16 settembre 2013

COSE D'ALTRI TEMPI 1 e 2







Amelia Crisantino - La partigiana deputata che rifiutò i soldi dell'Ars 

PARTIGIANA, comunista, deputata e, soprattutto, esempio di etica politica con pochi precedenti e ancor meno epigoni.

«Mia madre è stata protagonista, ma non è stata una primadonna», riflette Luciano Li Causi, il figlio di Giuseppina Vittone Li Causi, la militante, siciliana adottiva, moglie di Girolamo Li Causi, morta pochi giorni fa. Giuseppina era molto riservata, anche in casa: luie la sorella Renata non hanno mai saputo come si sono incontrati i loro genitori. E solo adesso diventa pubblica la notizia che Giuseppina Vittone Li Causi, eletta all'Ars nel 1955, ha rifiutato lo stipendio da deputata perché in casa c'era già quello del marito. Un caso probabilmente unico in Italia, che rimanda a un alto profilo etico e a un'idea della politica come servizio per cui non ricevere alcun beneficio, ben lontano dagli sperperi abituali di Palazzo dei Normanni.

«Lei era sempre sobria, il suo non è stato un gesto pubblico», racconta il figlio Luciano. In quegli anni l'Ars aveva piena autonomia amministrativa, bastava un semplice deliberato del Consiglio di Presidenza a sistemare la faccenda dal punto di vista contabile: in quei verbali, oggi chiusi in cassaforte, non si avanzano certo analisi o ipotesi sull'insolita rinuncia. Né Giuseppina Vittone ha mai commentato la sua scelta in uno scritto o nelle rare interviste. Semplicemente, la ragazzina che tante volte aveva rischiato la vita come staffetta partigiana decide di rimanere per sempre una volontaria. E, in silenzio, radicalmente abbatte i costi della politica con un gesto ignorato ma esemplare. Da cui tanto ci sarebbe da imparare. Giuseppina Vittone aveva conosciuto il siciliano Girolamo Li Causi nel 1943. Lui era un prestigioso capo comunista, aveva 47 anni; lei era solo ventenne, ma aveva la determinazione dei ragazzi entrati nella Resistenza. Di famiglia operaia, su incarico del partito aveva frequentato un corso di stenografia per potere trascrivere i comunicati di Radio Londrae Radio Mosca. Inoltre assicurava la diffusione de L'Unità, pubblicazione mensile e poi quindicinale stampata a Milano. Pare niente ma era un'attività clandestina e pericolosa. Una volta, nel marzo del '43, a Mirafiori si organizzava uno sciopero e Giuseppina era andata a Milano, a prendere le copie del giornale: le portava strette intorno alla vita, tenute da uno spago che si ruppe per strada e fortuna che finì bene. Ma il pericolo era qualcosa con cui convivere,a Nord comea Sud. Cambiavano solo le vicende e lo sfondo, alle fabbriche torinesi seguivano i latifondi siciliani. Divenuta compagna di Li Causi, nel 1945 Giuseppina Vittone arriva in Sicilia. Il partito la utilizza per la campagna elettorale, molti anni dopo lei avrebbe ricordato quei giorni con Miriam Mafai: «Mi mandarono subito a fare un comizio a Bisacquino. Fu un incontro che ricordo con terrore. Non capivo nulla di quello che dicevano quei compagni... ricordo ancora questa piazza di Bisacquino che le donne non attraversavano mai, frequentata solo dagli uomini.

Avrò forse parlato della Resistenza e della guerra di liberazione, ma il comizio venne interrotto dal prete che fece suonare le campane». Forestiera e compagna di un leader molto amato, Giuseppina rischia di rimanere soffocata nell'ombra ma riesce a costruirsi una personalità autonoma. Intanto nel '46 si sposa con matrimonio civile a Termini Imerese, il paese di Li Causi, perché nel Pci moralista di quegli anni non bisognava suscitare scandalo. Poi decide di essere siciliana. E ci riesce. Sino al punto di lanciarsi a parlare il dialetto durante i comizi, lei che a Bisacquino non aveva capito una parola. Ritroviamo Giuseppina Vittone in tutte le battaglie di quegli anni, la città e il suo entroterra vivono problemi enormi e lei è sempre presente. Nella primavera del '46 è con le donne dell'Udi - Unione donne italiane - nei paesi dell'entroterra, per spiegare alle contadine il significato del referendum istituzionale del2 giugno.È una dirigente comunista, organizza le altre militanti: Lucia Mezzasalma ricorda l'abituale convocazione del lunedì mattina, per fare il punto sui quartieri popolari di Palermo.

