30 settembre 2013

CHE COSA E' LA LETTERATURA?

Pablo Rey


Ci si è chiesti tante volte “ Che cos’è la letteratura?”. Ricordo che Jean Paul Sartre, che  era anche un  brillante scrittore oltre che un acuto filosofo, scrisse un saggio su questo tema. Anche per questo mi pare interessante riproporre oggi un pezzo, apparso su uno dei migliori siti letterari che conosco http://www.leparoleelecose.it/?p=12220  , che rilancia l’antica domanda:

Sul futuro della letteratura /1. Giancarlo Alfano

1 ottobre 2013 Pubblicato da Emanuele Zinato 

[Ho chiesto ad alcuni critici di scrivere un saggio sul futuro della letteratura. L’inchiesta è nata dalla convinzione che, nell’ultimo decennio, ci si è interrogati fin troppo sulla critica, sulla sua crisi e sulla sua funzione, e troppo poco su quel vuoto che chiamiamo “letteratura”. Le nove domande o sollecitazioni che seguono, dunque, vertono tutte sulla necessità di fare il punto sulla definizione della letteratura, sui suoi confini, sui nessi con la realtà, nella convinzione che esista un rapporto fra l’opera e una parte di mondo che sta fuori di essa, ma che su tale rapporto si sia rinunciato a discutere.
Non si conosce senza distinguere e senza definire. Immaginiamo che uno studente di lettere abbia bisogno di dare risposte al suo compagno di medicina o di ingegneria che gli chiede, un po’ beffardamente, di cosa si sta occupando. Immaginiamo che un lettore, girovagando nelle librerie, chieda conto delle distinzioni a cui alludono gli scaffali: “letteratura” da “romanzi”, fiction da non fiction. E’ ancora possibile, oggi, tentare di rispondere alla domanda sartriana “che cos’è la letteratura”? E’ possibile definire inoltre una deontologia della ricerca letteraria? Genette suggerì, negli anni d’oro della teoria e della critica, di distinguere fra due regimi letterari: uno costitutivo, chiuso, garantito dalla convenzione, l’altro condizionale, aperto. Come si sa, i confini del letterario variano da epoca a epoca: oggi a esempio il termine sembra aver perso tutta la sua specificità. Nelle università, gli indirizzi dei Cultural Studies non distinguono la letteratura dagli altri documenti culturali. L’inchiesta parte da alcune domande o riflessioni:
I. Sembra che oggi la narrazione, tradizionalmente ritenuta un elemento dell’esperienza letteraria, non abbia mai goduto un così ampio successo. Viviamo avvolti in una narratività diffusa, che in epoca digitale contraddistingue aree assai forti, tradizionalmente considerate extranarrative, come il marketing e la politica. Che effetto ha sul romanzo questa narrazione espansa? E’ per questa ragione extraletteraria che il concetto di letteratura si è andato trasformando in altri, più generici concetti (l’immaginario, la comunicazione, il discorso)?
II. Per una sorta di paradosso, mentre la letteratura ha perso la tradizionale posizione di prestigio goduta nel sistema culturale e formativo, cresce l’interesse per le modalità della letteratura da parte di studiosi di altre discipline: gli scienziati ricorrono alle potenzialità euristiche della retorica, gli storici narrativizzano le loro ricostruzioni, i medici usano il concetto di double coding, introducendo nella pratica medica componenti dell’immaginario psicosociale, gli studiosi del diritto in base al binomio Law and Literature si rivolgono alla dimensione retorica e letteraria del linguaggio legale o ricostruiscono i casi giudiziari in base alla narratologia, i geografi utilizzano la percezione dello spazio nelle opere letterarie per le loro mappe cognitive e sensoriali. Questo fenomeno di migrazione della letterarietà fuori dai suoi confini ne ribadisce paradossalmente la tenace persistenza oppure è parte di una complessiva costipazione dell’immaginario ?
III. L’istruzione superiore allo sbando, le pagine culturali dei quotidiani infarcite di gossip, la narrativa arrancante dietro ai fumetti e al cinema di intrattenimento: il tutto sotto l’imperio delle televisioni. Sul destino della cultura, si sono affrontati, nello scenario degli ultimi vent’anni di spettacolo e di intrattenimento, i due vecchi duellanti in maschera evocati da Eco: apocalittici e integrati. Da un lato l’allarme di chi ha visto inverarsi le profezie orwelliane, dall’altro l’entusiasmo di coloro i quali hanno inneggiato alla democraticità del nuovo orizzonte. La letteratura è davvero in pericolo? Vi sono fattori che la precipitano verso una "fine"? (Todorov) E’ possibile o necessaria una riflessione sul rapporto tra i linguaggi letterari e le modificazioni radicali che si sono avute nell'universo della politica, dell'ideologia, della comunicazione, della tecnologia, sullo scorcio finale del Novecento e all'inizio del XXI secolo? E’ ancora plausibile opporre passione e responsabilità al dominio cieco del mercato e della pubblicità?
IV. Spesso si sente parlare, a proposito della nostra letteratura, di vuoto di realtà e di distanza dalle cose. Per gli italiani, la letteratura è stata uno dei pilastri dell’identità nazionale. Anche di recente, si è misurata tuttavia la distanza della nostra letteratura dalle cose proprio a partire dal suo precoce fissarsi nella norma toscana, dall’aver costretto i propri narratori e poeti a esprimersi in una lingua acquisita solo sui libri. Il prezzo pagato per questa scelta da un paese che spicca proprio per la ricchezza e la varietà delle sue culture è stato forse la perdita delle esperienze più vive. Di lì nasce la scarsa leggibilità e la scarsa popolarità dei classici italiani? La nostra letteratura è stata autoreferenziale perché scritta in quell’astratto esperanto che è stato il toscano letterario? Ha davvero eluso le drammatiche vicende della nostra storia? Oppure le ha paradossalmente affrontate grazie alla sua specifica “lingua morta” (Fortini)?
V. Quale peso ha, nell’esperienza letteraria, lo scenario della globalizzazione e delle grandi migrazioni? Soprattutto dagli Stati Uniti si è diffusa l’esigenza di rivedere il canone letterario. In Inghilterra il canone viene stilato partendo dal criterio dei sillabi, elenchi di opere di cui alcune obbligatorie e altre che gli insegnanti debbono scegliere da una lista trasmessa a livello governativo. Quali sono i nostri syllabi? Quale il nostro canone? Che peso ha su di essi la condizione postcoloniale e l’arrivo, non solo fra i lettori ma anche fra gli scrittori, dei nuovi migranti?
VI. Per la definizione del campo letterario, tornano oggi a far capolino termini-chiave che sembravano del tutto fuori gioco: a esempio realtà, impegno, stile. I narratori degli anni Zero sembrano muoversi di prefenza fra autofinzione e reportage, per dar vita a inchieste o testimonianze sui mali del presente. Pasolini tuttavia come si sa intitolò un suo celeberrimo articolo Romanzo delle stragi: già lì, molto prima del “caso Saviano”, pezzi di realtà erano connessi fra loro, o rielaborati come le fantasie infantili famigliari secondo Freud, da segmenti d’invenzione. E’ plausibile oggi una letteratura impegnata oppure la letteratura è sempre impolitica? E se esiste una modalità dell’impegno, magari per frammenti (cfr. Postmodern impegno. Ethics and Commitment in Contemporary Italian Cuture, a c. di P. Antonello e F. Mussgnug, Peter Lang, 2009) questo tende di necessità al basso grado di figuralità, alla vigilanza su invenzione e stile?
VII. Il provincialismo e la debolezza della letteratura italiana rispetto ad altre letterature dell’Occidente, da molti segnalato negli anni Novanta, continua anche negli anni Zero? Vi sono controtendenze? Ciò che manca oggi ai romanzi italiani è ancora la lingua, materia prima della vera opera d'arte, a dispetto e contro ogni serialità e riproducibilità?
VIII. Negli anni Zero ciò che chiamiamo postmodernismo si arricchisce (ma anche si complica) con l’uso letterario della rete. Fioriscono riviste e blog letterari frequentati assai più largamente rispetto alle tradizionali riviste: Carmilla, Nazione Indiana, Vibrisse, Minimaetmoralia, Punto Critico, Doppiozero, Le parole e le cose… Il web 2.0 può essere una risorsa per la letteratura e per la critica? (ez)]

