19 settembre 2013

GODERSI MONTAIGNE ...




François Clouet dipinse questa “Diane de Poitiers”, nel 1571. 
 La tela è conservata alla National Gallery of Art, a Washington
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Il genio della letteratura rinascimentale amorevolmente riletto da Antoine Compagnon, un umanista francese che insegna in America, adora l’Italia ed è un fanatico della sprezzatura e dell’immaginazione a briglia sciolta.
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 Marina Valensise - Godetevi Montaigne
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Alzi la mano chi di questi tempi tormentati e incerti non rimpiange un’estate contemplativa, trascorsa in solitaria compagnia di un grande classico, maestro di saggezza e di pensiero come Michel del Montaigne, l’autore dei “Saggi”, il genio eclettico, lo scettico pirroniano tollerantissimo e smagato che ha insegnato all’Europa intera l’arte del relativo, plasmando di sé, dei suoi dubbi, delle sue bizzarie il libro più letto e sconclusionato della letteratura moderna. Alzi la mano chi davanti ai rivolgimenti attuali, che hanno visto la caduta degli dèi, la condanna di un leader, il silenzio, l’uscita di scena dalle cronache ferragostane del grande mattatore della politica italiana, non senta l’esigenza di raccogliere le forze per chiudersi in casa a meditare sulle avverse sorti imprevedibili dell’esistenza umana, sull’incostanza della fortuna, sull’alea imperscrutabile che avvolge le vicende dei grandi, dei forti, dei ricchi e potenti. Non saranno legioni. Non sarete legioni, voi lettori distratti dal cicaleccio dell’informazione a ritmo continuo. Ma quand’anche sparuti e rari, verrete serviti a puntino. Basta che vi procuriate l’ultimo libro di Antoine Compagnon. Si intitola “Un été avec Montaigne”, lo pubblica Equateurs parallèles, costa solo 12 euro per 170 pagine in 16°, lo potrete leggere in due ore, ma vi terrà compagnia per mesi, che dico, per anni, guida preziosa alla scoperta di voi stessi, secondo il socratico insegnamento del conosci te stesso.
L’autore è lo studioso degli antimoderni Antoine Compagnon, il teorico della letteratura, collaudato esperto di Proust, di Joseph de Maistre, di Paul Morand. I lettori del Foglio lo conoscono bene. Professore al Collège de France, ingegnere politecnico di formazione, e prima ancora figlio di un militare, cresciuto in America come ha raccontato nella sua recente autobiografica, “La Classe de rhéto”, pubblicala da Gallimard (che però non gli è valsa l’agognato seggio all’Académie francaise), Compagnon è l’ultimo umanista nostro contemporaneo. Saggista poliedrico, uomo delizioso, molto amante dell’Italia e di tutto ciò che rende unica, insostituibile e invidiabile la cultura italiana, in luglio è stato ospite a Parigi dell’istituto italiano di cultura e lui, che è soprattutto un genio umile, si è stupito di trovare la sala gremita di persone che nonostante il caldo africano desideravano solo sentirlo parlare dell’Italia. Ha raccontato la sua giovinezza romana, la scoperta dei Fori, delle chiese barocche, delle tele del Caravaggio a San Luigi dei Francesi, a Sant’Agostino, ha divagato con voluttà ricordando le sue cene nubili e infinite alla Campana, lo storico ristorante di via della Scrofa che sin dagli anni lontani dell’adolescenza non ha mai smesso di frequentare. “Non riesco a stare più di sei mesi lontano dall’Italia”, ha confessato infatti squarciando il velo di timidezza che avvolge di solito il suo parlare in pubblico, fatto di lunghe pause silenziose e pudibonde. Parlando a ruota libera, persino in italiano, lingua che conosce benissimo visto che la sua compagna è italiana, docente di Letteratura comparata a Ginevra, ha raccontato la sorpresa della scoperta di Brera, l’emozione davanti al “Cristo in scurto” del Mantegna, la gioia tutta stendhaliana di passeggiare per il centro di Milano. Ha rievocato persino un’avventura da turista scafato, il giorno in cui sfidando l’indifferenza del popolo minuto e la consustanziale negligenza che abita i custodi naturali del nostro patrimonio (nella fattispecie una vecchina di Monterchi detentrice delle chiavi che aprivano la porta all’affresco di Piero della Francesca), è riuscito finalmente a varcare quella soglia per vedere la “Madonna del parto”, grande enigmatico dipinto di Piero che rappresenta la Vergine incinta, con una mano sul ventre rigonfio, e due angeli che ai suoi lati le tengono aperta una tenda. Da allora, racconta Compagnon, non passa estate senza che compia un pellegrinaggio in Toscana, dove è aduso alzarsi all’alba per battere in lungo e largo le creste senesi e le colline d’Arezzo, in sella a una mountain bike ultraleggera.
