François Clouet dipinse questa “Diane de Poitiers”, nel 1571.
La tela è conservata alla National Gallery of Art, a Washington
.
Il genio della letteratura rinascimentale
amorevolmente riletto da Antoine Compagnon, un umanista francese che
insegna in America, adora l’Italia ed è un fanatico della sprezzatura e
dell’immaginazione a briglia sciolta.
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Marina Valensise - Godetevi Montaigne
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Alzi la mano chi di questi tempi
tormentati e incerti non rimpiange un’estate contemplativa, trascorsa in
solitaria compagnia di un grande classico, maestro di saggezza e di
pensiero come Michel del Montaigne, l’autore dei “Saggi”, il genio
eclettico, lo scettico pirroniano tollerantissimo e smagato che ha
insegnato all’Europa intera l’arte del relativo, plasmando di sé, dei
suoi dubbi, delle sue bizzarie il libro più letto e sconclusionato della
letteratura moderna. Alzi la mano chi davanti ai rivolgimenti attuali,
che hanno visto la caduta degli dèi, la condanna di un leader, il
silenzio, l’uscita di scena dalle cronache ferragostane del grande
mattatore della politica italiana, non senta l’esigenza di raccogliere
le forze per chiudersi in casa a meditare sulle avverse sorti
imprevedibili dell’esistenza umana, sull’incostanza della fortuna,
sull’alea imperscrutabile che avvolge le vicende dei grandi, dei forti,
dei ricchi e potenti. Non saranno legioni. Non sarete legioni, voi
lettori distratti dal cicaleccio dell’informazione a ritmo continuo. Ma
quand’anche sparuti e rari, verrete serviti a puntino. Basta che vi
procuriate l’ultimo libro di Antoine Compagnon. Si intitola “Un été avec
Montaigne”, lo pubblica Equateurs parallèles, costa solo 12 euro per
170 pagine in 16°, lo potrete leggere in due ore, ma vi terrà compagnia
per mesi, che dico, per anni, guida preziosa alla scoperta di voi
stessi, secondo il socratico insegnamento del conosci te stesso.
L’autore è lo studioso degli antimoderni
Antoine Compagnon, il teorico della letteratura, collaudato esperto di
Proust, di Joseph de Maistre, di Paul Morand. I lettori del Foglio lo
conoscono bene. Professore al Collège de France, ingegnere politecnico
di formazione, e prima ancora figlio di un militare, cresciuto in
America come ha raccontato nella sua recente autobiografica, “La Classe
de rhéto”, pubblicala da Gallimard (che però non gli è valsa l’agognato
seggio all’Académie francaise), Compagnon è l’ultimo umanista nostro
contemporaneo. Saggista poliedrico, uomo delizioso, molto amante
dell’Italia e di tutto ciò che rende unica, insostituibile e invidiabile
la cultura italiana, in luglio è stato ospite a Parigi dell’istituto
italiano di cultura e lui, che è soprattutto un genio umile, si è
stupito di trovare la sala gremita di persone che nonostante il caldo
africano desideravano solo sentirlo parlare dell’Italia. Ha raccontato
la sua giovinezza romana, la scoperta dei Fori, delle chiese barocche,
delle tele del Caravaggio a San Luigi dei Francesi, a Sant’Agostino, ha
divagato con voluttà ricordando le sue cene nubili e infinite alla
Campana, lo storico ristorante di via della Scrofa che sin dagli anni
lontani dell’adolescenza non ha mai smesso di frequentare. “Non riesco a
stare più di sei mesi lontano dall’Italia”, ha confessato infatti
squarciando il velo di timidezza che avvolge di solito il suo parlare in
pubblico, fatto di lunghe pause silenziose e pudibonde. Parlando a
ruota libera, persino in italiano, lingua che conosce benissimo visto
che la sua compagna è italiana, docente di Letteratura comparata a
Ginevra, ha raccontato la sorpresa della scoperta di Brera, l’emozione
davanti al “Cristo in scurto” del Mantegna, la gioia tutta stendhaliana
di passeggiare per il centro di Milano. Ha rievocato persino
un’avventura da turista scafato, il giorno in cui sfidando
l’indifferenza del popolo minuto e la consustanziale negligenza che
abita i custodi naturali del nostro patrimonio (nella fattispecie una
vecchina di Monterchi detentrice delle chiavi che aprivano la porta
all’affresco di Piero della Francesca), è riuscito finalmente a varcare
quella soglia per vedere la “Madonna del parto”, grande enigmatico
dipinto di Piero che rappresenta la Vergine incinta, con una mano sul
ventre rigonfio, e due angeli che ai suoi lati le tengono aperta una
tenda. Da allora, racconta Compagnon, non passa estate senza che compia
un pellegrinaggio in Toscana, dove è aduso alzarsi all’alba per battere
in lungo e largo le creste senesi e le colline d’Arezzo, in sella a una
mountain bike ultraleggera.
