Amelia Crisantino - La
partigiana deputata che rifiutò i soldi dell'Ars
PARTIGIANA,
comunista, deputata e, soprattutto, esempio di etica politica con pochi
precedenti e ancor meno epigoni.
«Mia madre è
stata protagonista, ma non è stata una primadonna», riflette Luciano Li Causi,
il figlio di Giuseppina Vittone Li Causi, la militante, siciliana adottiva,
moglie di Girolamo Li Causi, morta pochi giorni fa. Giuseppina era molto
riservata, anche in casa: luie la sorella Renata non hanno mai saputo come si sono
incontrati i loro genitori. E solo adesso diventa pubblica la notizia che
Giuseppina Vittone Li Causi, eletta all'Ars nel 1955, ha rifiutato lo stipendio
da deputata perché in casa c'era già quello del marito. Un caso probabilmente
unico in Italia, che rimanda a un alto profilo etico e a un'idea della politica
come servizio per cui non ricevere alcun beneficio, ben lontano dagli sperperi
abituali di Palazzo dei Normanni.
«Lei era
sempre sobria, il suo non è stato un gesto pubblico», racconta il figlio Luciano.
In quegli anni l'Ars aveva piena autonomia amministrativa, bastava un semplice
deliberato del Consiglio di Presidenza a sistemare la faccenda dal punto di
vista contabile: in quei verbali, oggi chiusi in cassaforte, non si avanzano
certo analisi o ipotesi sull'insolita rinuncia. Né Giuseppina Vittone ha mai
commentato la sua scelta in uno scritto o nelle rare interviste. Semplicemente,
la ragazzina che tante volte aveva rischiato la vita come staffetta partigiana
decide di rimanere per sempre una volontaria. E, in silenzio, radicalmente
abbatte i costi della politica con un gesto ignorato ma esemplare. Da cui tanto
ci sarebbe da imparare. Giuseppina Vittone aveva conosciuto il siciliano
Girolamo Li Causi nel 1943. Lui era un prestigioso capo comunista, aveva 47
anni; lei era solo ventenne, ma aveva la determinazione dei ragazzi entrati
nella Resistenza. Di famiglia operaia, su incarico del partito aveva
frequentato un corso di stenografia per potere trascrivere i comunicati di
Radio Londrae Radio Mosca. Inoltre assicurava la diffusione de L'Unità,
pubblicazione mensile e poi quindicinale stampata a Milano. Pare niente ma era
un'attività clandestina e pericolosa. Una volta, nel marzo del '43, a Mirafiori
si organizzava uno sciopero e Giuseppina era andata a Milano, a prendere le
copie del giornale: le portava strette intorno alla vita, tenute da uno spago
che si ruppe per strada e fortuna che finì bene. Ma il pericolo era qualcosa
con cui convivere,a Nord comea Sud. Cambiavano solo le vicende e lo sfondo,
alle fabbriche torinesi seguivano i latifondi siciliani. Divenuta compagna di
Li Causi, nel 1945 Giuseppina Vittone arriva in Sicilia. Il partito la utilizza
per la campagna elettorale, molti anni dopo lei avrebbe ricordato quei giorni
con Miriam Mafai: «Mi mandarono subito a fare un comizio a Bisacquino. Fu un
incontro che ricordo con terrore. Non capivo nulla di quello che dicevano quei
compagni... ricordo ancora questa piazza di Bisacquino che le donne non
attraversavano mai, frequentata solo dagli uomini.
Avrò forse
parlato della Resistenza e della guerra di liberazione, ma il comizio venne
interrotto dal prete che fece suonare le campane». Forestiera e compagna di un
leader molto amato, Giuseppina rischia di rimanere soffocata nell'ombra ma
riesce a costruirsi una personalità autonoma. Intanto nel '46 si sposa con
matrimonio civile a Termini Imerese, il paese di Li Causi, perché nel Pci
moralista di quegli anni non bisognava suscitare scandalo. Poi decide di essere
siciliana. E ci riesce. Sino al punto di lanciarsi a parlare il dialetto
durante i comizi, lei che a Bisacquino non aveva capito una parola. Ritroviamo
Giuseppina Vittone in tutte le battaglie di quegli anni, la città e il suo
entroterra vivono problemi enormi e lei è sempre presente. Nella primavera del
'46 è con le donne dell'Udi - Unione donne italiane - nei paesi
dell'entroterra, per spiegare alle contadine il significato del referendum
istituzionale del2 giugno.È una dirigente comunista, organizza le altre
militanti: Lucia Mezzasalma ricorda l'abituale convocazione del lunedì mattina,
per fare il punto sui quartieri popolari di Palermo.