Dunque, per tornare ai “Saggi” di Montaigne e riattingere alla saggezza di un genio rinascimentale, amante della vita, sensibile alla cultura italiana, fanatico dell’arte della sprezzatura di Baldassarre Castiglione, quel modo tutto italiano di far passare l’arte e l’artificio per una cosa molto naturale, non avreste potuto trovare intercessore migliore di Antoine Compagnon, il figlio di un militare cresciuto in caserma, il politecnico che ha abbandonato il genio civile per seguire le lezioni di Roland Barthes alla Sorbona, e poi si è messo a insegnare in proprio la letteratura, che ormai professa dal Collège de France, come una leggenda vivente, come un mito metropolitano.
I suoi corsi, infatti, sono frequentatissimi. Per trovare posto occorre presidiare l’aula con varie ore di anticipo. Andate sul sito della gloriosa istituzione fondata da Francesco I, http://www.collegedefrance.tv, cliccate sui suoi video e capirete perché. Compagnon in realtà è un perfetto  italianisant, uno di quei francesi antisistematici e non esagonali, curiosi dell’altro da sé, amanti dell’irrazionale, dell’intuitivo, fanatici della sprezzatura, del mondo anticartesiano, dell’immaginazione a briglia sciolta. E’ uno spirito libero, non conforme, amante di Dante, pensate un po’, ma non alla Dan Brown, semmai alla T. S. Eliot, quel Dante su cui purtroppo tiene corsi solo in America, nel semestre in cui insegna a New York. E’ un saggista sopraffino, sensibile agli inclassificabili, agli indifendibili, agli infami, tant’è che dopo la sua celebre summa sugli Antimodemi (di cui il Foglio diede conto il 19 marzo 2005), ha scritto un magnifico saggio biografico su Bernard Fay, ultimo fosco direttore della Bibliothèque nationale tra le due guerre, nato avanguardista, dadaista, americanista, intimo di Gertrude Stein, e finito collaborazionista e antisemita al soldo del regime filonazista di Vichy.
Nessuno dunque meglio di Compagnon poteva fungere da intercessore per ritornare a Montaigne, che è stato l’inventore dell’essai, della libera divagazione, della riflessione rapsodica, bizzarra, sfilacciata, fatta di osservazioni che saltano di palo in frasca, di aneddoti ed exempla tratti dai classici, come si conviene a un maestro del dubbio, a un moralista dall’animo in fieri, massimo aborritore dei sistemi, teologici, giuridici, filosofici che fossero, spregiatore delle gabbie imposte dalla verità rivelata e dal dogma che serve ad amministrarla in terra. Da francese anticartesiano e da cosmopolita italianisant, Compagnon ha deciso di farsene l’interprete ultracontemporaneo, guidando i lettori del Duemila fra i meandri di un libro prezioso. L’estate scorsa, lui che pure è un accademico ma non disdegna i media, ha accettalo l’invito da parte del direttore di France Inter, Philippe Val, a tenere una rubrica quotidiana sui “Saggi” di Montaigne dalle onde radio di quella stazione che Sarkozy presidente aveva dato in premio all’ex direttore di Charlie Hebdo, amico di Carla Bruni e soprattutto audace propalatore delle vignette danesi anti islamiche. Niente di più incongruente tra un mezzo tanto corrivo come la radio e l’eleganza rinascimentale del principe degli umanisti col suo florilegio di dotte citazioni in greco e in latino, il serbatoio di detti di Plutarco, Epaminonda, Cesare, Orazio, Lucrezio, Tibullo et j’en passe. C’erano tutte le condizioni per un disastro, e invece… l’incontro officiato da Philippe Val tra l’ultracontemporaneo mezzo di comunicazione di massa e il genio senza tempo di Michel de Montaigne, grazie a Compagnon, ha fatto scintille. Lo dimostra questo libretto delizioso che verrà prontamente tradotto da Adelphi.