Ciò di cui siamo fatti. Per una descrizione del nostro modello di mondo
0. Premessa
Ammesso pure che qualcuno possa farlo, non credo che la previsione del futuro sia tra le responsabilità dello studioso. Tanto meno quando il futuro riguarda l’arte, che spesso procede per salti improvvisi o comunque per discontinuità, ridefinendo il patrimonio culturale e formale da cui proviene e al quale però, fatalmente, ritorna. Lo studioso può tuttavia provare a descrivere il presente, cogliendone i cardini strutturali e insomma descrivendo quello che, con Jury Lotman (1975, 1985), potremmo chiamare il “modello di mondo” nel quale viviamo. Nelle pagine che seguono mi sono avvalso di alcuni libri molto recenti accomunati dalla forma del “manifesto” e della dichiarazione programmatica per provare a definire i primi elementi utili per una descrizione di questo tipo.

1. Il paradosso del canone
Quanto è successo nell’ultimo decennio del secolo XX potrebbe essere descritto come un paradosso: la riflessione letteraria contemporanea si è concentrata sul concetto di canone proprio nel momento in cui stava diventando impossibile procedere alla definizione di un canone valido per la conteporaneità. In verità non era un paradosso, ma l’effetto di una nuova condizione culturale: poiché la contemporaneità stava rendendo tendenzialmente impossibile stabilire un canone, la discussione si appuntava su questa improvvisa e inattesa impossibilità.
Si è tentato a più riprese di individuare le ragioni di un tale profondo cambiamento, ed è probabile che le spiegazioni più lucide siano quelle che hanno ravvisato l’origine della nostra attuale condizione: 1) nell’allargamento a dimensioni planetarie della discussione estetica; 2) nella generalizzazione delle medesime regole al complessivo mercato letterario mondiale; 3) nella progressiva attestazione delle nuove forme di comunicazione.
Ci saranno senza dubbio ulteriori concause. È però utile riflettere in breve sulle tre fomule che ho appena utilizzato. La prima riguarda la questione sollevata, soprattutto in ambito statunitense, sulla necessità di allargare lo sguardo al di là dei tradizionali confini europei, in particolare verso le tradizioni indiana, estremo-orientale, sudamericana e africana. Ne è sorta l’ampia discussione collegata ai cosiddetti studi post-coloniali, i cui esiti sono stati spesso di grande rilevanza concettuale e dei quali non è in nessun caso legittimo liberarsi con una semplice scrollata di spalle. Chi lavora dalla prospettiva centro-mediterranea, come succede inevitabilmente in Italia, non può infatti ignorare l’efficace avvertimento di Edward Said: «nessuno di noi è al di fuori o al di qua della geografia, nessuno di noi si può astrarre completamente dalla lotta sulla geografia» (1993: 107). E tuttavia è interessante notare che la gran parte del dibattito si è incentrata sul punto di vista del lettore, innanzitutto del lettore specializzato: da qui la questione dei canone e la polemica contro la centralità della tradizione europea. Quando ci si è occupati di autori, si è provveduto semmai a ricostruire forme e temi del loro modo di raccontare l’altro (l’Oriente, l’Esotico, il Nativo) e, di conseguenza, della relazione tra le loro opere e il modello culturale cui appartenevano. Non ha avuto invece altrettanta rilevanza il tentativo di una riflessione estetica complessiva che riguardasse lo statuto del letterario, nemmeno all’interno del pur rilevantissimo dibattito sulla traduzione (per tutti questi problemi cfr. l’efficace presentazione di Benvenuti – Ceserani 2012).
La seconda formula che ho utilizzato porta invece a riflettere su tre aspetti differenti ma profondamente intrecciati. Il primo riguarda il sistema produttivo, ossia l’industria letteraria. La globalizzazione significa infatti: possibilità di dislocare la produzione dove è più conveniente (rispetto alle regole imposte al mercato del lavoro) e capacità di distribuire i prodotti su scala globale (semmai in condizioni di oligopolio). Quel che accade con le vetture automobilistiche, con le calze di nylon o con le attrezzature sportive, accade anche con le opere letterarie, che entrano in un agone aperto ai prodotti provenienti dalle più diverse aree culturali. Certo, per quanto tutte le merci siano inserite nella medesima routine di produzione e distribuzione, occorre ricordare che il prodotto artistico conserva un surplus per così dire non monetizzabile, che consiste nella sua efficacia estetica, nel piacere che offre. E tuttavia la riflessione sociologica di Pierre Bourdieu, da una parte, e le ricerche dell’antropologia, dall’altra, ci hanno insegnato che questa efficacia e questo piacere interagiscono con altri aspetti del consumo culturale, quali per esempio le variazioni del gusto e le gerarchie di valore. Sorge qui la rilevanza del secondo aspetto: il ruolo dei critici, cui nel corso dei secoli il mondo occidentale ha attribuito la responsabilità della selezione proprio in base a criteri di gusto e a gerarchie di valore. In un sistema di generalizzazione delle medesime regole appare evidente che questo ruolo debba perdere di rilievo: non sono i critici a stabilire i criteri, non sono loro a creare gerarchie. Il mercato si governa da sé, come nel più classico sogno del liberismo economico. Ed ecco il terzo aspetto, che riguarda gli autori e le loro decisioni estetiche. In un “mercato globale”, definito nel modo che ho appena chiarito, è piuttosto evidente che gli autori abbiano finalmente la possibilità di accedere al “centro” pur provenendo dalle periferie. Ma l’accesso al centro è possibile a patto di entrare nella catena distributiva, il che implica la necessità di accettare un alto livello di traducibilità interlinguistica e interculturale.[1]
Passo infine alla terza formula, riguardante le nuove forme della comunicazione odierna, e cioè il cosiddetto web 2.0, che consente l’interattività di ogni fruitore col sistema complessivo. Il dibattito intorno alla democrazia della rete è stato ed è tuttora molto ampio. Per semplicità, mi pare si possa dire che in esso non si contrappongono (più) apocalittici e integrati, ma si confrontano coloro che vedono nella comunicazione digitale un potenziamento delle possibilità di espressione individuale, un aumento della somma di conoscenze disponibili gratuitamente e una partecipazione diretta alla creazione di conoscenza e coloro che, pur constatando gli indubbi vantaggi del sistema odierno, osservano come l’aumentata possibilità di esprimersi abbia reso meno importante il confronto con gli altri testi (semmai pure presenti in rete), come l’aumento delle conoscenze a disposizione divenga puro stoccaggio di materiali, indipendentemente dal loro “consumo” effettivo, come, infine, la partecipazione alla creazione di conoscenza non avvenga in un clima di libera concorrenza proprio per il fatto che chiunque può parteciparvi, facendo, di conseguenza, aumentare gli elementi di disturbo all’interno del sistema.