Giuseppina
partecipa all'occupazione delle terre e alcuni anni dopo, intervistata da
Marcello Cimino, afferma di stimare le contadine siciliane: «Soprattutto per il
loro senso di dignità,e per la forza morale con cui resistono ad episodi
talvolta feroci». Le campagne siciliane sono molto distanti da Torino, ma lei
vive così profondamente la Sicilia da diventare un capopopolo. Nei vicoli di
Palermo e nei latifondi non è sola, fa parte di una pattuglia di donne che
guidano le lotte per i diritti più elementari: Anna Grasso, Maria Fais,
Giuliana Saladino, Lina Colajanni, Maria Conti e tante altre: sono loro che
prendono su di sé il compito storico di avvicinare le donne del popolo alla
politica.
Gioacchino
Vizzini, nel 1959 segretario della palermitana Federazione giovanile comunista
- la Fgci - ricorda Giuseppina Vittone che tiene comizi nei vicoli
dell'Albergheria o affacciata a un balcone di Ballarò: «Era una trascinatrice.
Io, studente liceale, ho visto le donne che l'ascoltavano e piangevano
commosse». Nel centro storico ancora brulicante di residenti Giuseppina parla
della lotta per l'acqua, del lavoro, del diritto alla casa. Siamo in una città
dove il popolino vota i monarchici che fanno campagna elettorale con i pacchi
di pasta o di zucchero, lei comprende che il grande problema del partito
comunista coincide col mettere radici. Allora insiste sui diritti, cerca di
mostrare che non si tratta di parole astruse. E moltiplica i comizi «di strada
e di quartiere» che si tengono nei vicoli, sono l'unico modo per raggiungere le
donne che in piazza non vanno.
L'8 marzo
1953 Giuseppina Vittone lancia la Settimana della donna che vota, insedia
gruppi di lavoro nei vicoli e nei caseggiati. È all'Ars dal 1955 al '59, da
deputata regionale si intesta battaglie sulla parità salariale e il diritto al
lavoro. Continua a essere una volontaria-dirigente anche quando, nel 1960,
assieme alla famiglia lascia la Sicilia per trasferirsi a Roma. «Mi chiede se
era rimasta legata alla Sicilia? - conclude il figlio - Lei ormai era diventata
siciliana, tanto che parlava ancora con un forte accento».
Da La Repubblica, Palermo 10 settembre 2013
PS Mi pare utile ricordare nell'occasione quanto ha scritto Leonardo Sciascia su Girolamo Li Causi in Sicilia come metafora:
PS Mi pare utile ricordare nell'occasione quanto ha scritto Leonardo Sciascia su Girolamo Li Causi in Sicilia come metafora:
“L’uomo di
sinistra odierno non vive più come l’uomo di sinistra romantico di un tempo. Un
esempio di questo vecchio uomo di sinistra in via d’estinzione? Girolamo Li
Causi, una delle figure storiche del Pci, oltretutto fondatore del partito in
Sicilia; Li Causi è stato l’unico parlamentare credo che si sia rifiutato di
diventare proprietario di una casa. Oggi, i nuovi uomini di sinistra conducono
la stessa vita degli uomini di centro e di destra: stesse case, stessi svaghi,
stessi ambienti. Ha avuto luogo quella che Pier Paolo Pasolini chiamava
omologazione. Tutto questo non impedisce, ovviamente, che il partito comunista
abbia rappresentato e continui a rappresentare la parte migliore del paese,
vale a dire le persone che lavorano, le persone serie e oneste. […] Il mito
dell’Urss e di Stalin serviva ad assicurare al Pci il suo monolitismo e la sua
fermezza religiosa. La gente all’epoca non s’aspettava, da quel partito, che
offrisse posti di lavoro o favori in seno all’amministrazione o facilitazioni
nelle gare d’appalto. Se ne aspettava la rivoluzione, il cambiamento totale,
l’accesso a un nuovo modo di vivere e di pensare."
E vale la pena di sottolineare che nel 1979, anno dell'intervista a Marcelle Padovani che diventerà il libro da cui ho tratto il brano di sopra, Sciascia aveva rotto già da tempo con il PCI.
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