Dunque, per tornare ai “Saggi” di
Montaigne e riattingere alla saggezza di un genio rinascimentale, amante
della vita, sensibile alla cultura italiana, fanatico dell’arte della
sprezzatura di Baldassarre Castiglione, quel modo tutto italiano di far
passare l’arte e l’artificio per una cosa molto naturale, non avreste
potuto trovare intercessore migliore di Antoine Compagnon, il figlio di
un militare cresciuto in caserma, il politecnico che ha abbandonato il
genio civile per seguire le lezioni di Roland Barthes alla Sorbona, e
poi si è messo a insegnare in proprio la letteratura, che ormai professa
dal Collège de France, come una leggenda vivente, come un mito
metropolitano.
I suoi corsi, infatti, sono
frequentatissimi. Per trovare posto occorre presidiare l’aula con varie
ore di anticipo. Andate sul sito della gloriosa istituzione fondata da
Francesco I, http://www.collegedefrance.tv, cliccate sui suoi video e capirete perché. Compagnon in realtà è un perfetto italianisant,
uno di quei francesi antisistematici e non esagonali, curiosi
dell’altro da sé, amanti dell’irrazionale, dell’intuitivo, fanatici
della sprezzatura, del mondo anticartesiano, dell’immaginazione a
briglia sciolta. E’ uno spirito libero, non conforme, amante di Dante,
pensate un po’, ma non alla Dan Brown, semmai alla T. S. Eliot, quel
Dante su cui purtroppo tiene corsi solo in America, nel semestre in cui
insegna a New York. E’ un saggista sopraffino, sensibile agli
inclassificabili, agli indifendibili, agli infami, tant’è che dopo la
sua celebre summa sugli Antimodemi (di cui il Foglio diede conto il 19
marzo 2005), ha scritto un magnifico saggio biografico su Bernard Fay,
ultimo fosco direttore della Bibliothèque nationale tra le due guerre,
nato avanguardista, dadaista, americanista, intimo di Gertrude Stein, e
finito collaborazionista e antisemita al soldo del regime filonazista di
Vichy.
Nessuno dunque meglio di Compagnon poteva fungere da intercessore per ritornare a Montaigne, che è stato l’inventore dell’essai,
della libera divagazione, della riflessione rapsodica, bizzarra,
sfilacciata, fatta di osservazioni che saltano di palo in frasca, di
aneddoti ed exempla tratti dai classici, come si conviene a un
maestro del dubbio, a un moralista dall’animo in fieri, massimo
aborritore dei sistemi, teologici, giuridici, filosofici che fossero,
spregiatore delle gabbie imposte dalla verità rivelata e dal dogma che
serve ad amministrarla in terra. Da francese anticartesiano e da
cosmopolita italianisant, Compagnon ha deciso di farsene
l’interprete ultracontemporaneo, guidando i lettori del Duemila fra i
meandri di un libro prezioso. L’estate scorsa, lui che pure è un
accademico ma non disdegna i media, ha accettalo l’invito da parte del
direttore di France Inter, Philippe Val, a tenere una rubrica quotidiana
sui “Saggi” di Montaigne dalle onde radio di quella stazione che
Sarkozy presidente aveva dato in premio all’ex direttore di Charlie
Hebdo, amico di Carla Bruni e soprattutto audace propalatore delle
vignette danesi anti islamiche. Niente di più incongruente tra un mezzo
tanto corrivo come la radio e l’eleganza rinascimentale del principe
degli umanisti col suo florilegio di dotte citazioni in greco e in
latino, il serbatoio di detti di Plutarco, Epaminonda, Cesare, Orazio,
Lucrezio, Tibullo et j’en passe. C’erano tutte le condizioni per un
disastro, e invece… l’incontro officiato da Philippe Val tra
l’ultracontemporaneo mezzo di comunicazione di massa e il genio senza
tempo di Michel de Montaigne, grazie a Compagnon, ha fatto scintille. Lo
dimostra questo libretto delizioso che verrà prontamente tradotto da
Adelphi.
