sostiene che «con l’inventario del quotidiano [mundane]» si abbandona il
tradizionale approccio diaristico, «lasciando sufficiente spazio al lettore per
collegare i puntini e costruire narrazioni in tanti modi differenti».
Dall’altro, Shields – con aforismi perentori come «”Saggio” è un verbo, non un
semplice sostantivo; “saggiare” è un processo» o l’intraducibile «And I shall
essay to be» (“E io ‘saggerò’ di essere”; 2010: 131, 158) – torna indietro
verso le origini della forma-saggio come divagazione e processo sperimentate da
Michel de Montaigne, in particolare in quel De l’art de conferer, dove
il gentiluomo cinquecentesco dichiarava di osare «non seulement parler de moy,
mais parler seulement de moy; je fourvoye quand j’escry d’autre chose et me
desrobe à mon subject». Questo uscire fuori di pista, questo sviarsi dal vero
“soggetto”, continua Montaigne, non è dovuto a un eccessivo amor di sé o
all’incapacità di guardarsi dal di fuori. Dall’«avanture» della scrittura
scaturisce infine un ritratto poliprospettico, «in movimento» (Starobinski
1982), al tempo stesso «debout et couché, le devant et le derrière, à droite et
à gauche, et en tous mes naturels plis» (Montaigne 1962: 899-922).
Chi ragiona sulla letteratura a partire dalla rete
sembra valorizzare la dinamicità, e anzi la fluidità, coerentemente con il
sistema delle comunicazioni e dell’economia e mettendo in questione la
soggettività, la costituzione odierna di chi dice “io”. Anche dello statuto
narrativo del soggetto si è ampiamente discusso in passato, e qui forse basterà
alludere alla costruzione dell’Io nel setting psicoanalitico o alla riflessione
sul tempo nella psichiatria fenomenologica di Eugène Minkowski. Ma qui va
osservata la tendenza alla superfetazione del soggetto, che diviene il
fondamento della realtà. È interessante, a tal proposito, che Shields (2011:
99) riprenda il neologismo Realness che nel mondo musicale hip-hop
significa ciò che è “reale dal proprio punto di vista”) per contrapporlo a Reality:
se quest’ultimo termine indica «ciò che ti viene imposto», l’altro indica
invece «ciò che tu imponi come reazione» («what you impose back»). Dietro la
dialettica di azione e reazione (su cui Starobinski 1999) fa capolino la
meccanica del risentimento. Lo possiamo spiegare con un ragionamento di Slavoj
Žiżek (1997: 191):
In quanto l’apparato della Realtà Virtuale (vr) è
potenzialmente in grado di generare l’esperienza della “vera” realtà, la vr
mina la differenza tra “vera” realtà e apparenza. Questa “perdita di realtà si
verifica non solo nella vr generata al computer, ma, a un livello più
elementare, già con il crescente iperrealismo delle immagini con cui i media ci
bombardano [...] il campo visivo viene ridotto a una superficie piatta e la
stessa “realtà” viene percepita come un’allucinazione visiva.
Altro che “fame di realtà”, dunque, l’attitudine
all’impasto, lo scambio indifferenziato di elementi tratti dalla Rete e
nuovamente immessi in Rete, le identità fluide e composite sono tutti fenomeni
riassumibili nella formula – individuata dallo stesso Žiżek – di “epidemia
dell’immaginario” (inteso nel senso di Jacques Lacan).
5. La natura instabile dei corpi
Da quanto abbiamo visto sin qui, tecnica dell’impasto
e costruzione enfatica dell’io appaiono due elementi centrali nella tipologia
culturale odierna. Affianco a questi troviamo: la rilevanza di un’immagine
“globale”, cioè planetaria e inclusiva, dei prodotti culturali, nonché la loro
abbondanza e accessibilità.[3] Alla
priorità della distribuzione sulla produzione corrisponde inoltre
l’accentuazione di un ruolo attivo del fruitore (o consumatore), il quale è
indotto dallo stesso sistema delle comunicazioni (cioè della distribuzione) a
farsi co-produttore (prosumer) del prodotto culturale. Sottesa a tutte
queste dimensioni è l’arci-metafora della Rete, coi presupposti di connectivness
e di costante accessibilità del fruitore che vi sono impliciti. Ma la Rete è a
sua volta un nome (una metafora o un sistema metaforico) dello sviluppo
tecnologico attuale, che è basato sulla comune riduzione a immagine (fissa o in
movimento, comunque riprodotta e riproducibile) di ogni aspetto della realtà,
da quella fisica del mondo esterno (i corpi e gli spazi) a quelle instabile e
immateriali della emozionalità e della conoscenza. Queste immagini sono a tal
punto equivalenti che possono essere scambiate, montate, associate e variamente
connesse indipendentemente dallo statuto di realtà che corrisponde al loro
referente.
È a partire da questo livello che si deve procedere, a
mio avviso, per una descrizione del modello culturale oggi vigente, al cui
centro – sembra di poter affermare – vi è l’incertezza sulla consistenza
ontologica dei fenomeni, la loro riduzione a immagine e la loro riproducibilità
illimitata. Un esempio piuttosto impressionante di questo ultimo e davvero
fondamentale aspetto lo troviamo, in conclusione nel modo in cui la grande
fantasia paranoica proposta da Philip Dick nel romanzo A Scanner Darkly (“Un
oscuro scrutare”: 1977; cfr. Frasca 1996 e Frasca 2007) è stata ritrascritta
nell’omonimo film (2006) di Richard Linklater, in cui le scene, girate con
attori in carne e ossa, sono poi state sottoposte a un trattamento di
animazione elettronica. Come André Bazin (1958-62) aveva evidenziato per tempo
ragionando sullo statuto ontologico connesso al dispositivo cinematografico,
appare inevitabile che il mondo della universale riproducibilità tecnica ponga
al centro della propria modellizzazione culturale l’arcano della natura
instabile dei corpi.
Riferimenti bibliografici
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1999
Žiżek 1997: Slavoj Žiżek, L’epidemia dell’immaginario,
trad. it. Roma, Meltemi, 2004
[1] Credo
che resti utile utilizzare questa coppia concettuale, anche se forse occorre oggi
farlo accettando che i termini abbiano un certo alone metaforico: centro e
periferia non individuano spazi geograficamente circoscritti e riconoscibili.
[2] In
verità, l’autore avrebbe voluto cancellare ogni traccia dell’appropriazione, ma
gli avvocati del gruppo editoriale Random House gli hanno imposto una lista
finale con l’indicazione, spesso abbreviata o manchevole, delle fonti (cfr.
Shields 2010: 209-219).
[3] Se
tutto è inclusivo, può ancora valere l’opposizione fondamentale IN vs ES
che Lotman e Uspensky dimostrarono fondamentale in ogni organizzazione
culturale? Che cosa sarà ES? In che modo quel che è accolto nel modello
generale tornerà a essere allontanato nel modello parziale? È probabile che il
“narcisismo delle piccole differenze” e la conseguente meccanica delle
esclusioni reciproche sia la trascrizione culturale (e politica) della pretesa
(ideologica) del sistema economico di annettere e includere ogni cosa al
proprio interno.