Gadda e Pasolini
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Marina Valensise – Il
blues dell’Ingegnere
Non bene, benissimo ha
fatto Pietro Citati a disobbedire a Carlo Emilio Gadda, che gli chiedeva di “stracciare
subito in minuti pezzulli” le tante lettere che gli aveva spedito, soprattutto
d’estate. Ci ha regalato un libro magnifico (Carlo Emilio Gadda, “Un gomitolo di concause. Lettere a Pietro Citati, 1957-1969”), edito da Adelphi, grazie alla perfetta cura di Giorgio
Pinotti. Un libro grondante amore, amicizia, dedizione, il modo migliore per
perlustrare i romanzi di Gadda con la sicurezza della mappa giusta. Offre uno
spaccato prezioso della cultura italiana negli anni del boom, quando le
generazioni, anche se non necessariamente in senso anagrafico, si aiutavano.
Tra i due, il più maturo era il più giovane Citati, trentenne collaboratore del
Giorno, consulente di Livio Garzanti, che sovvenzionò il “Pasticciaccio”,
assillando Gadda “come una Didone che teme l’abbandono” perché pretendeva
l’esclusiva e sognava di sgominare Einaudi, che aveva i diritti della
“Cognizione del dolore” e dei primi romanzi. Solerte, caparbio, dolcissimo, era
lui, il “dottor Citati”, la spalla editoriale ed esistenziale dello scrittore
sessantenne, ulcerato dalla vita, arrivato tardi alla gloria, al successo, ai
cento scocciatori che l’assediavano per estorcergli interviste e dichiarazioni.
Gadda, grande
ipocondriaco misantropo, poteva sembrare un disadattato. Maniacalmente
ossessionato dagli acciacchi della vecchiaia, facile preda della
paranoia, viveva in balia di mille fissazioni e sospetti. Epperò, dotato
di ironia straripante, era un raccontatore fantastico, un affabulatore sornione
che ammantava della sua lingua lussureggiante ogni minuto aspetto della realtà.
Forse per sfuggire meglio all’esistenza grama, al naufragio della vecchiaia,
alle ferite mai rimarginate della vita, che nella calura romana si trasformavano
in un fiotto di recriminazioni. Il fatto è che nemmeno al culmine della gloria,
riusciva a prendersi sul serio. Incapace di accomodarsi su quel piedistallo che
gli aveva allestito Garzanti, la sua Didone gelosa, per meglio autoderidersi si
paragonava alla Lollo, alla Loren, alle star di quel mondo di cartapesta che
abitavano l’immaginazione italiana negli anni del boom. “Il ‘chiasso’ è un
fenomeno dell’epoca attuale, determinato soprattutto dalla inderogabile
necessità di vincere il chiasso altrui, di superare acusticamente spazialmente,
fotograficamente, la grida elaudante, le poppe della Lolò e lo sguardo sexy
della Sophia” annotava in cerca di silenzio il 3 ottobre 1957, in risposta a
una cartolina di Citati. “Io non posso competere, quanto a culo, né con l’una,
né con l’altra: ma se il pesciarolo non urla più del pesciarolo concorrente
sulla piazza, rimane col merlano in mano” (dove “merlano” sta per merluzzo).
Gadda viveva da solo,
assistito da una portiera russa generosa di sé che fungeva da telefonista, e
più tardi dalla mitica Giuseppina Liberati, che vivrà per lui fino alla morte.
Viveva a Roma, in via Blumenstihl, in un continuo stato di allarme, per la
voracità degli editori, documentata benissimo in questo carteggio, dove la
mediazione Citati-Gian Carlo Roscioni spicca come dirimente nel contenzioso
Garzanti-Einaudi e l’inavvedutezza di alcuni critici rifulge. Come quella di
Domenico Porzio (che bollò il romanzo come “un pasticcio di dubbia digeribilità
e di assai scarso interesse romanzesco”), o di “ex squadristi o borsaneristi”
che gli negarono il Premio Marzotto (“me ne frega un fico secco”), per
risarcirlo poi col Premio degli Editori, come fece Emilio Cecchi col sostegno
di Raffaele Mattioli. “Scusi questo sfogo dal pozzo di solitudine e disperazione
in cui mi trovo, c’est mon alcool à moi” scriveva Gadda a Citati la domenica 2
agosto 1959. “Stracci subito in minuti pezzulli questa mia mala carta: che
occhio d’altri mai non la veda. Stracci e dimentichi”.