In quaranta minuti capitoli, Compagnon
stila una sintesi dei “Saggi” di Montaigne, a partire da quaranta
estratti scelti un po’ a caso, senza starsi troppo a preoccupare della
geometria del gusto o dell’equilibrio dei temi. Sin dal metodo di
selezione, reale o presunto che sia, si capisce il debito che lega
l’interprete al genio, lo studioso al suo oggetto di studio,
l’intercessore alla sua fonte. In poche sapide pagine, Compagnon
riassume, ritaglia, ricuce lunghi prolissi capitoli del signor di
Montaigne, per restituirli all’uso concitato, al rapido consumo del
lettore del Duemila, distratto dall’attenzione multivalente alla
rigurgitante offerta quotidiana di informazione. Ce n’è per lutti i
gusti. Si inizia, giustamente, dall’autoritratto dell’autore, che s’era
dipinto solo di profilo, come osservò due secoli dopo Jean-Jacques
Rousseau, il quale ebbe la presunzione di superarlo confessandosi di
petto, di faccia, senza nascondere la cicatrice sul lato in ombra del
volto che poteva alterare l’intera fisionomia dell’animo. E si continua
così nella ricerca di sé e della propria identità, questa vertiginosa
auscultazione dell’io, che cinque secoli dopo dà ancora i suoi frutti
abbondanti, anche se l’esibizionismo prevale sulla conoscenza.
Per raccontare la grandezza
dell’antesignano, Compagnon mette subito le mani avanti. Solitario
Montaigne? Avulso dalla politica, prigioniero della sua torre d’avorio
nel castello in Dordogna (unica rimasta dopo l’incendio di fine
Ottocento), tutto intento a dialogare in panni curiali con i maestri
antichi pur di sfuggire all’agitazione del secolo? Quando mai. Montaigne
fu soprattutto un uomo d’azione. Prima di essere un contemplativo
appagato, patito del suo privato, del suo orizzonte domestico, fu un
negoziatore indefesso, mediatore tra cattolici e protestanti, visto che
visse in pieno le guerre di religione. Consigliere al Parlamento di
Bordeaux – era nato in una famiglia di commercianti di aringhe salate
che s’era abbondantemente arricchita per vivere ormai nobilmente – a 41
anni, nel 1574, venne incaricato dal duca di Montpensier del piano di
difesa strategica della città. E nel 1580, l’anno della prima edizione
degli “Essais”, in due primi libri che per decenni verranno aggiornati,
ampliati, aumentati, lo ritroviamo all’assedio di La Fère, prima di
intraprendere il lungo viaggio che lo porterà fino a Roma, durante
il quale venne eletto sindaco della sua città. Passano altri otto anni,
ed eccolo a Chartres, a Rouen, al seguito di Enrico II, il giovane
scacciato da Parigi dalla giornata delle Barricate, e infine alla
Bastiglia, dove restò prigioniero solo poche ore per essere liberato
subito dall’intervento di Caterina de’ Medici. Tutta la vita di
Montaigne fu dunque lacerata da guerre civili, violenze, agguati,
assedi, morti improvvise, assassinii. Era stato abituato a risvegliarsi
da bambino al suono della viola, e a rivolgersi ai domestici in latino.