Giuseppina partecipa all'occupazione delle terre e alcuni anni dopo, intervistata da Marcello Cimino, afferma di stimare le contadine siciliane: «Soprattutto per il loro senso di dignità,e per la forza morale con cui resistono ad episodi talvolta feroci». Le campagne siciliane sono molto distanti da Torino, ma lei vive così profondamente la Sicilia da diventare un capopopolo. Nei vicoli di Palermo e nei latifondi non è sola, fa parte di una pattuglia di donne che guidano le lotte per i diritti più elementari: Anna Grasso, Maria Fais, Giuliana Saladino, Lina Colajanni, Maria Conti e tante altre: sono loro che prendono su di sé il compito storico di avvicinare le donne del popolo alla politica.

Gioacchino Vizzini, nel 1959 segretario della palermitana Federazione giovanile comunista - la Fgci - ricorda Giuseppina Vittone che tiene comizi nei vicoli dell'Albergheria o affacciata a un balcone di Ballarò: «Era una trascinatrice. Io, studente liceale, ho visto le donne che l'ascoltavano e piangevano commosse». Nel centro storico ancora brulicante di residenti Giuseppina parla della lotta per l'acqua, del lavoro, del diritto alla casa. Siamo in una città dove il popolino vota i monarchici che fanno campagna elettorale con i pacchi di pasta o di zucchero, lei comprende che il grande problema del partito comunista coincide col mettere radici. Allora insiste sui diritti, cerca di mostrare che non si tratta di parole astruse. E moltiplica i comizi «di strada e di quartiere» che si tengono nei vicoli, sono l'unico modo per raggiungere le donne che in piazza non vanno.

L'8 marzo 1953 Giuseppina Vittone lancia la Settimana della donna che vota, insedia gruppi di lavoro nei vicoli e nei caseggiati. È all'Ars dal 1955 al '59, da deputata regionale si intesta battaglie sulla parità salariale e il diritto al lavoro. Continua a essere una volontaria-dirigente anche quando, nel 1960, assieme alla famiglia lascia la Sicilia per trasferirsi a Roma. «Mi chiede se era rimasta legata alla Sicilia? - conclude il figlio - Lei ormai era diventata siciliana, tanto che parlava ancora con un forte accento».

 Da La Repubblica,  Palermo 10 settembre 2013



PS   Mi pare utile ricordare nell'occasione quanto ha scritto Leonardo Sciascia su Girolamo Li Causi  in Sicilia come metafora:



“L’uomo di sinistra odierno non vive più come l’uomo di sinistra romantico di un tempo. Un esempio di questo vecchio uomo di sinistra in via d’estinzione? Girolamo Li Causi, una delle figure storiche del Pci, oltretutto fondatore del partito in Sicilia; Li Causi è stato l’unico parlamentare credo che si sia rifiutato di diventare proprietario di una casa. Oggi, i nuovi uomini di sinistra conducono la stessa vita degli uomini di centro e di destra: stesse case, stessi svaghi, stessi ambienti. Ha avuto luogo quella che Pier Paolo Pasolini chiamava omologazione. Tutto questo non impedisce, ovviamente, che il partito comunista abbia rappresentato e continui a rappresentare la parte migliore del paese, vale a dire le persone che lavorano, le persone serie e oneste. […] Il mito dell’Urss e di Stalin serviva ad assicurare al Pci il suo monolitismo e la sua fermezza religiosa. La gente all’epoca non s’aspettava, da quel partito, che offrisse posti di lavoro o favori in seno all’amministrazione o facilitazioni nelle gare d’appalto. Se ne aspettava la rivoluzione, il cambiamento totale, l’accesso a un nuovo modo di vivere e di pensare."

E vale la pena di sottolineare che nel 1979, anno dell'intervista a Marcelle Padovani che diventerà il libro da cui ho tratto il brano di sopra, Sciascia aveva rotto già da tempo con il PCI.
 

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