Qualunque dei due partiti si scelga, la questione è decisiva perché in ogni caso è evidente che il “mercato globale” è costituito anche dal web, e che anzi il sistema delle comunicazioni digitali sia al tempo stesso un importante luogo delle transazioni economiche e una delle principali arene in cui si organizza il consenso, si producono i “valori” estetici, si determina il “gusto” prevalente.
Ed eccoci così tornati alla discussione sul canone e al finto paradosso di partenza. Discutere di un corpus di opere che sia sentito fondamentale per la propria identità culturale e modellizzante per i propri atteggiamenti emotivi, cognitivi ed estetici significa anche oggi quel che ha sempre significato: ragionare sulle forme di organizzazione del potere e sui modi della mediazione simbolica. Mi pare in tal senso significativo che in un suo recente (2007: 151) contributo intitolato Quanto vale e quanto dura un canone? Cesare Segre abbia spiegato che nella nostra «epoca di multimedialità» le frontiere tradizionali tra i «“generi” artistici» cadono, perché i loro «elementi costitutivi» si scambiano l’un l’altro «in un continuo movimento magmatico». L’illustre critico ne ha dedotto che «non essendo più alla testa delle cose letterarie autori o istituzioni culturali questi movimenti saranno governati soltanto da un’imprenditoria anonima», fatto tanto più preoccupante per la ragione che «nessuno ha mai reclamato la proprietà collettiva dei mezzi di comunicazione, come si faceva una volta per la proprietà dei mezzi di produzione».
2. Farsi antologia
L’ispirazione marxiana della conclusione di Segre mostra quanto sia importante nell’ambito estetico-letterario il rapporto tra i tre termini che abbiamo descritto in precedenza: mercato (che oggi equivale al sistema di produzione), funzione critica e funzione d’autore. Se con quest’ultima dobbiamo intendere qualcosa a metà tra il “marchio” impresso sul prodotto dal suo produttore e la autorizzazione che l’addetto alla produzione riceve dal sistema in cui è immerso, è evidente che il mercato finisce con l’essere il luogo effettivo di produzione di quella funzione, giacché è lì che si patteggia l’immagine dell’autore, l’autorizzazione di uno scrivente a diventare scrittore. I lettori, del resto, agiscono in quell’agone (nel mercato), così che l’altra funzione, quella critica, mano a mano che si sviluppa sempre più al di fuori dei canali tradizionali ed è praticata da un numero crescente di addetti, appare sempre meno “indipendente” dal sistema del mercato.
Certo è vero che la produzione intellettuale è sempre stata in relazione diretta con il sistema della produzione e quindi con il potere. Ma ciò accadeva in quanto realizzava un esercizio di mediazione tra “autore” e “pubblico” fondamentale per il funzionamento stesso del mercato. Oggi non è più così. O meglio, oggi è il mercato ad avere assunto in proprio la funzione di mediazione, giacché chi controlla i mezzi di produzione controlla anche i mezzi di distribuzione, ossia – per riprendere ancora l’osservazione di Segre – i mezzi di comunicazione. Lo mostra l’esistenza dei supporti di lettura elettronica, da Kindle all’Ipad, attraverso i quali le grandi catene di produzione condizionano la possibilità stessa di fruizione, inverando così quella Editoria senza editori di cui ha parlato André Schriffin (1999).
In un recente libro, Milad Doueihi si è espresso a favore di un umanesimo digitale. Nel suo saggio, che s’intitola Pour un humanisme numérique, l’autore fa osservare una serie importante di meccanismi, propri della rete e dei cosiddetti social network, che andrebbero nella direzione di un potenziamento del contatto e del riconoscimento reciproci, creando forme dell’amicizia che, pur nuovissime, potrebbero essere considerate come una sorta di sviluppo odierno del De amicitia ciceroniano. La presentazione, non priva di ardore apostolico, di alcuni fenomeni fa riflettere.
Tra i vari spunti m’interessa qui mettere in rilievo quanto Doueihi (2011: 105-138) osserva a proposito della «culture anthologique» prodotta dalla rete. Lo strumento dell’antologia è storicamente collegato in maniera intrinseca con l’identificazione del canone: la creazione di un canone implica infatti la scelta di conservare certe storie e certi componimenti poetici riunendoli in uno o più libri, da cui sono escluse le altre storie e gli altri componimenti. Storie e componimenti così identificati e conservati sono il “fiore” (anthos) di quanto realizzato da una certa civiltà (considerata esemplare), essi pertanto rientrano in una antologia. Si è di solito trattato, almeno prima del Novecento, di operazioni che non esprimevano il “gusto” o le idiosincrasie di un unico letterato, ma che ambivano a rappresentare la collettività. Esse erano al contempo fortemente orientate, ossia caratterizzate in senso ideologico o formale (ammesso che i due livelli possano essere distinti). Ciò, per fare un solo esempio, è fondativo nella storia della poesia italiana, le cui Origini duecentesche sono conservate da tre soli manoscritti antologici (chiamati L, P e V) che esprimono chiaramente posizioni differenti se non addirittura contrapposte, come è il caso del “guittoniano” L e del “fiorentinocentrico” V.
Chiarito, dunque, il lavoro di mediazione e selezione realizzato dall’antologia, è interessante osservare, con Doueihi, che oggi essa è la «forma dominante di una nuova economia, un’economia dell’abbondanza». In un tale sistema, i frammenti, altro che essere considerati come elementi di un modello inattingibile nella sua interezza (ma che alludevano a una compiuta integrità), «sono concepiti e formati per la circolazione e trasmissione in un ambiente che valorizza una nuova maniera di leggere e di scrivere». L’enorme disponibilità di testi, sembra dunque di capire, insieme alla loro accessibilità e manipolabilità, fa sì che ogni fruitore divenga una sorta di antologizzatore perpetuo, il quale “pesca” nel «gran mar de l’essere» digitale ciò che più gli conviene o interessa per creare continuamente nuove configurazioni. «La cultura digitale, nella sua dimensione antologica, inaugura la rinascita del lettore», continua Doueihi, in conformità con lo statuto ontologico del digitale, in base al quale anche le identità sono in continua contrattazione e modificazione («la stessa identità [è] formata dall’assemblaggio di “frammenti di personalità”»).
Torneremo più avanti su questo importante aspetto; non prima però di aver notato che nel ragionamento dello studioso francese l’antologia, da strumento della mediazione culturale, qual era in origine, diviene strumento della mediazione soggettiva. È probabilmente una descrizione efficace di quel senso di libertà e anche di ebrezza che si prova quando si naviga in rete affiancando spezzoni di film a citazioni di libri rari e a jingle pubblicitari della propria infanzia. Ma è una descrizione che elude un elemento centrale per ogni cultura: secondo quali modelli di mondo il fruitore della rete produce la propria antologia? Quali sono le grandi mediazioni simboliche e formali che guidano, o almeno orientano la costruzione di identità perennemente in progress?