In quaranta minuti capitoli, Compagnon stila una sintesi dei “Saggi” di Montaigne, a partire da quaranta estratti scelti un po’ a caso, senza starsi troppo a preoccupare della geometria del gusto o dell’equilibrio dei temi. Sin dal metodo di selezione, reale o presunto che sia, si capisce il debito che lega l’interprete al genio, lo studioso al suo oggetto di studio, l’intercessore alla sua fonte. In poche sapide pagine, Compagnon riassume, ritaglia, ricuce lunghi prolissi capitoli del signor di Montaigne, per restituirli all’uso concitato, al rapido consumo del lettore del Duemila, distratto dall’attenzione multivalente alla rigurgitante offerta quotidiana di informazione. Ce n’è per lutti i gusti. Si inizia, giustamente, dall’autoritratto dell’autore, che s’era dipinto solo di profilo, come osservò due secoli dopo Jean-Jacques Rousseau, il quale ebbe la presunzione di superarlo confessandosi di petto, di faccia, senza nascondere la cicatrice sul lato in ombra del volto che poteva alterare l’intera fisionomia dell’animo. E si continua così nella ricerca di sé e della propria identità, questa vertiginosa auscultazione dell’io, che cinque secoli dopo dà ancora i suoi frutti abbondanti, anche se l’esibizionismo prevale sulla conoscenza.
Per raccontare la grandezza dell’antesignano, Compagnon mette subito le mani avanti. Solitario Montaigne? Avulso dalla politica, prigioniero della sua torre d’avorio nel castello in Dordogna (unica rimasta dopo l’incendio di fine Ottocento), tutto intento a dialogare in panni curiali con i maestri antichi pur di sfuggire all’agitazione del secolo? Quando mai. Montaigne fu soprattutto un uomo d’azione. Prima di essere un contemplativo appagato, patito del suo privato, del suo orizzonte domestico, fu un negoziatore indefesso, mediatore tra cattolici e protestanti, visto che visse in pieno le guerre di religione. Consigliere al Parlamento di Bordeaux – era nato in una famiglia di commercianti di aringhe salate che s’era abbondantemente arricchita per vivere ormai nobilmente – a 41 anni, nel 1574, venne incaricato dal duca di Montpensier del piano di difesa strategica della città. E nel 1580, l’anno della prima edizione degli “Essais”, in due primi libri che per decenni verranno aggiornati, ampliati, aumentati, lo ritroviamo all’assedio di La Fère, prima di intraprendere il lungo viaggio che lo porterà fino a Roma, durante il quale venne eletto sindaco della sua città. Passano altri otto anni, ed eccolo a Chartres, a Rouen, al seguito di Enrico II, il giovane scacciato da Parigi dalla giornata delle Barricate, e infine alla Bastiglia, dove restò prigioniero solo poche ore per essere liberato subito dall’intervento di Caterina de’ Medici. Tutta la vita di Montaigne fu dunque lacerata da guerre civili, violenze, agguati, assedi, morti improvvise, assassinii. Era stato abituato a risvegliarsi da bambino al suono della viola, e a rivolgersi ai domestici in latino. Come fece a sopravvivere a tanta violenza? Semplicissimo, risponde Compagnon riprendendo le parole del Maestro: riuscì nell’impresa impossibile evitando infingimenti, maschere, simulazioni e menzogne. Era un audace, un uomo franco, verace, incapace di sotterfugi; privilegiò la spontaneità, parlò la lingua senza