Citati invece ha messo
per cinquantanni sottochiave quelle lettere, tacendo la dedizione assoluta nei
confronti del Gran Lombardo. In un suo ritratto di Gadda, inserito dal curatore
in una nota, leggiamo: “Gadda veniva spesso a casa nostra. Era
cerimoniosissimo, ci portava sempre regali, soprattutto marrons glacés.
Arrivava vestito con l’eleganza (verbale e di abiti) di un borghese milanese
dell’ottocento, salvo che aveva il nastro del cappello unto, come un
mendicante. Allora si capiva che era un ‘umiliato e offeso’. Con le sue
infinite attenzioni sembrava che volesse farsi perdonare qualcosa; e che, per
il solo fatto di vivere, si sentisse in colpa verso tutti gli uomini. Poi,
questa lieve tensione si scioglieva: Gadda cominciava a discorrere con la sua
amabilità un poco ufficiosa; faceva domande, rideva, arrossiva, si prendeva
gioco del proprio riso, raccontava storie esilaranti… Diventava all’improwiso
furibondo. Poi disperato, in modo irrimediabile…”.
Tra i due l’amicizia
era nata nel 1955 dopo la recensione fatta da Citati al “Giornale di guerra e
di prigionia”, e si era consolidata col tempo in un rapporto di abnegazione e
ricreazione di cui questo libro offre una testimonianza impagabile. Il
carteggio si compone di quarantaquattro lettere scritte tra il 1957 e il 1969.
Ma in cento pagine di scambio quotidiano e triviale con un amico che è molto di
più che un editore, è un fratello, un consulente, un sostegno, si colgono tutti
i nodi di Gadda, la sua idiosincrasia, le sue angustie, il suo genio naturale,
allo stadio chimicamente puro, non trattato. Unico rammarico è non aver incluso
le lettere dello stesso Citati, che spesso riaffiorano nelle ricchissime note
di Pinotti. Altro rammarico è che il carteggio sia circoscritto alla sola
estate. Facile immaginare per noi che parliamo solo al telefono e scriviamo
solo mail, cosa perderanno i nostri posteri quanto ai moti dell’animo che
generano un romanzo, quanto alla radiografia segreta di un’esistenza…
Gadda, puntuale come un
orologio svizzero, telefonava al dottor Citati ogni giorno all’una e mezza, mentre
il suo amico stava per addentare la bistecca, senza lontanamente immaginare di
contribuire all’intirizzimento della stessa: “Se glielo avessi detto si sarebbe
ucciso per la vergogna e la disperazione”, confessò un giorno Citati. Nel
carteggio troverete molti dei retroscena di quelle telefonate diuturne,
perlustrati nel loro contesto, tra “cause e concause”. Parla solo Gadda, è
vero, ma la voce di Citati arriva limpida dalla postfazione e dal saggio di
Pinotti, e soprattutto dal tra le righe di Gadda che lo insegue in vacanza.
Vorrebbe raggiungerlo a Giuncarico, o sulle Dolomiti, ma procrastina di
continuo, svicola, allunga i tempi, scivolando nella più ossequiosa cortesia,
che Andrea Barbato, cronista dell’Espresso, si sentiva in dovere di irridere. “La
semplice buona educazione e la normale gentilezza appaiono a questi zotici una
mancanza di carattere e di idee: (belle idee, anzi ideologie, come le
chiamano!)”, commenta Gadda esulcerato.
