Giorgio Boatti – Oreste del Buono : tra cultura “alta” e “bassa”
Quando aveva
compiuto 80 anni, l’8 marzo 2003, Oreste del Buono aveva respinto con beffarda
ironia ogni tentativo di festeggiamento: «Che cosa si vuol festeggiare?», aveva
scritto ai lettori della Stampa nella sua rubrica delle lettere. «Di che cosa
ci si congratula? Del fatto che io sia ancora vivo? Anche questo è tutto da
vedere…».
A dieci anni
di distanza dalla sua morte, il 30 settembre di quello stesso 2003, viene da
pensare che il «tutto da vedere» riguardi, in realtà, il fatto che Oreste
davvero non ci sia più. Uscito di scena Oreste del Buono, rimane infatti, e si
amplia in sempre nuove e beffarde sfumature e fulminanti verità, il personaggio
Odb.
Oreste aveva
capito che vivere, e in una certa misura anche scrivere, è spargere indizi e
nasconderli al solo scopo di lasciarli venire alla luce a tempo debito e con
l’angolazione giusta. Oreste del Buono di indizi lungo la sua parabola
esistenziale ne ha disseminati non pochi e proprio di questi è fatto l’Odb che
gli sopravvive.
Probabilmente
Oreste ha cominciato a creare Odb sin da quando, bambino, frequentava quella
scuola Montessori di Roma - la prima in Italia - alla quale, negli ultimi anni,
riandava spesso con la memoria. Lo faceva con sempre maggiore ricchezza di
dettagli, magari nelle passeggiate milanesi tra una riunione editoriale e
l’altra, o nell’intervallo di pranzo al ristorante cinese all’angolo tra via
Ariosto e piazzale Baracca. Era come se quel palcoscenico di infantile umanità
stesse affollandosi di enigmatiche figure, di imprevedibili situazioni, a
confine tra il comico e il tragico. Bastava conoscere un poco l’amplissima
aneddotica che Oreste spargeva attorno a sé per capire che, anche in quel luogo
della sua infanzia, lui vedeva transitare il circo della vita - paradossale e
poetica, feroce e grottesca, surreale e ruvidamente minimalista - che lo
ipnotizzava da sempre. Dentro questo spettacolo collocava anche se stesso, e
dunque Odb; anche quando Odb non c’era ancora. O stava solo facendo
apprendistato.
Come quando,
per esempio, appena ventenne, nipote dell’eroe di guerra Teseo Tesei morto in
mare in quello che forse è l’unico «attacco suicida» della nostra storia
militare, Oreste decide di arruolarsi: si presenta volontario proprio quando
sta per scattare il «tutti a casa» dell’8 settembre ’43. Non sapendo nuotare
sceglie, ovviamente, di andare in Marina. Rinchiuso dai tedeschi in un Lager
militare, tenta di fuggire ma, novello soldato Svejk, sbaglia direzione e
s’infila in un altro Lager da cui, una volta scoperto, evade: rifugiandosi,
fino alla liberazione, nel Lager di provenienza. Di quell’esperienza - chissà
se era andata davvero in questo modo apparentemente lieve - diceva che mai si
era sentito libero come quando lo tenevano prigioniero.
Da allora
Oreste del Buono ha disseminato i suoi talenti su svariati fronti: dalla
narrativa alle collaborazioni giornalistiche, dalla direzione di Linus ai ruoli
rivestiti in case editrici diversissime. È stato soprattutto un esperto di
«ricognizioni ai bordi», verso quelle terre di nessuno - i fumetti, la satira,
i polizieschi, la pubblicità, il cinema, la tv - che ci si ostinava a
catalogare in cultura «bassa» o «alta».
Ovunque sia
passato, ha praticato quel gioco della libertà che gli è sempre piaciuto. Non a
caso ha imposto a Odb, il suo alter ego, di tenersi perennemente in esercizio:
il centinaio di dimissioni collezionate nel corso della sua carriera editoriale
stanno a dimostrarlo. Ma sbaglierebbe chi, depistato dall’aneddotica, pensasse
solo ai «no» puntigliosi o - altro stereotipo - al carattere difficile
dell’«elbano testardo, aspro e spigoloso» che pure c’era. Oreste era capace di
passare dalla battuta sarcastica a fulmini che non incenerivano: erano lampi
algidi, capaci di far intravedere quello che fino ad allora non si era stati
capaci di cogliere. Accanto ai fulmini e ai cento «no» stanno infatti gli
altrettanti 99 o 101 «sì», detti accettando nuove sfide editoriali e sapendo
riconoscere con rabdomantica sicurezza questioni rilevanti da tutti rimosse e
indisciplinati talenti che nessun altro aveva saputo vedere.
Col passare
del tempo Oreste del Buono e Odb parevano essere diventati una sola cosa: e
quanto più il personaggio si stagliava netto, tanto più la «loro» presenza si
definiva per sottotoni e sobrietà, si imponeva per elusioni e sottrazioni (le
dimissioni appunto, ma anche i tanti ritorni, seppure in punta di piedi).
Persino come autore, e di una grandezza tutta da riscoprire, Oreste del Buono
finiva col comportarsi come fosse Odb: capace a volte di imporre all’editore un
limite massimo (mille copie, si dice) nelle tirature dei propri libri. O -
accadde alla pubblicazione di Un’ombra dietro al cuore - decidendo di ritirare,
pagando di tasca propria, tutte le copie di un suo romanzo che non lo
convinceva più.
Indizi,
ovviamente. Sparsi a tempo debito. Affinché, accomiatatosi da Oreste del Buono,
Odb continuasse a illuminarci con i suoi lampi.
gboatti@venus.it
su LA STAMPA del 30 settembre 2013
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