Come fece a sopravvivere a tanta violenza? Semplicissimo, risponde
Compagnon riprendendo le parole del Maestro: riuscì nell’impresa
impossibile evitando infingimenti, maschere, simulazioni e menzogne. Era
un audace, un uomo franco, verace, incapace di sotterfugi; privilegiò
la spontaneità, parlò la lingua senza inganni della verità, della
“verità semplice che è sempre quella dell’utile individuale e del
vantaggio negli affari”. E gli andò bene. “Negoziatore delicato e
novizio, preferisco mancare l’affare piuttosto che me stesso”, ammette
infatti lui stesso all’inizio del Terzo libro (cito dall’edizione a cura
di Virginio Enrico negli Oscar Mondadori, ma dovreste procurarvi la
nuova edizione della splendida traduzione della grande Fausta Garavini,
uscita l’anno scorso da Bompiani). Montaigne non è un machiavellico,
nota Compagnon. Non pensa che il fine giustifichi i mezzi. Al contrario,
è un uomo libero, uno spirito genuino, che ama dire ciò che pensa e
presentarsi sempre a viso aperto, parlando col cuore in mano, convinto
com’è che la fedeltà alla parola data ripaghi ben di più della menzogna o
dell’inganno. “Coloro i quali dicono, contro quanto io dichiaro, che
ciò che chiamiamo franchezza, tranquillità e spontaneità nei miei
costumi è arte e astuzia, e piuttosto prudenza che bontà, industria
più che natura, buon senso più che buona ventura, mi fanno più onore di
quanto non me ne tolgano. Ma certo essi fanno la mia astuzia troppo
astuta: e a chi mi avrà seguito e spiato da vicino, gliela darò vinta,
se non confessa che non c’è regola nella loro scuola, che sapesse
presentare questo movimento naturale e mantenere un’apparenza di libertà
e di licenza tanto uguale fra strade così tortuose e diverse, e che
tutta la loro attenzione e il loro ingegno non ve li saprebbe condurre”.
Poi c’è la conversazione che rappresenta
un’eccezione a quanto detto, perché spesso è un modo di accettare
l’ipocrisia, di cedere alle idee altrui per mera cortesia. La
dissimulazione, in questo caso, è un indice di tolleranza, una misura di
civiltà non solo consentita, ma addirittura incoraggiata. Perché la
conversazione è per Montaigne l’esercizio più fecondo della mente umana,
l’azione più piacevole dell’esistenza, ed è sempre uno scambio, mai un
duello. Sia reso omaggio agli italiani i quali, scrive Montaigne
culturalmente affine, “a loro grande vantaggio come si evince dal
confronto dei nostri ingegni con i loro ne conservano le vestigia
dell’antico onore in cui i Romani tenevano l’esercizio”. La
conversazione infatti è un’arte viva di imparare cose che invece
languono nei libri, ma è anche un modo per fortificare l’animo,
accettando giudizi contrari e contrastanti, purché non vengano da
interlocutori arroganti, troppo sicuri di sé e del fatto loro e dunque
intolleranti. “Io faccio festa e carezze alla verità in qualsiasi mano
la trovi e mi ci arrendo lietamente, e le tendo le mie armi vinte, da
lontano quando la vedo accostarsi. E purché non si venga avanti con una
grinta troppo imperiosa e precettorale, mi presto alle osservazioni che
si fanno sui miei scritti e spesso li ho cambiati più per considerazione
di urbanità che per considerazione di miglioramento; giacché mi piace
di ringraziare e di alimentare la libertà di avvisarmi per la facilità
di cedere; sì, a spese mie”.
Eppure, un simile atteggiamento è una
rarità fra i contemporanei di Montaigne, che parlano sempre per
dissimulazione. Lui invece dice quello che pensa. Adora a tal punto di
essere giudicato e valutato, che resta indifferente all’una o all’altra
forma.
La saggezza infatti per lui sta nel movimento, nel passage, nel moto perpetuo dell’animo e della mente umana, che implica contrasti, contraddizioni, variazioni infinite e dunque dubbio, perplessità, e perciò libertà di giudizio e soprattutto sospensione del giudizio. “La mia mente si contraddice così spesso e si condanna che per me è tutt’uno che lo faccia un altro: visto soprattutto che do alla di lui correzione solo l’autorità che voglio io”.
