Desiderio e paternità oggi: avere o essere un padre
30 settembre 2013 sul sito Leparole elecose
Intervista a Simona Argentieri, a cura di Daniele Balicco
[Questa intervista è uscita su "Between", III, 5].
Questo lavoro fa parte di una
trilogia di interviste dedicate al tema della paternità oggi. L’idea è
quella di proporre un’analisi sulla metamorfosi contemporanea della
figura simbolica del padre (da un punto di vista psicoanalitico,
storico, politico, estetico) attraverso il confronto fra grandi
psicoanalisti italiani, appartenenti a scuole analitiche differenti.
L’intervista a Simona Argentieri, medico psicoanalista, Membro Ordinario
e Didatta dell’Associazione Italiana di Psicoanalisi e
dell’International Psycho- Analitical Association, chiude questa
trilogia apportando una ricchissima analisi teorica, anche di natura
estetica (in particolare su cinema e letteratura), per lo più di matrice
freudiana. La sua riflessione si concentra soprattutto sulle risposte
positive alla crisi contemporanea della figura paterna tradizionale.
Daniele Balicco: Lei si interessa da molti anni al problema dei nuovi padri. Già nel 1999 nel libro Il padre materno: da San Giuseppe ai nuovi mammi (Meltemi,
Roma) viene data una grande attenzione a come le nuove generazioni di
maschi stanno sperimentando l’esperienza della paternità. Adesso, in un
nuovo volume di prossima uscita, Il padre materno, vent’anni dopo
(Einaudi), si confronta nuovamente con il tema. La sua analisi valuta
problemi e ricchezza della nostra realtà contemporanea, rifiutando una
lettura della mutazione della figura paterna come sintomo di una più
generale catastrofe antropologica. Iniziando questa nostra conversazione
le chiederei di spiegare il suo punto di vista.
Simona Argentieri: In
effetti, all’inizio degli anni ’90 ho cominciato a interessarmi ai nuovi
padri, a pormi degli interrogativi che indagassero il senso di questa
mutazione epocale su un piano più profondo di quello clamoroso
fenomenico. Mi sembrava importante capire se davvero i padri materni
fossero un frutto della modernità; quali fossero gli assetti psichici
interiori di questi giovani uomini; e soprattutto che effetto potesse
avere sul processo di sviluppo psicologico di bambini e bambine, nel
gioco delle identificazioni primarie, l’aver goduto dell’accudimento
precoce da parte di un uomo, anziché, come da tradizione, da parte di
una donna. Oggi, a distanza di circa vent’anni, è trascorsa almeno una
generazione da quelle prime osservazioni; molti di quei bambini e di
quelle bambine che hanno goduto dei padri materni sono diventati a loro
volta genitori, ed è tempo quindi di provare a cercare qualche risposta
ulteriore ai quesiti di allora.
Mi sembra interessante considerare che,
parallelamente al fenomeno degli uomini capaci di prendersi cura di
bambini anche molto piccoli, il tema del padre – o meglio del lamento
sul padre assente – è prepotentemente alla ribalta, in modo direi quasi
ossessivo. Da circa mezzo secolo, da quando il sociologo Alexander
Mitscherlich intitolò la sua opera più conosciuta Verso una società senza padre,
domina nella cultura occidentale la retorica dell’assenza della figura
paterna. Il generale compianto per il padre che non c’è sembra essere
diventato uno stereotipo che impedisce di pensare e capire. Come
se fosse un fatto nuovo! Così, nella maggior parte delle anamnesi
cliniche si trova la medesima notazione, la stessa spiegazione pass-par-tout: madre
possessiva e padre assente. Le recriminazioni nei confronti di padri
che abbandonano, deludono, fuggono sono un tema universale e perenne, al
di là degli eventuali demeriti degli uomini che ci hanno biologicamente
generato. Io credo che sia un meccanismo di difesa, sia dei pazienti
che degli psicoterapeuti. Invece di riflettere sull’origine delle
proprie nevrosi, molti pazienti danno tutta la colpa della propria
infelicità al fatto di non aver avuto un padre o per lo meno di esserne
stati delusi. Temo che lo stesso discorso valga però anche per gli
psicoanalisti. Negli anni ‘60/’70 non si faceva altro che parlare del
rapporto madre/figlio. Nei due decenni successivi l’ottica si è
ribaltata: ora tutto viene addebitato alla mancanza del padre, senza
precisare troppo se si tratti di una carenza concreta o psicologica.
Sono semplificazioni che non aiutano. Perché vanno nella direzione di
cercare dei nessi lineari di causa/effetto, spostando fuori di sé, nel
sociale, ogni responsabilità.
Daniele Balicco: Possiamo leggerla come una proiezione?
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