3. Dall’invenzione all’impasto
Di un’antologia parla anche Kenenth Goldsmith in Uncreative Writing (2011), saggio scritto a difesa di una scrittura non-creativa, cioè scrittura fatta di prelievi, citazioni, riscritture, trascrizioni parola per parola, reimpasti di testi già editi, letterari o anche non letterari. Discutendo proprio del senso della appropriazione, l’autore ha presentato il caso dell’antologia di poesia in lingua inglese intitolata Issue 1, nelle cui 3.785 pagine tre anonimi scrittori hanno raccolto ben 3.164 autori. L’impresa appare monumentale, tale da indurre a una riflessione sul senso di una “antologia” così imponente, che quasi sembra non voler antologizzare affatto, per invece presentare il catalogo, quasi il mero elenco dei poeti attivi in una certa area e in un certo periodo. Ma l’operazione si rivela ancora più provocatoria: agli autori sono infatti attribuiti testi che quegli autori non hanno mai scritto e che in realtà sono il prodotto dell’aggregazione casuale a opera di un computer. Realizzate le associazioni, i curatori hanno composto Issue 1 in un file pdf e lo hanno distribuito attraverso la Rete per un solo fine-settimana.
Da molti punti di vista il gesto dei tre anonimi curatori potrebbe essere considerato uno scherzo più o meno riuscito. Se fosse stato composto in Italia, tuttavia, Issue 1 sarebbe stato forse accolto come uno sviluppo delle riflessioni della metà degli anni ’70 quando con l’antologia Il pubblico della poesia Berardinelli e Cordelli (1975, 2004) posero il problema dello squilibrio tra alto numero di autori e basso numero di lettori di poesia, sino a sostenere la tendenziale sovrapponibilità delle due figure. Goldsmith sceglie invece di discuterne nel suo libro per presentare un caso concreto di spostamento della comunicazione estetica «dal contenuto al contesto»: non conta più la manifattura del testo, contano invece le condizioni di esistenza del testo, la sua trasferibilità. Per usare i termini di Roman Jakobson (1963), quel provocatorio pdf sposta la riflessione letteraria dalla funzione poetica alla funzione fàtica, sottolineando come, nell’era digitale, «non solo i testi vengono appropriati, ma [viene operata] un’appropriazione di nomi e reputazioni [letterarie]» (Goldsmith 2011: 123). Ben oltre le discussioni sulla morte dell’autore e sul significato culturale ed estetico della attribuzione di autorità – questione decisiva nel campo della storia dell’arte, che, dopo le riflessioni di Gianfranco Contini sul Fiore «attribuibile» a Dante, è entrata a pieno titolo anche nella teoria letteraria e nella pratica filologica –, lo “scherzo” giocato dai curatori di Issue 1 alle migliaia di poeti da loro convocati chiama in causa la stessa identità dell’autore nell’epoca della distribuzione generalizzata e controllata.
Siamo passsati nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte e del suo autore, che è quanto sostiene Bauman (2009) quando afferma che non viviamo più in una società di produttori, ma in una società di consumatori. Ma è anche qualcosa in più, se è vero che la nostra società sembra imporre un modello di consumatore che partecipa alla produzione (quel che i sociologi americani chiamano prosumer), “consumando” anche il piacere simbolico di produrre. È la propensione antologica di cui parla Doueihi, è la generalizzazione globale delle funzioni cut e paste dei programmi Microsoft: il taglia e incolla che monta e uniforma un insieme di frammenti di testi precedenti producendo un nuovo testo.
Certo, si può osservare che anche così non andiamo molto lontano dalle più tradizionali formule della composizione narrativa, se è vero che già l’antica disciplina dell’inventio come arte del comporre il discorso dettava le regole per il rinvenimento degli argomenti a partire dal principio cardinale del ri-uso (Lausberg 1949 e Barthes 1970). E d’altra parte, senza scomodare la barocca arte del «rampino» che nel Seicento il cavalier Marino attribuiva a se stesso per esaltare la propria abilità nel rubare parole e concetti agli altri poeti, basta ricordare la forma poetica del centone, cioè quel componimento realizzato coi versi di uno o più autori precedenti. Eppure questo buffo aneddoto mostra la peculiare condizione moderna dell’autorità letteraria e in generale della attribuzione nel campo dell’arte. Sebbene infatti il Novecento abbia presentato innumerevoli esempi di poesia realizzata a partire da testi già esistenti o secondo tecniche meccaniche semmai incentrate sulla casualità, il prodotto finale era abitualmente o un testo cartaceo rilegato nella forma libro (destinata alla permanenza) oppure una esecuzione dal vivo (destinata al consumo immediato). Nelle applicazioni digitali del cutup e simili tecniche elaborate dalle avanguardie novecentesche, il tradizionale ruolo attribuito alla figura dell’Autore, a lungo considerata la più sicura forma di certificazione di valore estetico, viene minacciato dallo più stretto rapporto tra produzione e distribuzione e dalla nuova centralità attribuita al consumatore. Dalla invenzione, che guidava la ricerca di un individuo nella produzione di un discorso pubblico (politico, giudiziario o estetico che fosse), si passa all’impasto, che è la libera attività di un fruitore, svincolato da regole e procedure routinarie obbligatorie.
Beninteso, i testi continueranno a esistere; la funzione estetica non si esaurirà mai nella pura manipolazione di materiali pre-esistenti. Ma questa emergenza dell’impasto come libertà individuale, come affermazione dell’io può essere considerata un aspetto importante del modello culturale che si sta imponendo nella nostra civiltà attuale.
4. Enfasi dell’io
«You don’t make art; you find it» ha del resto dichiarato David Shields nell’aforisma 341 di Reality Hunger (2010). O meglio, è quel che ha affermato di Charles Simic in Dime-Store Alchemy. The Art of Jospeh Cornell (1992) e che Shields ha copiato nel suo libro senza dichiarare la fonte.[2] L’appropriazione e il plagio non sono infatti soltanto uno dei temi principali del libro, ma le stesse tecniche di composizione. L’argomentazione dell’autore è piuttosto interessante per il discorso che qui sto proponendo. Egli sostiene infatti che dopo il grande passaggio dalla copia unica (il manoscritto) alla moltiplicazione delle copie (la stampa gutenberghiana), nel mondo odierno è avvenuto un ulteriore passaggio al «regime di sovrabbondanza delle copie gratuite» (si pensi alle varie forme di download più o meno illegale e di condivisione di file ampiamente praticate in ogni ambiente e in ogni fascia di età). In un tale regime, la proprietà della copia non costituisce la base di ricchezza, la quale è invece assicurata da «relazioni, collegamenti, connessione e condivisione». L’arte contemporanea si produce a partire da queste nuove condizioni, che sono le basi materiali della realtà e della propria stessa realizzabilità. Poiché «Reality can’t be copyrighted», e la realtà è l’esistenza delle copie libere, di conseguenza il surplus di valore estetico sarà dato dai «modi in cui le copie comuni di un’opera creativa possono essere collegate, manipolate, pubblicate [o “taggate”], sottolineate, segnalate, tradotte, vivificate da altri media, e cucite insieme nella biblioteca universale» (2010: 29-30).