inganni della verità, della “verità semplice che è sempre quella dell’utile individuale e del vantaggio negli affari”. E gli andò bene. “Negoziatore delicato e novizio, preferisco mancare l’affare piuttosto che me stesso”, ammette infatti lui stesso all’inizio del Terzo libro (cito dall’edizione a cura di Virginio Enrico negli Oscar Mondadori, ma dovreste procurarvi la nuova edizione della splendida traduzione della grande Fausta Garavini, uscita l’anno scorso da Bompiani). Montaigne non è un machiavellico, nota Compagnon. Non pensa che il fine giustifichi i mezzi. Al contrario, è un uomo libero, uno spirito genuino, che ama dire ciò che pensa e presentarsi sempre a viso aperto, parlando col cuore in mano, convinto com’è che la fedeltà alla parola data ripaghi ben di più della menzogna o dell’inganno. “Coloro i quali dicono, contro quanto io dichiaro, che ciò che chiamiamo franchezza, tranquillità e spontaneità nei miei costumi è arte e astuzia, e piuttosto prudenza che bontà, industria più che natura, buon senso più che buona ventura, mi fanno più onore di quanto non me ne tolgano. Ma certo essi fanno la mia astuzia troppo astuta: e a chi mi avrà seguito e spiato da vicino, gliela darò vinta, se non confessa che non c’è regola nella loro scuola, che sapesse presentare questo movimento naturale e mantenere un’apparenza di libertà e di licenza tanto uguale fra strade così tortuose e diverse, e che tutta la loro attenzione e il loro ingegno non ve li saprebbe condurre”.
Poi c’è la conversazione che rappresenta un’eccezione a quanto detto, perché spesso è un modo di accettare l’ipocrisia, di cedere alle idee altrui per mera cortesia. La dissimulazione, in questo caso, è un indice di tolleranza, una misura di civiltà non solo consentita, ma addirittura incoraggiata. Perché la conversazione è per Montaigne l’esercizio più fecondo della mente umana, l’azione più piacevole dell’esistenza, ed è sempre uno scambio, mai un duello. Sia reso omaggio agli italiani i quali, scrive Montaigne culturalmente affine, “a loro grande vantaggio come si evince dal confronto dei nostri ingegni con i loro ne conservano le vestigia dell’antico onore in cui i Romani tenevano l’esercizio”. La conversazione infatti è un’arte viva di imparare cose che invece languono nei libri, ma è anche un modo per fortificare l’animo, accettando giudizi contrari e contrastanti, purché non vengano da interlocutori arroganti, troppo sicuri di sé e del fatto loro e dunque intolleranti. “Io faccio festa e carezze alla verità in qualsiasi mano la trovi e mi ci arrendo lietamente, e le tendo le mie armi vinte, da lontano quando la vedo accostarsi. E purché non si venga avanti con una grinta troppo imperiosa e precettorale, mi presto alle osservazioni che si fanno sui miei scritti e spesso li ho cambiati più per considerazione di urbanità che per considerazione di miglioramento; giacché mi piace di ringraziare e di alimentare la libertà di avvisarmi per la facilità di cedere; sì, a spese mie”.
Eppure, un simile atteggiamento è una rarità fra i contemporanei di Montaigne, che parlano sempre per dissimulazione. Lui invece dice quello che pensa. Adora a tal punto di essere giudicato e valutato, che resta indifferente all’una o all’altra forma.