La saggezza infatti per lui sta nel movimento, nel passage, nel moto perpetuo dell’animo e della mente umana, che implica contrasti, contraddizioni, variazioni infinite e dunque dubbio, perplessità, e perciò libertà di giudizio e soprattutto sospensione del giudizio. “La mia mente si contraddice così spesso e si condanna che per me è tutt’uno che lo faccia un altro: visto soprattutto che do alla di lui correzione solo l’autorità che voglio io”.
Ecco il dominio dell’io, unico arbitro,
unico giudice, unico sommo sacerdote al quale obbedire. Montaigne è un
genio mobile che descrive il divenire. E’ un moralista che non forma
l’uomo, non vuole educarlo, correggerlo, plasmarlo; si limita a
raccontarlo, a dipingerlo per come realmente è, senza interventi
correttivi o coercitivi. “Altri modellano l’uomo; io lo racconto e ne
rappresento uno particolare molto mal formato, che, se io dovessi
modellarlo di nuovo farei molto diversamente da quello che è”, dichiara
modestamente nel secondo capitolo del Terzo libro dei “Saggi”,
intitolato “Del pentimento”. Il mondo è una continua altalena. Tutte le
cose vanno su e giù di continuo; la terra, le rocce del Caucaso, le
piramidi d’Egitto, e la costanza stessa è solo un movimento più
languido, più lento. Per questo, Montaigne è convinto di non poter
fermare il suo oggetto di studio. Non ritrae l’essere, ma ne descrive il
passage. Ma cosa è questo passaggio? Non il passaggio da uno
stato all’altro, da un’età all’altra, bensì la registrazione di vari
accidenti mutevoli, di tante irresolute fantasie spesso contrarie e
contrapposte. Il che presuppone di contraddirsi molto, senza però
contraddire mai la verità. “Se la mia anima potesse fermarsi, non farei
prova di me, mi risolverei: essa invece è sempre a scuola, sempre in
prova”. Ecco allora la pedagogia del passage descritta da
Giovanni Macchia in questi termini: “Lontano da ogni vanità e
prevenzione teorica, dubbioso e scettico sulla validità di qualsiasi
posizione intellettualistica e apriorista, egli, con la sua calma
affettuosa, con serietà, proponendo non altro fine se non quello,
com’egli diceva, domestico e privato, insegue l’uomo (e cioè se stesso) ondoyant et divers,
senza fissarlo in una definizione, perché non si può fissare ciò che
eternamente muta, e ne registra, per così dire, le idee, i sentimenti,
le variazioni delle idee e dei sentimenti, nella realtà viva della sua
sostanza morale”.
Tutto scorre dunque, e se tutto scorre e
tutto cambia, nulla vi è di stabile sotto il cielo. Posta la difficoltà a
fermare la verità in un punto fisso, come una verità rivelata una volta
per tutte, bisogna dunque rassegnarsi a un relativismo perenne,
cercando solo di trovare il proprio assetto nel mondo, come un cavaliere
che monta a cavallo, e cambia il passo e l’andatura a seconda delle
terre che attraversa. Ecco allora che la pedagogia del passaggio,
l’assetto precario, la costante ricerca di un equilibrio invita al
relativismo, alla sospensione del giudizio, all’arte pirroniana di uno
scetticismo attivo. Gli indiani dell’Antartico incontrati a Rouen nel
1562, al cospetto di Carlo IX, re dodicenne, si stupiscono che tanti
grandi e forti armati, barbuti e possenti obbediscano a un fanciullo,
piuttosto che farsi comandare da uno di loro; trovano strano che tanti
mendicanti smagriti dalla fame e dalla miseria possano restarsene
tranquilli di fronte alle case dei ricchi e dei grandi, che rigurgitano
di ogni lusso e comodità. Chi sono i selvaggi? Si domanda Montaigne, che
dice di aver dimenticato il terzo motivo di perplessità di quegli
indiani. Chi sono i veri barbari? Chi sono i primitivi? “Ognuno chiama
barbarie quello che non è nei nostri costumi; come veramente sembra che
noi non abbiamo altra pietra di paragone della verità e della ragione,
che l’esempio e l’idea delle opinioni e delle usanze del paese in cui
siamo. Qui si trova sempre la religione perfetta, il regime perfetto,
l’uso perfetto e rifinito di ogni cosa. Essi sono selvaggi, allo stesso
modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da
sé nel suo naturale sviluppo; laddove, in verità, sono quelli che noi
abbiamo alterato col nostro artificio e distorto dal comune ordine, che
dovremmo chiamare piuttosto selvatici”.