L’evidente consentaneità con le tesi di Goldsmith appare tanto più notevole quando si osserva la centralità della scrittura di sé. Se Shields sostiene che i lettori sono sempre più affamati di realtà (da cui il titolo del suo libro) e che pertanto tendono a staccarsi dalla finzione romanzesca per aderire a forme di narrazione “non-finzionale” (nonfiction), così che si rafforzano le forme letterarie derivanti dal Memoir (2010: 42), Goldsmith avverte che «la scrittura non-creativa consente un nuovo tipo di scrittura di noi stessi: chiamiamola autobiografia obliqua» (2011: 188).
Entrambi enfatizzano inoltre la dinamicità del processo, sebbene declinandone aspetti differenti, che possono forse fornirci un ulteriore spunto di riflessione. Da un lato, Goldsmith (2011: 188-189) sostiene che «con l’inventario del quotidiano [mundane]» si abbandona il tradizionale approccio diaristico, «lasciando sufficiente spazio al lettore per collegare i puntini e costruire narrazioni in tanti modi differenti». Dall’altro, Shields – con aforismi perentori come «”Saggio” è un verbo, non un semplice sostantivo; “saggiare” è un processo» o l’intraducibile «And I shall essay to be» (“E io ‘saggerò’ di essere”; 2010: 131, 158) – torna indietro verso le origini della forma-saggio come divagazione e processo sperimentate da Michel de Montaigne, in particolare in quel De l’art de conferer, dove il gentiluomo cinquecentesco dichiarava di osare «non seulement parler de moy, mais parler seulement de moy; je fourvoye quand j’escry d’autre chose et me desrobe à mon subject». Questo uscire fuori di pista, questo sviarsi dal vero “soggetto”, continua Montaigne, non è dovuto a un eccessivo amor di sé o all’incapacità di guardarsi dal di fuori. Dall’«avanture» della scrittura scaturisce infine un ritratto poliprospettico, «in movimento» (Starobinski 1982), al tempo stesso «debout et couché, le devant et le derrière, à droite et à gauche, et en tous mes naturels plis» (Montaigne 1962: 899-922).
Chi ragiona sulla letteratura a partire dalla rete sembra valorizzare la dinamicità, e anzi la fluidità, coerentemente con il sistema delle comunicazioni e dell’economia e mettendo in questione la soggettività, la costituzione odierna di chi dice “io”. Anche dello statuto narrativo del soggetto si è ampiamente discusso in passato, e qui forse basterà alludere alla costruzione dell’Io nel setting psicoanalitico o alla riflessione sul tempo nella psichiatria fenomenologica di Eugène Minkowski. Ma qui va osservata la tendenza alla superfetazione del soggetto, che diviene il fondamento della realtà. È interessante, a tal proposito, che Shields (2011: 99) riprenda il neologismo Realness che nel mondo musicale hip-hop significa ciò che è “reale dal proprio punto di vista”) per contrapporlo a Reality: se quest’ultimo termine indica «ciò che ti viene imposto», l’altro indica invece «ciò che tu imponi come reazione» («what you impose back»). Dietro la dialettica di azione e reazione (su cui Starobinski 1999) fa capolino la meccanica del risentimento. Lo possiamo spiegare con un ragionamento di Slavoj Žiżek (1997: 191):
In quanto l’apparato della Realtà Virtuale (vr) è potenzialmente in grado di generare l’esperienza della “vera” realtà, la vr mina la differenza tra “vera” realtà e apparenza. Questa “perdita di realtà si verifica non solo nella vr generata al computer, ma, a un livello più elementare, già con il crescente iperrealismo delle immagini con cui i media ci bombardano [...] il campo visivo viene ridotto a una superficie piatta e la stessa “realtà” viene percepita come un’allucinazione visiva.
Altro che “fame di realtà”, dunque, l’attitudine all’impasto, lo scambio indifferenziato di elementi tratti dalla Rete e nuovamente immessi in Rete, le identità fluide e composite sono tutti fenomeni riassumibili nella formula – individuata dallo stesso Žiżek – di “epidemia dell’immaginario” (inteso nel senso di Jacques Lacan).
5. La natura instabile dei corpi
Da quanto abbiamo visto sin qui, tecnica dell’impasto e costruzione enfatica dell’io appaiono due elementi centrali nella tipologia culturale odierna. Affianco a questi troviamo: la rilevanza di un’immagine “globale”, cioè planetaria e inclusiva, dei prodotti culturali, nonché la loro abbondanza e accessibilità.[3] Alla priorità della distribuzione sulla produzione corrisponde inoltre l’accentuazione di un ruolo attivo del fruitore (o consumatore), il quale è indotto dallo stesso sistema delle comunicazioni (cioè della distribuzione) a farsi co-produttore (prosumer) del prodotto culturale. Sottesa a tutte queste dimensioni è l’arci-metafora della Rete, coi presupposti di connectivness e di costante accessibilità del fruitore che vi sono impliciti. Ma la Rete è a sua volta un nome (una metafora o un sistema metaforico) dello sviluppo tecnologico attuale, che è basato sulla comune riduzione a immagine (fissa o in movimento, comunque riprodotta e riproducibile) di ogni aspetto della realtà, da quella fisica del mondo esterno (i corpi e gli spazi) a quelle instabile e immateriali della emozionalità e della conoscenza. Queste immagini sono a tal punto equivalenti che possono essere scambiate, montate, associate e variamente connesse indipendentemente dallo statuto di realtà che corrisponde al loro referente.
È a partire da questo livello che si deve procedere, a mio avviso, per una descrizione del modello culturale oggi vigente, al cui centro – sembra di poter affermare – vi è l’incertezza sulla consistenza ontologica dei fenomeni, la loro riduzione a immagine e la loro riproducibilità illimitata. Un esempio piuttosto impressionante di questo ultimo e davvero fondamentale aspetto lo troviamo, in conclusione nel modo in cui la grande fantasia paranoica proposta da Philip Dick nel romanzo A Scanner Darkly (“Un oscuro scrutare”: 1977; cfr. Frasca 1996 e Frasca 2007) è stata ritrascritta nell’omonimo film (2006) di Richard Linklater, in cui le scene, girate con attori in carne e ossa, sono poi state sottoposte a un trattamento di animazione elettronica. Come André Bazin (1958-62) aveva evidenziato per tempo ragionando sullo statuto ontologico connesso al dispositivo cinematografico, appare inevitabile che il mondo della universale riproducibilità tecnica ponga al centro della propria modellizzazione culturale l’arcano della natura instabile dei corpi.
Riferimenti bibliografici
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Shields 2010: David Shields, Reality Hunger, London, Penguin Books, 2011
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Starobinski 1999: Jean Starobinski, Action et réaction. Histoire d’un couple, Paris, Seuil, 1999
Žiżek 1997: Slavoj Žiżek, L’epidemia dell’immaginario, trad. it. Roma, Meltemi, 2004


