20 settembre 2013

BANCHE E CRISI




Riprendiamo da http://www.nazioneindiana.com la Prefazione al libro
Banche e crisi ( 2013, Derive Approdi)




 Sergio Bologna – Banche e crisi

Quando Marx inizia la collaborazione con la “New York Daily Tribune” è alle prese con la prima stesura di quel nucleo d’idee che sarà sviluppato nei tre libri de “Il Capitale”. E’ un magma incandescente che prende forma pian piano, alimentato più che dalle conoscenze e dalle riflessioni sedimentate negli anni precedenti, dalla realtà di tutti i giorni dell’innovazione capitalistica. Non sappiamo come definire questa coincidenza. Un caso o in realtà non si tratta di coincidenza ma di genesi? Marx si è costruito propri schemi di lettura ma la realtà superava la sua immaginazione e lo aiutava a perfezionare i suoi schemi, a renderli più sofisticati, più calzanti. Mi è sembrato utile, quando scrissi questo saggio qui ripubblicato, capire meglio cosa stava accadendo in quel momento nel mondo, alla metà dell’Ottocento, piuttosto di scavare nell’intimità del processo di pensiero di Marx. Era cominciata la seconda rivoluzione industriale, non era una cosa da nulla, si stava facendo il passo decisivo verso la creazione di un mercato mondiale. Si agiva su due piani: sul piano immateriale, con la moneta, con la finanza, e sul piano fisico, con le infrastrutture, con i mezzi di trasporto.
La forma ‘società per azioni’, le banche d’affari, nascono per realizzare queste infrastrutture fisiche, il Canale di Suez, le reti ferroviarie, i porti. Uno dei principali partner finanziari dei fratelli Péreire, grandi protagonisti degli articoli di Marx per la ”Tribune”, è quel De Ferrari a cui si deve il lascito che ha permesso di costruire il porto moderno di Genova. Uno dei principali partner finanziari di Lesseps, non a caso da lui nominato Vicepresidente della Compagnia del Canale di Suez, è quel barone Revoltella al quale si deve la prima impostazione “logistica” del porto di Trieste. Grazie a lui la prima nave che attraversa il Canale è una nave partita dal porto di Trieste e battezzata non a caso il “Primo”. Nel ricostruire la storia economica di quegli anni ero guidato da un gigante della storiografia, David S. Landes, autore di uno dei più bei libri di storia mai scritti, quel Bankers and Pashas che riacquista oggi grande attualità con il protagonismo finanziario degli emiri del Golfo. Ma non mi bastava conoscere meglio la storia che Marx aveva sotto gli occhi e quindi, con il senno del poi, scoprirne altri aspetti a lui rimasti oscuri o ignoti, avevo bisogno di capire meglio quel che stava sotto i miei occhi. Non era concepibile, e non lo è per me nemmeno oggi, prendere in mano un testo di Marx senza essere immediatamente attratti dalla curiosità di capire ciò che succede intorno a noi in modo da verificare fino a che punto funziona lo schema interpretativo che Marx ci offre. Perché funziona sempre, in maggior o minor misura.






L’articolo su petrolio e mercato mondiale per i “Quaderni Piacentini” è parte integrante della lettura di Marx. Era stato preceduto da due altri articoli, sempre sui “Quaderni Piacentini”, riguardanti il Piano Chimico, un episodio non secondario della politica industriale italiana, quando ancora si faceva una politica industriale. Mi sembrava un esempio calzante di applicazione di quel concetto di “rivoluzione dall’alto” che Marx aveva cercato di definire negli scritti di quegli anni, nei Grundrisse e negli articoli per la “Tribune”. Coincidenza volle che nel ’73 scoppia la crisi petrolifera e allora quegli articoli mi appaiono in tutta la loro importanza. Altro che lavoretti per tirar su un po’ di soldi! Sono linee di lettura della realtà che permettono di capirla, di capire cosa ci sta sotto, né più né meno che “Le lotte di classe in Francia”, sono strumenti di una potenza interpretativa che regge benissimo anche oggi e che la ricerca storica successiva ha convalidato. Il fascino di quegli articoli sta anche nel semplice fatto di essere scritti da un tedesco allora non particolarmente famoso, costretto anzi all’esilio, per un giornale americano, come se il pensiero rivoluzionario fosse già in grado di avere un’estensione adeguata al mercato mondiale e i collegamenti tra gruppi e movimenti avessero già un campo d’azione intercontinentale. Le biografie di quelli che furono i primi “rivoluzionari di professione”, proletari come Weitling, sarto di mestiere, o di altri come lui, ci raccontano di uomini che si muovevano, per amore o per forza, da un paese all’altro. E questo orizzonte internazionale bisogna sempre tenerlo presente quando si legge Marx.
Non so quanto valgono oggi questi miei scritti del ‘73/’74, può darsi che siano da buttare nel cestino. Ma quello che sicuramente è ancora valido è il metodo che avevo seguito nell’avvicinarmi a quei temi: per leggere Marx occorre avere una forte tensione politica sul presente. Per leggere Marx occorre avere una forte partecipazione politica nelle lotte del presente, Marx non è roba per contemplativi, mistici e altre categorie affini. O per imbecilli (una quota non irrilevante di “marxisti” appartiene purtroppo a questa categoria). Per leggere Marx non occorre essere marxista, anzi è meglio non esserlo, occorre avere libertà di pensiero, tanta. Non avere pregiudizi, non avere schemi di pensiero predefiniti, non avere ideologie. Lui ti insegna a capire la ratio invisibile che sta dietro alle cose, non ha la pretesa di spiegartele. Ti prende semplicemente per il braccio e ti dice: “Vieni qua. Mettiti qua e alza gli occhi, guarda da questo angolo visuale”. Ti mette semplicemente nel punto giusto di osservazione e ti dice: “Da qui io vedo questo. E tu?” Non è prescrittivo, è maieutico.