Stanco, “spiritualmente
disperato”, lo scrittore fa un bilancio della propria vita: “I nodi vengono al
pettine, una vita come quella che ho dovuto passare fin dall’infanzia, e
fatiche come quelle che ho dovuto durare, e tragedie belliche e civili e fame e
orrori, non possono allibrarsi nell”‘avere’ giulivo di una sempiterna anestesia
di vispoteresone grullo e sventato, quale mi è occorso di voler essere
per dimenticare i mali annientatoli”, scrive Gadda sempre il 2 agosto
1959. Citati è in vacanza in montagna, mentre Gadda patisce la calura romana e
una dieta senza sale, per tenere sotto controllo cuore, fegato, enfisema e
malanni vari. E però non può sottrarsi alla vita di società. Lui che è un
solitario e detesta le fotografie col suo “faccione”, e odia “le brutte
didascalie pesanti (ó Italie)” che le corredano sui rotocalchi, lui che per
lavorare ha bisogno solo di silenzio e solitudine, “di non intasarmi l’anima di
fatti altrui”, cede alla convivialità letteraria. Eccolo a tavola con Attilio
Bertolucci (poeta ed eminenza grigia garzantiana) e Pasolini per “una ennesima
cena con Moravia-Morante-Zolla in Trastevere (io, egregio e savio, poco riso in
brodo non salato e filettuzzo di manzo non salato)”. Dà sfogo retroattivo
all’insofferenza: “Molto baccano, ‘le borghesie fasciste, il Risorgimento
fascista’, ecc. La mania della storiografia facile mi pare che prenda la mano
per non dire la lingua ai commensali, ai direttori o collaboratori di Nuovi
Argomenti e altre sociologiche e ideologiche riviste. Ma la gentile Morante
urla e pontefica troppo”, scrive Gadda per scrollarsene il fastidio. Vogliono
accusare la borghesia?, si domanda l’ingegnere. Ma se è stata l’unica
protagonista “di quello, quel poco, che c’è stato di veramente democratico
nella nostra storia, dai comuni lombardi al periodo 1861-1911, dalla fondazione
del Politecnico di Milano e dell’industria moderna… questa Accusa urlata in
Trastevere, al tavolo stradale dell’‘Impiccetta’. Torno sfiancato, rintronato e
vilipeso da codeste verbose facilonerie Tresteverine dove l’agnosticismo
epicureo-municipalistico-simpatico di Attilio, assiste muto, e languente in
gentili rossori, all’aspra cornacchiante erogazione di teoremi storiografici
dei due coniugi romanzieri”.
Per Moravia e la
Morante Gadda non ha pietà. Cita, con non poca invidia, il risvolto dei “Nuovi
racconti romani” della scrittrice, pubblicati da Bompiani: “E’ celebrata
l’‘energia romana’ (ammappete!) contro la ‘grettezza’ di certe rappresentazioni
(p.e. la mia)”. Ma lo sguardo senza veli sulla realtà, l’occhio del
frequentatore di autobus, gli permette di lanciare il siluro finale: “Il 70%
delle donne quarantenni (romane) in bus hanno circonferenza-panza ossia
panza-circonferenza di metri 1.80÷1.90: quelle non sono troppo cicciose, troppo
polpute, oh no! Polputo e idropico è il Gadda! Il peso è risalito da kg. 92
netto-nudo a kg. 97 netto-nudo. Evidentemente è questa la misura di equilibrio
per alimentazione scarsa. Per alimentazione normale sarebbe 99÷100 netto-nudo”.
Ed ecco che, mettendosi
al centro della scena, attirando su di sé come un novello san Sebastiano tutte
le frecce dell’infelicità e della disperazione, Gadda si trasforma in un
istrione regale perché, spiega Citati “inscenava il grandioso spettacolo del
proprio odio e del proprio dolore, come se al mondo esistesse solo l’eccezione
inimitabile della sua vita”. Così, passando dal girovita delle matrone romane
alla dittatura della dieta, Gadda spara a zero contro la “Grande Accademia
Internazionale di Superterapeutica digiunativa che imperversa oggi come cieco
tornado nelle università del mondo”, protesta contro le mode effimere che
nascono crescono e muoiono, uccise da contromode opposte e contrarie, e sempre
irrise dalla realtà che oppone maestosa il suo zoccolo duro. Un alano non può
diventare un maltese, un pastore tedesco non può trasformarsi in un
fox-terrier, rimuginava Gadda in balia della sua dieta. “Uno dei
commensali in Trastevere ha ordinato e distrutto prosciutto e melone, ossobuco
in forma di Trinacria di dimensioni invereconde, filetto alla griglia
dimensione controsuola; spigola, e gnocchi alla sabato-romano, ordinò ma non
potette avere nella confusione e nell’urlìo; e spremute e zucchero. Ma solo il
Gadda è pantagruelone gargantuoso”. E giù con dettagli clinico-farmacologici
deliranti: “Fra le altre trovate cliniche, mi sono state autorevolmente e
seriosamente suggerite delle ‘supposte di glicerina’ a scopo elicitante. Ma nel
luglio romano la signorina ‘supposta’ arriva per così dire a piè d’opera che è
una pallina gelatinosa in procinto di squagliarsi: il presumere di incul…care
la virtù suppositizia o suppositiva che dir Lei voglia nel cu…ore dei
refrattari con un ricciolino di burro semisfatto è una trovata dell’Accademia
che giustifica tutte le mie debolezze nei confronti del dialetto”.
