Di Nuto Revelli abbiamo già parlato in questo blog. A Nuto si deve una delle principali raccolte di testimonianze della scomparsa vita contadina. Peraltro, grazie a fb, sono diventato amico di una persona che, oltre ad offrire la sua diretta testimonianza, ha aiutato Nuto a scrivere L'anello forte.
Ma oggi vogliamo riprendere uno stralcio dell'intervista rilasciata qualche settimana fa dal figlio:
Marco Revelli - Nuto Revelli, i contadini delle Langhe e il '68
(...)
Come reagì suo padre
Nuto alla scelta del figlio di militare in Lotta Continua?
“Lo spaventava il
nostro estremismo, ma era affascinato dalla diversità rispetto al
mondo politico ufficiale. Però vedendomi troppo impegnato al
ciclostile una volta mi disse: scegli la professione che vuoi, ma fai
in modo di non dover dipendere dalla politica. Non saresti un uomo
libero”.
Cosa significò per
lei crescere in una famiglia di sinistra?
“Mio padre
rappresentava il peso della storia. Una volta il maestro disse in
classe che i partigiani rubavano le mucche. Tornai a casa un po’
turbato e gli raccontai tutto. La sera mi diede un pacchetto con Le
lettere dei condannati a morte della Resistenza, e una dedica per il
mio insegnante: “Perché sappia come sanno morire i partigiani”.
Passai una notte insonne, stretto tra due autorità. L’indomani
consegnai il libro al maestro, che restò in silenzio”.
Una guida preziosa.
“Anche faticosa. Una
montagna troppo alta da scalare, come dice Venditti. Era impegnativo
nell’adesione ai suoi valori perché ne avvertivo una
responsabilità famigliare. Ma era impegnativo anche nel necessario
conflitto. Con i padri è un passaggio obbligatorio, se no ti porti
dietro il complesso di Telemaco”.
Entrambi dalla parte
dei vinti. Però ai contadini di Nuto Revelli lei ha sostituito gli
operai.
“Un’altra cosa che
gli devo: mi ha insegnato ad ascoltare. Da giovane arrogante, che
distribuiva i volantini davanti ai cancelli della Michelin, io allora
lo contestavo: ma cosa vai ad occuparti di un mondo che è già
morto? È una fortuna che, da egoisti coltivatori anche reazionari,
siano diventati classe operaia, dunque rivoluzionaria, eredi della
filosofia classica tedesca… “.
E lui?
“Sorrideva, ma non
cambiava idea. E aveva ragione lui. Quelli che sono andati in
fabbrica non sono diventati gli eredi della filosofia classica
tedesca. E dall’altra parte è finita una civiltà che aveva certo
elementi di ferocia, ma era provvista di un esemplare equilibrio nel
rapporto tra uomo e natura, quello stesso che oggi dovremmo avere
l’umiltà di ripristinare. Lui diceva sempre: abbiamo trasformato
decine di migliaia di specialisti della montagna in operai di
fabbrica dequalificati, e poi le montagne ci cadono in testa. Sì,
aveva ragione lui. Per fortuna sono riuscito a dirglielo”.
(Da: La Repubblica 8 agosto 2013)
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