[1] Credo che resti utile utilizzare questa coppia concettuale, anche se forse occorre oggi farlo accettando che i termini abbiano un certo alone metaforico: centro e periferia non individuano spazi geograficamente circoscritti e riconoscibili.
[2] In verità, l’autore avrebbe voluto cancellare ogni traccia dell’appropriazione, ma gli avvocati del gruppo editoriale Random House gli hanno imposto una lista finale con l’indicazione, spesso abbreviata o manchevole, delle fonti (cfr. Shields 2010: 209-219).
[3] Se tutto è inclusivo, può ancora valere l’opposizione fondamentale IN vs ES che Lotman e Uspensky dimostrarono fondamentale in ogni organizzazione culturale? Che cosa sarà ES? In che modo quel che è accolto nel modello generale tornerà a essere allontanato nel modello parziale? È probabile che il “narcisismo delle piccole differenze” e la conseguente meccanica delle esclusioni reciproche sia la trascrizione culturale (e politica) della pretesa (ideologica) del sistema economico di annettere e includere ogni cosa al proprio interno.


L’ultimo Gadda nelle lettere a Pietro Citati



Gadda e Pasolini




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Marina Valensise Il blues dell’Ingegnere


Non bene, benissimo ha fatto Pietro Citati a disobbedire a Carlo Emilio Gadda, che gli chiedeva di “stracciare subito in minuti pezzulli” le tante lettere che gli aveva spedito, soprattutto d’estate. Ci ha regalato un libro magnifico (Carlo Emilio Gadda, “Un gomitolo di concause. Lettere a Pietro Citati, 1957-1969”), edito da Adelphi, grazie alla perfetta cura di Giorgio Pinotti. Un libro grondante amore, amicizia, dedizione, il modo migliore per perlustrare i romanzi di Gadda con la sicurezza della mappa giusta. Offre uno spaccato prezioso della cultura italiana negli anni del boom, quando le generazioni, anche se non necessariamente in senso anagrafico, si aiutavano. Tra i due, il più maturo era il più giovane Citati, trentenne collaboratore del Giorno, consulente di Livio Garzanti, che sovvenzionò il “Pasticciaccio”, assillando Gadda “come una Didone che teme l’abbandono” perché pretendeva l’esclusiva e sognava di sgominare Einaudi, che aveva i diritti della “Cognizione del dolore” e dei primi romanzi. Solerte, caparbio, dolcissimo, era lui, il “dottor Citati”, la spalla editoriale ed esistenziale dello scrittore sessantenne, ulcerato dalla vita, arrivato tardi alla gloria, al successo, ai cento scocciatori che l’assediavano per estorcergli interviste e dichiarazioni.





Gadda, grande ipocondriaco misantropo, poteva sembrare un disadattato. Maniacalmente ossessionato dagli acciacchi della vecchiaia, facile preda della paranoia, viveva in balia di mille fissazioni e sospetti. Epperò, dotato di ironia straripante, era un raccontatore fantastico, un affabulatore sornione che ammantava della sua lingua lussureggiante ogni minuto aspetto della realtà. Forse per sfuggire meglio all’esistenza grama, al naufragio della vecchiaia, alle ferite mai rimarginate della vita, che nella calura romana si trasformavano in un fiotto di recriminazioni. Il fatto è che nemmeno al culmine della gloria, riusciva a prendersi sul serio. Incapace di accomodarsi su quel piedistallo che gli aveva allestito Garzanti, la sua Didone gelosa, per meglio autoderidersi si paragonava alla Lollo, alla Loren, alle star di quel mondo di cartapesta che abitavano l’immaginazione italiana negli anni del boom. “Il ‘chiasso’ è un fenomeno dell’epoca attuale, determinato soprattutto dalla inderogabile necessità di vincere il chiasso altrui, di superare acusticamente spazialmente, fotograficamente, la grida elaudante, le poppe della Lolò e lo sguardo sexy della Sophia” annotava in cerca di silenzio il 3 ottobre 1957, in risposta a una cartolina di Citati. “Io non posso competere, quanto a culo, né con l’una, né con l’altra: ma se il pesciarolo non urla più del pesciarolo concorrente sulla piazza, rimane col merlano in mano” (dove “merlano” sta per merluzzo).

