SANDRO MEDICI - LA SFIDA TEMERARIA
Congregazioni, confraternite, compagnie, ordini l’infinita e
fantasiosa galassia in cui è compartimentata la chiesa cattolica avranno
ieri sobbalzato e sussultato alle parole di papa Francesco. «I conventi
vuoti non servono ad aprire alberghi e fare soldi – ha spiegato con
quel suo mezzo sorriso sempre più eversivo – sono per la carne di
Cristo, sono per i rifugiati». E ad ascoltarlo c’erano proprio loro:
profughi, fuggitivi, sradicati, rifugiati appunto. Un’indicazione
banalmente evangelica, quella di accogliere i povericristi di varia
provenienza. Ma che, se contestualizzata all’attuale sistema finanziario
vaticano e localizzata nella città dove le proprietà immobiliari
cattoliche sono straripanti, risuona come un’affermazione temeraria. E’
un netto ribaltamento della strategia furiosamente commerciale con cui è
stato gestito il patrimonio della chiesa. E
che, soprattutto a Roma, è stata attuata nel massimo della
spregiudicatezza, a volte perfino con feroce indifferenza. I fabbricati
che nel passato avevano ospitato comunità religiose o attività
assistenziali sono stati via via trasformati in complessi alberghieri,
alcuni pregiatissimi, la gran parte adattati a ospitare quel cospicuo
turismo religioso, impudicamente definito pellegrinaggio. E la
commercializzazione delle proprietà vaticane ha coinvolto anche i tanti
edifici o fondi agricoli ricevuti da lasciti testamentari, dai quali
sono stati via via espulsi famiglie affittuarie, negozi e botteghe
storiche, realtà associative collaterali. Il tutto, ovviamente, esentato
dalle procedure fiscali. Si tratta di interventi edilizi piuttosto
vistosi, spesso nel cuore stesso del centro della città. Come nel caso
dell’ex monastero di Santa Brigida, in piazza Farnese, o del complesso
di Santa Maria dei sette dolori, nel quartiere di Trastevere: entrambi
riconvertiti in alberghi prestigiosi. Oppure, come per la tenuta
dell’Acquafredda, in zona Boccea, dove si stanno scacciando famiglie di
agricoltori, da decenni in affitto, per edificare una clinica (e chissà
cos’altro). E ancora, come nel caso delle requisizioni nel quartiere di
Cinecittà, allorché il Municipio sistemò decine di famiglie senza casa
in un fabbricato vuoto, che in seguito si scoprì essere di proprietà di
un alto prelato che abitava in Vaticano. E’ insomma il modello
accumulativo attraverso cui si sviluppa l’economia vaticana. Se va bene,
ad alimentare il circuito turistico che convoglia a Roma milioni di
persone, trasportate, accompagnate, nutrite e ospitate lungo un percorso
rigorosamente autarchico. Se va male, a finanziare le attività bancarie
dello Ior, comprese quelle più spericolate e discutibili. Un meccanismo
produttivo per consentire alle casse vaticane un afflusso monetario
diretto e ininterrotto. Sotto quest’aspetto, al netto dell’indignazione,
l’ammonimento di Francesco appare come un’ulteriore spallata a un
sistema economico sempre più predatorio e sempre meno rivolto a principi
di umanità e giustizia. E’ una battaglia, questa di Francesco, che
sembra non voler risparmiare niente e nessuno. Gli auguriamo ogni
successo. E faremmo bene, forse, a smetterla di meravigliarci. E’ un
papa iperpolitico che sa far politica come pochi. Quest’offensiva
«immobiliarista», a rifletterci bene, è in aperto contrasto con una
delle principali imposizioni di politica economica oggi dominanti, a cui
gli stessi reggenti vaticani avevano peraltro aderito. E cioè, la
dismissione del patrimonio pubblico a fini speculativi. Ebbene,
sostenere che tale patrimonio non è una merce ma, al contrario, un bene
comune, affermare che non bisogna venderlo, bensì restituirlo a un uso
sociale, riecheggia felicemente le grandi battaglie d’opposizione che
nel mondo si vanno sviluppando per riappropriarsi delle risorse
collettive. Papa Francesco ci scuserà, ma quel ch’egli sostiene è oggi
un’eresia, di fronte al dogma globalizzato dello sfruttamento della
rendita e del profitto finanziario. Senz’andare troppo lontano, proprio a
Roma è in corso un conflitto di vaste proporzioni che contrappone una
cittadinanza sempre più bisognevole di spazi pubblici, servizi sociali e
centri culturali a un sistema imprenditoriale interessato a realizzare
centri commerciali, alberghi, bische e casinò. Ed è così che si
susseguono occupazioni, sgomberi, nuove occupazioni, nuovi sgomberi.
L’amministrazione comunale, non diversamente che in altre città, sembra
paralizzata, stretta tra l’obbligo istituzionale di vendere patrimonio e
l’esigenza di corrispondere ai bisogni sociali. Ne deriva una goffa
oscillazione tra timidissime aperture e imbarazzanti reticenze. Eppure,
un modo per uscire da questa contraddizione che sembra inestricabile ci
sarebbe. Ci vuole coraggio e intelligenza. Come ha evocato, anche in
questo caso, papa Francesco. Basterebbe affidare gli spazi inutilizzati a
chi è disponibile a garantire quell’offerta sociale che
l’amministrazione pubblica non è più in grado di assicurare. Come per
esempio succede in un villino della periferia di sud-est, dove un gruppo
di donne, dopo aver occupato lo stabile, ha rimesso a posto gli interni
e poi ha aperto un centro d’accoglienza per vittime di violenza.
Entrando di diritto, malgrado l’occupazione «illegale», nella lista
comunale dei servizi sociali. Se lo stesso schema si potesse replicare
(naturalmente senza costringere nessuno a occupare) per i tantissimi
fabbricati vuoti disseminati in città, per riconvertirli in servizi
sociali o trasformarli in centri culturali, nei quartieri si vivrebbe
sicuramente meglio, si moltiplicherebbero le occasioni di lavoro e ci si
sentirebbe tutti più sicuri e sereni. E’ un percorso che a Roma si può
concretamente attuare: se si vuole uscire dalla logica del meno peggio e
delle mezze misure. Non foss’altro perché è già in corso. Alle Officine
Oz, al Teatro Valle, a Communia, al Cinema Palazzo e al Cinema America,
alle Officine Zero, all’Angelo Mai, a Esc, a Lucha y Siesta. E in tanti
altri luoghi (che diventeranno sempre di più) pieni di energia sociale e
di piacere vitale.
Da il manifesto del 16 settembre 2013
Da il manifesto del 16 settembre 2013
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