Inizia così la grande stagione
dell’autocritica perenne della coscienza europea. Quella perversa
coscienza di sé, quel tarlo dell’insicurezza e del dubbio che oggi
sembra trionfare nella perfetta dissoluzione di una cultura minata nella
sua sicurezza, nella sua autostima dal confronto critico col mondo,
ebbe in Montaigne il suo grande inventore, fino a degenerare cinque
secoli dopo nel radicalismo del politicamente corretto, nel nichilismo
della sfiducia e dell’indifferenza. Qualcosa non quadra però. Lungi da
lui l’idea di condannare il mondo all’ignavia, all’insipienza,
all’insignificanza. Montaigne per i suoi tempi era un audace, proprio
perché era un moderato, uno spirito quieto, calmo, riflessivo,
distaccato certo, amava porre la distanza dell’ironia tra le azioni
dell’uomo e il suo essere, ma era lontano anni luce dal fanatismo, dal
radicalismo estremo, dall’intransigenza dogmatica. Era un uomo del
dubbio, un pirroniano al modo antico, cultore dell’astensione e della
sospensione del giudizio. Ma non si sarebbe riconosciuto nel dogmatismo
della decadenza, nell’accidiosa morale del declino e della decadenza,
nella fine del primato dell’occidente per la fregola del
decostruzionismo nichilista o del neodogmatismo secolarista. Lui era
alla ricerca dell’identità, era un perlustratore della coscienza e delle
sabbie mobili su cui muove la coscienza. Chi è l’uomo? Chi siamo noi se
il nostro corpo si agita, si muove e agisce al di fuori della nostra
volontà? Dove sta l’io, se non c’è accordo tra la mente e il cuore?
Cent’anni prima di Cartesio e quattro secoli prima di Freud, nota
Compagnon, Montaigne si mette a perlustrare l’inquietudine della
soggettività. E gli basta descrivere una caduta da cavallo, avverte
sempre Compagnon, per concepire una nuova teoria dell’identità,
precaria, discontinua, incerta, fuori controllo, che ancora oggi parla
al nostro cuore di contemporanei.
Facciamo un solo esempio, ma in sintonia
coi nostri tempi di esibizionistica pornografia. Pudicamente. Compagnon
offre molti spunti eleganti del modo di ragionare di Montaigne, del suo
rappresentare le stranezze del mondo e del suo tempo, per meglio
suffragare la sua perplessità, l’indecisione, l’incapacità di scegliere
tra due visioni o due partiti contrapposti. C’è l’ermafrodito incontrato
a Vitry-le-Francois nel suo famoso viaggio del 1580, un vecchio barbuto
e celibe che fino a ventidue anni era stato chiamato Marie ed era
diventato Germain in seguito a uno sforzo fisico, un grande salto, che
ebbe la conseguenza di estroflettere il membro sino ad allora rivolto
all’interno. Una mostruosità, un prodigio, uno dei tanti di cui il
Rinascimento abbonda e sproloquia liberamente. Ne aveva già parlato il
celebre chirurgo Ambroise Pare, ma Montaigne minimizza: fanno bene le
ragazze a evitare i salti in lungo per non diventare maschi, ma la vera
causa di questa metamorfosi non è lo sforzo fisico, bensì la forza
dell’immaginazione. A forza di pensare al sesso le ragazze finiscono per
produrlo, a forza di desiderare l’uomo, lo diventano esse stesse.
Salace teoria del desiderio, fondato su “la force de l’appui du manque”
che Jacques Lacan teorizzerà quattro secoli dopo, e che serve a
Montaigne non solo a divagare tra il serio e il faceto sulla potenza
dell’immaginario, ma forse persino a burlarsene, suo malgrado.