Gadda viveva da solo, assistito da una portiera russa generosa di sé che fungeva da telefonista, e più tardi dalla mitica Giuseppina Liberati, che vivrà per lui fino alla morte. Viveva a Roma, in via Blumenstihl, in un continuo stato di allarme, per la voracità degli editori, documentata benissimo in questo carteggio, dove la mediazione Citati-Gian Carlo Roscioni spicca come dirimente nel contenzioso Garzanti-Einaudi e l’inavvedutezza di alcuni critici rifulge. Come quella di Domenico Porzio (che bollò il romanzo come “un pasticcio di dubbia digeribilità e di assai scarso interesse romanzesco”), o di “ex squadristi o borsaneristi” che gli negarono il Premio Marzotto (“me ne frega un fico secco”), per risarcirlo poi col Premio degli Editori, come fece Emilio Cecchi col sostegno di Raffaele Mattioli. “Scusi questo sfogo dal pozzo di solitudine e disperazione in cui mi trovo, c’est mon alcool à moi” scriveva Gadda a Citati la domenica 2 agosto 1959. “Stracci subito in minuti pezzulli questa mia mala carta: che occhio d’altri mai non la veda. Stracci e dimentichi”.

Citati invece ha messo per cinquantanni sottochiave quelle lettere, tacendo la dedizione assoluta nei confronti del Gran Lombardo. In un suo ritratto di Gadda, inserito dal curatore in una nota, leggiamo: “Gadda veniva spesso a casa nostra. Era cerimoniosissimo, ci portava sempre regali, soprattutto marrons glacés. Arrivava vestito con l’eleganza (verbale e di abiti) di un borghese milanese dell’ottocento, salvo che aveva il nastro del cappello unto, come un mendicante. Allora si capiva che era un ‘umiliato e offeso’. Con le sue infinite attenzioni sembrava che volesse farsi perdonare qualcosa; e che, per il solo fatto di vivere, si sentisse in colpa verso tutti gli uomini. Poi, questa lieve tensione si scioglieva: Gadda cominciava a discorrere con la sua amabilità un poco ufficiosa; faceva domande, rideva, arrossiva, si prendeva gioco del proprio riso, raccontava storie esilaranti… Diventava all’improwiso furibondo. Poi disperato, in modo irrimediabile…”.




 

Tra i due l’amicizia era nata nel 1955 dopo la recensione fatta da Citati al “Giornale di guerra e di prigionia”, e si era consolidata col tempo in un rapporto di abnegazione e ricreazione di cui questo libro offre una testimonianza impagabile. Il carteggio si compone di quarantaquattro lettere scritte tra il 1957 e il 1969. Ma in cento pagine di scambio quotidiano e triviale con un amico che è molto di più che un editore, è un fratello, un consulente, un sostegno, si colgono tutti i nodi di Gadda, la sua idiosincrasia, le sue angustie, il suo genio naturale, allo stadio chimicamente puro, non trattato. Unico rammarico è non aver incluso le lettere dello stesso Citati, che spesso riaffiorano nelle ricchissime note di Pinotti. Altro rammarico è che il carteggio sia circoscritto alla sola estate. Facile immaginare per noi che parliamo solo al telefono e scriviamo solo mail, cosa perderanno i nostri posteri quanto ai moti dell’animo che generano un romanzo, quanto alla radiografia segreta di un’esistenza…

Gadda, puntuale come un orologio svizzero, telefonava al dottor Citati ogni giorno all’una e mezza, mentre il suo amico stava per addentare la bistecca, senza lontanamente immaginare di contribuire all’intirizzimento della stessa: “Se glielo avessi detto si sarebbe ucciso per la vergogna e la disperazione”, confessò un giorno Citati. Nel carteggio troverete molti dei retroscena di quelle telefonate diuturne, perlustrati nel loro contesto, tra “cause e concause”. Parla solo Gadda, è vero, ma la voce di Citati arriva limpida dalla postfazione e dal saggio di Pinotti, e soprattutto dal tra le righe di Gadda che lo insegue in vacanza. Vorrebbe raggiungerlo a Giuncarico, o sulle Dolomiti, ma procrastina di continuo, svicola, allunga i tempi, scivolando nella più ossequiosa cortesia, che Andrea Barbato, cronista dell’Espresso, si sentiva in dovere di irridere. “La semplice buona educazione e la normale gentilezza appaiono a questi zotici una mancanza di carattere e di idee: (belle idee, anzi ideologie, come le chiamano!)”, commenta Gadda esulcerato.

Stanco, “spiritualmente disperato”, lo scrittore fa un bilancio della propria vita: “I nodi vengono al pettine, una vita come quella che ho dovuto passare fin dall’infanzia, e fatiche come quelle che ho dovuto durare, e tragedie belliche e civili e fame e orrori, non possono allibrarsi nell”‘avere’ giulivo di una sempiterna anestesia di vispoteresone grullo e sventato, quale mi è occorso di voler essere per dimenticare i mali annientatoli”, scrive Gadda sempre il 2 agosto 1959. Citati è in vacanza in montagna, mentre Gadda patisce la calura romana e una dieta senza sale, per tenere sotto controllo cuore, fegato, enfisema e malanni vari. E però non può sottrarsi alla vita di società. Lui che è un solitario e detesta le fotografie col suo “faccione”, e odia “le brutte didascalie pesanti (ó Italie)” che le corredano sui rotocalchi, lui che per lavorare ha bisogno solo di silenzio e solitudine, “di non intasarmi l’anima di fatti altrui”, cede alla convivialità letteraria. Eccolo a tavola con Attilio Bertolucci (poeta ed eminenza grigia garzantiana) e Pasolini per “una ennesima cena con Moravia-Morante-Zolla in Trastevere (io, egregio e savio, poco riso in brodo non salato e filettuzzo di manzo non salato)”. Dà sfogo retroattivo all’insofferenza: “Molto baccano, ‘le borghesie fasciste, il Risorgimento fascista’, ecc. La mania della storiografia facile mi pare che prenda la mano per non dire la lingua ai commensali, ai direttori o collaboratori di Nuovi Argomenti e altre sociologiche e ideologiche riviste. Ma la gentile Morante urla e pontefica troppo”, scrive Gadda per scrollarsene il fastidio. Vogliono accusare la borghesia?, si domanda l’ingegnere. Ma se è stata l’unica protagonista “di quello, quel poco, che c’è stato di veramente democratico nella nostra storia, dai comuni lombardi al periodo 1861-1911, dalla fondazione del Politecnico di Milano e dell’industria moderna… questa Accusa urlata in Trastevere, al tavolo stradale dell’‘Impiccetta’. Torno sfiancato, rintronato e vilipeso da codeste verbose facilonerie Tresteverine dove l’agnosticismo epicureo-municipalistico-simpatico di Attilio, assiste muto, e languente in gentili rossori, all’aspra cornacchiante erogazione di teoremi storiografici dei due coniugi romanzieri”.

