02 settembre 2013

L'ANELLO FORTE DI NUTO REVELLI


 
              Di Nuto Revelli abbiamo già parlato in questo blog. A Nuto si deve una delle principali raccolte di testimonianze della scomparsa vita contadina. Peraltro, grazie a fb, sono diventato amico di una persona che, oltre ad offrire la sua diretta testimonianza, ha aiutato Nuto a scrivere L'anello forte.
 
     Ma oggi vogliamo riprendere uno stralcio dell'intervista rilasciata qualche settimana fa dal figlio:

Marco Revelli - Nuto Revelli, i contadini delle Langhe e il '68

(...)

Come reagì suo padre Nuto alla scelta del figlio di militare in Lotta Continua?

“Lo spaventava il nostro estremismo, ma era affascinato dalla diversità rispetto al mondo politico ufficiale. Però vedendomi troppo impegnato al ciclostile una volta mi disse: scegli la professione che vuoi, ma fai in modo di non dover dipendere dalla politica. Non saresti un uomo libero”.

Cosa significò per lei crescere in una famiglia di sinistra?

“Mio padre rappresentava il peso della storia. Una volta il maestro disse in classe che i partigiani rubavano le mucche. Tornai a casa un po’ turbato e gli raccontai tutto. La sera mi diede un pacchetto con Le lettere dei condannati a morte della Resistenza, e una dedica per il mio insegnante: “Perché sappia come sanno morire i partigiani”. Passai una notte insonne, stretto tra due autorità. L’indomani consegnai il libro al maestro, che restò in silenzio”.

Una guida preziosa.

“Anche faticosa. Una montagna troppo alta da scalare, come dice Venditti. Era impegnativo nell’adesione ai suoi valori perché ne avvertivo una responsabilità famigliare. Ma era impegnativo anche nel necessario conflitto. Con i padri è un passaggio obbligatorio, se no ti porti dietro il complesso di Telemaco”.

Entrambi dalla parte dei vinti. Però ai contadini di Nuto Revelli lei ha sostituito gli operai.

“Un’altra cosa che gli devo: mi ha insegnato ad ascoltare. Da giovane arrogante, che distribuiva i volantini davanti ai cancelli della Michelin, io allora lo contestavo: ma cosa vai ad occuparti di un mondo che è già morto? È una fortuna che, da egoisti coltivatori anche reazionari, siano diventati classe operaia, dunque rivoluzionaria, eredi della filosofia classica tedesca… “.

E lui?

“Sorrideva, ma non cambiava idea. E aveva ragione lui. Quelli che sono andati in fabbrica non sono diventati gli eredi della filosofia classica tedesca. E dall’altra parte è finita una civiltà che aveva certo elementi di ferocia, ma era provvista di un esemplare equilibrio nel rapporto tra uomo e natura, quello stesso che oggi dovremmo avere l’umiltà di ripristinare. Lui diceva sempre: abbiamo trasformato decine di migliaia di specialisti della montagna in operai di fabbrica dequalificati, e poi le montagne ci cadono in testa. Sì, aveva ragione lui. Per fortuna sono riuscito a dirglielo”.


(Da: La Repubblica 8 agosto 2013)

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