La saggezza infatti per lui sta nel movimento, nel passage, nel moto perpetuo dell’animo e della mente umana, che implica contrasti, contraddizioni, variazioni infinite e dunque dubbio, perplessità, e perciò libertà di giudizio e soprattutto sospensione del giudizio. “La mia mente si contraddice così spesso e si condanna che per me è tutt’uno che lo faccia un altro: visto soprattutto che do alla di lui correzione solo l’autorità che voglio io”.
Ecco il dominio dell’io, unico arbitro, unico giudice, unico sommo sacerdote al quale obbedire. Montaigne è un genio mobile che descrive il divenire. E’ un moralista che non forma l’uomo, non vuole educarlo, correggerlo, plasmarlo; si limita a raccontarlo, a dipingerlo per come realmente è, senza interventi correttivi o coercitivi. “Altri modellano l’uomo; io lo racconto e ne rappresento uno particolare molto mal formato, che, se io dovessi modellarlo di nuovo farei molto diversamente da quello che è”, dichiara modestamente nel secondo capitolo del Terzo libro dei “Saggi”, intitolato “Del pentimento”. Il mondo è una continua altalena. Tutte le cose vanno su e giù di continuo; la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d’Egitto, e la costanza stessa è solo un movimento più languido, più lento. Per questo, Montaigne è convinto di non poter fermare il suo oggetto di studio. Non ritrae l’essere, ma ne descrive il passage. Ma cosa è questo passaggio? Non il passaggio da uno stato all’altro, da un’età all’altra, bensì la registrazione di vari accidenti mutevoli, di tante irresolute fantasie spesso contrarie e contrapposte. Il che presuppone di contraddirsi molto, senza però contraddire mai la verità. “Se la mia anima potesse fermarsi, non farei prova di me, mi risolverei: essa invece è sempre a scuola, sempre in prova”. Ecco allora la pedagogia del passage descritta da Giovanni Macchia in questi termini: “Lontano da ogni vanità e prevenzione teorica, dubbioso e scettico sulla validità di qualsiasi posizione intellettualistica e apriorista, egli, con la sua calma affettuosa, con serietà, proponendo non altro fine se non quello, com’egli diceva, domestico e privato, insegue l’uomo (e cioè se stesso)  ondoyant et divers, senza fissarlo in una definizione, perché non si può fissare ciò che eternamente muta, e ne registra, per così dire, le idee, i sentimenti, le variazioni delle idee e dei sentimenti, nella realtà viva della sua sostanza morale”.
Tutto scorre dunque, e se tutto scorre e tutto cambia, nulla vi è di stabile sotto il cielo. Posta la difficoltà a fermare la verità in un punto fisso, come una verità rivelata una volta per tutte, bisogna dunque rassegnarsi a un relativismo perenne, cercando solo di trovare il proprio assetto nel mondo, come un cavaliere che monta a cavallo, e cambia il passo e l’andatura a seconda delle terre che attraversa. Ecco allora che la pedagogia del passaggio, l’assetto precario, la costante ricerca di un equilibrio invita al relativismo, alla sospensione del giudizio, all’arte pirroniana di uno scetticismo attivo. Gli indiani dell’Antartico incontrati a Rouen nel 1562, al cospetto di Carlo IX, re dodicenne, si stupiscono che tanti grandi e forti armati, barbuti e possenti obbediscano a un fanciullo, piuttosto che farsi comandare da uno di loro; trovano strano che tanti mendicanti smagriti dalla fame e dalla miseria possano restarsene tranquilli di fronte alle case dei ricchi e dei grandi, che rigurgitano di ogni lusso e comodità. Chi sono i selvaggi? Si domanda Montaigne, che dice di aver dimenticato il terzo motivo di perplessità di quegli indiani. Chi sono i veri barbari? Chi sono i primitivi? “Ognuno chiama barbarie quello che non è nei nostri costumi; come veramente sembra che noi non abbiamo altra pietra di paragone della verità e della ragione, che l’esempio e l’idea delle opinioni e delle usanze del paese in cui siamo. Qui si trova sempre la religione perfetta, il regime perfetto, l’uso perfetto e rifinito di ogni cosa. Essi sono selvaggi, allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo; laddove, in verità, sono quelli che noi abbiamo alterato col nostro artificio e distorto dal comune ordine, che dovremmo chiamare piuttosto selvatici”.