Anche quando parla di giovani scrittori affini,
spietati come lui, pronti a lasciarsi assalire e scorticare dalla realtà, Gadda
mantiene la sua nevrastenia solipsistica, afflitto da amarezza e complessi
irrisolti. Prendiamo Goffredo Parise. Lo scrittore vicentino irrompe nella sua
vita con “Il prete bello”, primo bestseller del Dopoguerra. Fu Gadda a dirgli
di venire a Roma, a trovargli l’appartamento di via della Camilluccia 201, a
pochi metri da casa sua, dove Parise sbarcò con la moglie impalmata di fresco,
pronto a farsi travolgere dalla Dolce vita. II fotografo Lorenzo Capellini, che
di Parise fu amico, ricorda ancora il suo sbarco
a Roma con la spider rossa, l’amore per Lucia Bosé, l’umiliazione della moglie
veneta, che poi scomparve. “Gadda si era un po’ invaghito di lui, e lui del
resto non disdegnava, curioso com’era di ogni cosa della vita. Adorava Gadda,
lo considerava un genio. Adorava portarlo in giro con la spider rossa e passare
con lui pomeriggi interi”. Nelle lettere a Citati, Gadda racconta le gite fuori
porta sulla biposto 1.600 del “pazzo Parise”: “Mi ha colto dal lattaio alle 9
ant.ne al cappuccino. Molto gentile, del resto, lui e la sua bella
signora-madonna del Giambellino. La gita con lui solo, dato che la spider è una
biposto”, scriveva il 28 agosto 1961, riferendo di “certi gnocchi trascendenti
e digeribilissimi” che però non influivano sul suo “giudizio positivo, che era
già in incubazione da diverso tempo”.
Gadda e Parise erano,
l’uno per l’altro, uno specchio in cui ritrovarsi e riconoscersi. Gadda
intercede perché Citati faccia scrivere l’amico da Hong Kong, sul Giorno.
Parise lo faceva sognare, gli regalava spunti, idee per nuovi racconti, magari
a sfondo erotico-automobilistico. “Nella conversazione bruciata, sulla spider,
mi ha suggerito la possibilità (senza volerlo) di un mio articolo sull’erotismo
ingenerato dalla ‘idea spider scarlatta inglese fodere marocchino, cil. 1.600’
sulla ciurma che la vede passare, specie ragazze, vigili, carabinieri, poveri”.
Gadda rideva, sognava, ma non si faceva illusioni: “Non ne farò nulla, per
quanto tutte le battute sue (di Parise) non fossero che conferma di molte mie
idee”. Parise gli sembrava “un intelligente e un geniale, anche come
osservatore e interprete, certo un po’ pazzo-a-freddo in direzione pittorica e
talora un tantino o un tantone surreale, ma molto più vitale del surrealismo
alquanto gelido e congegnato di Landolfi”. Parise era per Gadda “un surreale
d’impeto, immediato e spontaneo”, per il quale lo scrittore nutriva una
simpatia genuina, pronto a prodigarsi, a scrivere per lui una prefazione al
“Ragazzo morto e le comete”, da dare a Garzanti per la nuova ristampa.
Il dottor Citati,
intanto, seguiva tutto da lontano, ricettacolo di angustie e debolezze, fobie e
simpatie di quel vecchio fissato, al quale sapeva come rivolgersi, come
parlare. Sapeva come farlo sentire amato. “L’ho vista una volta, per dieci
minuti, alla televisione, nel corso di una bellissima intervista. Lei era
stanco, si capiva che era triste o appena di malumore: ma ha detto delle cose
molto belle, con l’amara nobiltà di certi grandi personaggi shakespeariani,
quando di colpo, per qualche rivelazione, scoprono quanto sia aggrovigliata,
tenebrosa e faticosa la verità delle cose”, scrisse nel 1969 Citati a Gadda.
L’altro sarebbe morto di lì a poco, nelle braccia di Citati che gli leggeva “I
Promessi Sposi”.
“E’ stato l’unico
grande uomo che ho conosciuto nella mia vita, come profondità tragica di
esperienza e di spirito”, dice oggi Citati. Che va ringraziato per avercelo
fatto conoscere meglio.
Da "il
Foglio" sabato 28 settembre 2013.
Un tema di ricerca da riprendere è quello dei rapporti che ci furono tra Pasolini e Gadda
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