Compagnon è attentissimo a questi scarti
di umore, agli slittamenti di tono, al passaggio dalla solennità attica
di una citazione classica alla trivialità rabelaisiana delle miserie
quotidiane. Ritorna di gusto sul famoso capitolo dei “Saggi” in cui
Montaigne racconta per filo e per segno di quella volta in cui “Monsieur
ma partie”, come egli pudicamente chiamava il proprio organo sessuale,
fece cilecca dopo che un amico gli ebbe raccontato il suo proprio
smarrimento e lui si rimise a pensare all’inconveniente. E’ la parte più
salace e inconfessabile dei “Saggi”, diario ineffabile della disarmonia
tra mente e corpo, testa e fallo. Compagnon se la cava egregiamente,
quando insiste sull’imponderabilità dello iato che separa l’uomo da se
stesso, i suoi organi dalla sua volontà. Ma la sua sintesi, stavolta, è
troppo rapida. Meglio tornare all’originale, al saggio sulla “Forza
dell’immaginazione”, per testare il modo in cui Montaigne sviluppa il
tema, inficiando da solo la sua stessa teoria. Eccolo dunque raccontare
senza pudori l’episodio stregonesco che lo vide protagonista, grazie a
una certa laminetta d’oro da legare sotto il mento contro il mal di
testa, per venire in aiuto di un suo intimo amico che la sera delle
nozze temeva di non essere all’altezza. Alle prime avvisaglie, gli diede
da indossare la sua camicia da notte, gli disse di ripetere tre volte
certe orazioni, legandosi la medaglietta con un nastro sui reni, e
ritornare quindi al compito, con la camicia da notte sul letto a mo’ di
coperta. “La nostra mente non può credere che procedimenti così strani
non provengano da qualche scienza astratta. La loro inutilità conferisce
ad essi credito e rispetto”, ammonisce il maestro di saggezza. Ma
tant’è, il risultato ci fu eccome. “Fu accertato che le mie doti furono
trovate più Veneree che Solari, più per l’azione che per la continenza.
Pur essendo nemico delle azioni astute e delle finzioni, possiedo
un’astuzia non solo sollazzevole, ma utilitaria. Se il fatto in sé non è
condannabile, lo è la strada che vi porta”, ammette Montaigne a titolo
cautelativo, prima di distillare la morale a uso coniugale: guai alle
mogli troppo riluttanti, che raffreddano ogni slancio. Guai alle troppo
leggere che si lasciano insidiare da altri, turbando il legittimo ardore
dello sposo. E via con i classici: la donna che va a letto con un uomo
deve, con la veste, abbandonare anche la vergogna, e riprenderla con la
gonna, diceva la nuora di Pitagora. Il coraggio dell’assalitore, turbato
da più allarmi diversi, si perde facilmente; e colui al quale
l’immaginazione ha fatto subire una volta quell’onta, se ha cominciato
male, è colto dall’agitazione e dal dispetto per quell’incidente, che
gli si ripete nelle occasioni successive. Perciò, gli ammogliati, avendo
a disposizione tutto il tempo necessario, non abbiano fretta, non siano
troppo solleciti nell’impresa. Meglio uno smacco iniziale, che una
continua miseria per essersene disperati. Dunque, “prima di prendere
possesso, il paziente si deve a gradi e a tempi diversi provare e
offrire senza impuntarsi e intestardirsi, per convincersi
definitivamente lui stesso. Coloro che sanno i loro membri di facile
natura, si curino soltanto di illudere la loro fantasia”.
Così, in uno stesso paragrafo Montaigne
dice e disdice, giura di amare solo la franchezza, di abborrire i
sotterfugi, ma non esita a mettersi in scena come protagonista di un
delirante espediente, fondato sullo scherno, sull’astuzia, sull’inganno,
anche se a fin di bene. Sublime dimostrazione dell’arte di vivere, e di
vivere la contraddizione umana, della libertà di guardare all’uomo per
quello che vale, con le sue miserie, le sue paure, le sue assurde
pretese, le sue glorie fallaci e le sue piccole vanità. Niente di più
salutare e liberatorio per riconciliarci con noi stessi in un’estate
difficile.
Da il Foglio 15 settembre 2013
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