Inizia così la grande stagione dell’autocritica perenne della coscienza europea. Quella perversa coscienza di sé, quel tarlo dell’insicurezza e del dubbio che oggi sembra trionfare nella perfetta dissoluzione di una cultura minata nella sua sicurezza, nella sua autostima dal confronto critico col mondo, ebbe in Montaigne il suo grande inventore, fino a degenerare cinque secoli dopo nel radicalismo del politicamente corretto, nel nichilismo della sfiducia e dell’indifferenza. Qualcosa non quadra però. Lungi da lui l’idea di condannare il mondo all’ignavia, all’insipienza, all’insignificanza. Montaigne per i suoi tempi era un audace, proprio perché era un moderato, uno spirito quieto, calmo, riflessivo, distaccato certo, amava porre la distanza dell’ironia tra le azioni dell’uomo e il suo essere, ma era lontano anni luce dal fanatismo, dal radicalismo estremo, dall’intransigenza dogmatica. Era un uomo del dubbio, un pirroniano al modo antico, cultore dell’astensione e della sospensione del giudizio. Ma non si sarebbe riconosciuto nel dogmatismo della decadenza, nell’accidiosa morale del declino e della decadenza, nella fine del primato dell’occidente per la fregola del decostruzionismo nichilista o del neodogmatismo secolarista. Lui era alla ricerca dell’identità, era un perlustratore della coscienza e delle sabbie mobili su cui muove la coscienza. Chi è l’uomo? Chi siamo noi se il nostro corpo si agita, si muove e agisce al di fuori della nostra volontà? Dove sta l’io, se non c’è accordo tra la mente e il cuore? Cent’anni prima di Cartesio e quattro secoli prima di Freud, nota Compagnon, Montaigne si mette a perlustrare l’inquietudine della soggettività. E gli basta descrivere una caduta da cavallo, avverte sempre Compagnon, per concepire una nuova teoria dell’identità, precaria, discontinua, incerta, fuori controllo, che ancora oggi parla al nostro cuore di contemporanei.
Facciamo un solo esempio, ma in sintonia coi nostri tempi di esibizionistica pornografia. Pudicamente. Compagnon offre molti spunti eleganti del modo di ragionare di Montaigne, del suo rappresentare le stranezze del mondo e del suo tempo, per meglio suffragare la sua perplessità, l’indecisione, l’incapacità di scegliere tra due visioni o due partiti contrapposti. C’è l’ermafrodito incontrato a Vitry-le-Francois nel suo famoso viaggio del 1580, un vecchio barbuto e celibe che fino a ventidue anni era stato chiamato Marie ed era diventato Germain in seguito a uno sforzo fisico, un grande salto, che ebbe la conseguenza di estroflettere il membro sino ad allora rivolto all’interno. Una mostruosità, un prodigio, uno dei tanti di cui il Rinascimento abbonda e sproloquia liberamente. Ne aveva già parlato il celebre chirurgo Ambroise Pare, ma Montaigne minimizza: fanno bene le ragazze a evitare i salti in lungo per non diventare maschi, ma la vera causa di questa metamorfosi non è lo sforzo fisico, bensì la forza dell’immaginazione. A forza di pensare al sesso le ragazze finiscono per produrlo, a forza di desiderare l’uomo, lo diventano esse stesse. Salace teoria del desiderio, fondato su “la force de l’appui du manque” che Jacques Lacan teorizzerà quattro secoli dopo, e che serve a Montaigne non solo a divagare tra il serio e il faceto sulla potenza dell’immaginario, ma forse persino a burlarsene, suo malgrado.