Per Moravia e la Morante Gadda non ha pietà. Cita, con non poca invidia, il risvolto dei “Nuovi racconti romani” della scrittrice, pubblicati da Bompiani: “E’ celebrata l’‘energia romana’ (ammappete!) contro la ‘grettezza’ di certe rappresentazioni (p.e. la mia)”. Ma lo sguardo senza veli sulla realtà, l’occhio del frequentatore di autobus, gli permette di lanciare il siluro finale: “Il 70% delle donne quarantenni (romane) in bus hanno circonferenza-panza ossia panza-circonferenza di metri 1.80÷1.90: quelle non sono troppo cicciose, troppo polpute, oh no! Polputo e idropico è il Gadda! Il peso è risalito da kg. 92 netto-nudo a kg. 97 netto-nudo. Evidentemente è questa la misura di equilibrio per alimentazione scarsa. Per alimentazione normale sarebbe 99÷100 netto-nudo”.


 

Ed ecco che, mettendosi al centro della scena, attirando su di sé come un novello san Sebastiano tutte le frecce dell’infelicità e della disperazione, Gadda si trasforma in un istrione regale perché, spiega Citati “inscenava il grandioso spettacolo del proprio odio e del proprio dolore, come se al mondo esistesse solo l’eccezione inimitabile della sua vita”. Così, passando dal girovita delle matrone romane alla dittatura della dieta, Gadda spara a zero contro la “Grande Accademia Internazionale di Superterapeutica digiunativa che imperversa oggi come cieco tornado nelle università del mondo”, protesta contro le mode effimere che nascono crescono e muoiono, uccise da contromode opposte e contrarie, e sempre irrise dalla realtà che oppone maestosa il suo zoccolo duro. Un alano non può diventare un maltese, un pastore tedesco non può trasformarsi in un fox-terrier, rimuginava Gadda in balia della sua dieta. “Uno dei commensali in Trastevere ha ordinato e distrutto prosciutto e melone, ossobuco in forma di Trinacria di dimensioni invereconde, filetto alla griglia dimensione controsuola; spigola, e gnocchi alla sabato-romano, ordinò ma non potette avere nella confusione e nell’urlìo; e spremute e zucchero. Ma solo il Gadda è pantagruelone gargantuoso”. E giù con dettagli clinico-farmacologici deliranti: “Fra le altre trovate cliniche, mi sono state autorevolmente e seriosamente suggerite delle ‘supposte di glicerina’ a scopo elicitante. Ma nel luglio romano la signorina ‘supposta’ arriva per così dire a piè d’opera che è una pallina gelatinosa in procinto di squagliarsi: il presumere di incul…care la virtù suppositizia o suppositiva che dir Lei voglia nel cu…ore dei refrattari con un ricciolino di burro semisfatto è una trovata dell’Accademia che giustifica tutte le mie debolezze nei confronti del dialetto”.

Anche quando parla di giovani scrittori affini, spietati come lui, pronti a lasciarsi assalire e scorticare dalla realtà, Gadda mantiene la sua nevrastenia solipsistica, afflitto da amarezza e complessi irrisolti. Prendiamo Goffredo Parise. Lo scrittore vicentino irrompe nella sua vita con “Il prete bello”, primo bestseller del Dopoguerra. Fu Gadda a dirgli di venire a Roma, a trovargli l’appartamento di via della Camilluccia 201, a pochi metri da casa sua, dove Parise sbarcò con la moglie impalmata di fresco, pronto a farsi travolgere dalla Dolce vita. II fotografo Lorenzo Capellini, che di Parise fu amico, ricorda ancora il suo sbarco a Roma con la spider rossa, l’amore per Lucia Bosé, l’umiliazione della moglie veneta, che poi scomparve. “Gadda si era un po’ invaghito di lui, e lui del resto non disdegnava, curioso com’era di ogni cosa della vita. Adorava Gadda, lo considerava un genio. Adorava portarlo in giro con la spider rossa e passare con lui pomeriggi interi”. Nelle lettere a Citati, Gadda racconta le gite fuori porta sulla biposto 1.600 del “pazzo Parise”: “Mi ha colto dal lattaio alle 9 ant.ne al cappuccino. Molto gentile, del resto, lui e la sua bella signora-madonna del Giambellino. La gita con lui solo, dato che la spider è una biposto”, scriveva il 28 agosto 1961, riferendo di “certi gnocchi trascendenti e digeribilissimi” che però non influivano sul suo “giudizio positivo, che era già in incubazione da diverso tempo”.

Gadda e Parise erano, l’uno per l’altro, uno specchio in cui ritrovarsi e riconoscersi. Gadda intercede perché Citati faccia scrivere l’amico da Hong Kong, sul Giorno. Parise lo faceva sognare, gli regalava spunti, idee per nuovi racconti, magari a sfondo erotico-automobilistico. “Nella conversazione bruciata, sulla spider, mi ha suggerito la possibilità (senza volerlo) di un mio articolo sull’erotismo ingenerato dalla ‘idea spider scarlatta inglese fodere marocchino, cil. 1.600’ sulla ciurma che la vede passare, specie ragazze, vigili, carabinieri, poveri”. Gadda rideva, sognava, ma non si faceva illusioni: “Non ne farò nulla, per quanto tutte le battute sue (di Parise) non fossero che conferma di molte mie idee”. Parise gli sembrava “un intelligente e un geniale, anche come osservatore e interprete, certo un po’ pazzo-a-freddo in direzione pittorica e talora un tantino o un tantone surreale, ma molto più vitale del surrealismo alquanto gelido e congegnato di Landolfi”. Parise era per Gadda “un surreale d’impeto, immediato e spontaneo”, per il quale lo scrittore nutriva una simpatia genuina, pronto a prodigarsi, a scrivere per lui una prefazione al “Ragazzo morto e le comete”, da dare a Garzanti per la nuova ristampa.

Il dottor Citati, intanto, seguiva tutto da lontano, ricettacolo di angustie e debolezze, fobie e simpatie di quel vecchio fissato, al quale sapeva come rivolgersi, come parlare. Sapeva come farlo sentire amato. “L’ho vista una volta, per dieci minuti, alla televisione, nel corso di una bellissima intervista. Lei era stanco, si capiva che era triste o appena di malumore: ma ha detto delle cose molto belle, con l’amara nobiltà di certi grandi personaggi shakespeariani, quando di colpo, per qualche rivelazione, scoprono quanto sia aggrovigliata, tenebrosa e faticosa la verità delle cose”, scrisse nel 1969 Citati a Gadda. L’altro sarebbe morto di lì a poco, nelle braccia di Citati che gli leggeva “I Promessi Sposi”.

“E’ stato l’unico grande uomo che ho conosciuto nella mia vita, come profondità tragica di esperienza e di spirito”, dice oggi Citati. Che va ringraziato per avercelo fatto conoscere meglio.

Da  "il Foglio" sabato 28 settembre 2013.