Compagnon è attentissimo a questi scarti di umore, agli slittamenti di tono, al passaggio dalla solennità attica di una citazione classica alla trivialità rabelaisiana delle miserie quotidiane. Ritorna di gusto sul famoso capitolo dei “Saggi” in cui Montaigne racconta per filo e per segno di quella volta in cui “Monsieur ma partie”, come egli pudicamente chiamava il proprio organo sessuale, fece cilecca dopo che un amico gli ebbe raccontato il suo proprio smarrimento e lui si rimise a pensare all’inconveniente. E’ la parte più salace e inconfessabile dei “Saggi”, diario ineffabile della disarmonia tra mente e corpo, testa e fallo. Compagnon se la cava egregiamente, quando insiste sull’imponderabilità dello iato che separa l’uomo da se stesso, i suoi organi dalla sua volontà. Ma la sua sintesi, stavolta, è troppo rapida. Meglio tornare all’originale, al saggio sulla “Forza dell’immaginazione”, per testare il modo in cui Montaigne sviluppa il tema, inficiando da solo la sua stessa teoria. Eccolo dunque raccontare senza pudori l’episodio stregonesco che lo vide protagonista, grazie a una certa laminetta d’oro da legare sotto il mento contro il mal di testa, per venire in aiuto di un suo intimo amico che la sera delle nozze temeva di non essere all’altezza. Alle prime avvisaglie, gli diede da indossare la sua camicia da notte, gli disse di ripetere tre volte certe orazioni, legandosi la medaglietta con un nastro sui reni, e ritornare quindi al compito, con la camicia da notte sul letto a mo’ di coperta. “La nostra mente non può credere che procedimenti così strani non provengano da qualche scienza astratta. La loro inutilità conferisce ad essi credito e rispetto”, ammonisce il maestro di saggezza. Ma tant’è, il risultato ci fu eccome. “Fu accertato che le mie doti furono trovate più Veneree che Solari, più per l’azione che per la continenza. Pur essendo nemico delle azioni astute e delle finzioni, possiedo un’astuzia non solo sollazzevole, ma utilitaria. Se il fatto in sé non è condannabile, lo è la strada che vi porta”, ammette Montaigne a titolo cautelativo, prima di distillare la morale a uso coniugale: guai alle mogli troppo riluttanti, che raffreddano ogni slancio. Guai alle troppo leggere che si lasciano insidiare da altri, turbando il legittimo ardore dello sposo. E via con i classici: la donna che va a letto con un uomo deve, con la veste, abbandonare anche la vergogna, e riprenderla con la gonna, diceva la nuora di Pitagora. Il coraggio dell’assalitore, turbato da più allarmi diversi, si perde facilmente; e colui al quale l’immaginazione ha fatto subire una volta quell’onta, se ha cominciato male, è colto dall’agitazione e dal dispetto per quell’incidente, che gli si ripete nelle occasioni successive. Perciò, gli ammogliati, avendo a disposizione tutto il tempo necessario, non abbiano fretta, non siano troppo solleciti nell’impresa. Meglio uno smacco iniziale, che una continua miseria per essersene disperati. Dunque, “prima di prendere possesso, il paziente si deve a gradi e a tempi diversi provare e offrire senza impuntarsi e intestardirsi, per convincersi definitivamente lui stesso. Coloro che sanno i loro membri di facile natura, si curino soltanto di illudere la loro fantasia”.
Così, in uno stesso paragrafo Montaigne dice e disdice, giura di amare solo la franchezza, di abborrire i sotterfugi, ma non esita a mettersi in scena come protagonista di un delirante espediente, fondato sullo scherno, sull’astuzia, sull’inganno, anche se a fin di bene. Sublime dimostrazione dell’arte di vivere, e di vivere la contraddizione umana, della libertà di guardare all’uomo per quello che vale, con le sue miserie, le sue paure, le sue assurde pretese, le sue glorie fallaci e le sue piccole vanità. Niente di più salutare e liberatorio per riconciliarci con noi stessi in un’estate difficile.


Da il Foglio 15 settembre 2013

  

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