Io venivo dagli anni 60, dal maggio francese, dalle lotte dei tecnici, dagli scioperi selvaggi alla Fiat, e non avevo intenzione di tirare i remi in barca, volevo creare uno strumento di ricerca che contenesse, come programma, i valori espressi da quei movimenti di massa. Non volevo essere un intellettuale “organico”, ma volevo dimostrare di saper usare gli strumenti di lavoro degli intellettuali, in particolare gli utensili di uno dei mestieri cognitivi più belli e affascinanti, quello dello storico, per poterli usare in maniera diversa. “Militante” la chiamammo allora, Primo Moroni, Bruno Cartosio, Franco Mogni, Giancarlo Buonfino ed io, facendo sorridere di commiserazione gli storici accreditati e ancor più gli aspiranti tali. Così nasce la rivista “Primo Maggio”, il saggio su Marx appare, in forma ridotta, sul numero uno e apre un filone di ricerca che avrebbe fatto strada, quello sulla moneta. Lapo Berti, Andrea Battinelli, Franco Gori, Christian Marazzi, Marcello Messori, Serena Di Gaspare, Mario Zanzani ed altri raccolgono il testimone. Avevamo trent’anni, avessimo saputo che 35/40 anni dopo la finanziarizzazione avrebbe raggiunto il grado di mostruosità di oggi! Ancora una volta la realtà ha superato l’immaginazione. Noi a rivisitare con cautela Bretton Woods e quelli a preparare una bolla che vale undici volte il PIL mondiale! Siamo stati ingenui? Sì, ma alzi la mano chi è stato così “scafato” da capire tutto in anticipo.
Diciamo allora che questa riedizione di vecchi testi serve solo a far capire oggi quanto fossimo ingenui allora? Per questo sfizio valeva la pena mangiarsi i soldi per la stampa? Eh sì, perché non sono affatto convinto che fossimo tanto ingenui e sprovveduti e per dimostrarlo ho voluto inserire due testi scritti oggi. Parlano del presente, di cose che tutti hanno sotto gli occhi e tutti possono giudicare se il modo in cui le interpreto è così superficiale o ingenuo o “ideologico”. Non ho adottato un diverso schema di lettura da quello che mi è servito per lo shock petrolifero, non mi sono messo da un angolo visuale diverso. Certo, non ho alle spalle anni di lotte ma sei lustri di lavoro nel settore, perlomeno posso dire che parlo con un’esperienza personale sul gobbo, mentre di petrolio ne sapevo poco o niente oppure quel poco che mi capitava di sentire alle riunioni del Comitato di lotta dell’ENI o Collettivo della Snam Progetti (tra l’altro, se non ricordo male, fu grazie a questi compagni che potei accedere alla biblioteca aziendale dell’ENI dove trovai molti materiali indispensabili alla stesura del saggio, gli altri li trovai alla biblioteca dell’USIS di Milano). Ho scelto d’inserire questi due saggi, scritti ora, sullo shipping e sui porti perché parlano anch’essi di mercato mondiale (oggi chiamato ‘globalizzazione’), di mezzi di trasporto, di infrastrutture e di banche, parlano dell’ultimo capitolo di quella storia cominciata con i fratelli Péreire e così lucidamente analizzata da Marx. Allora c’era da tagliare l’istmo di Suez, oggi si allarga il canale di Panama, allora il compito di rastrellare capitali presso le corti e le cancellerie d’Europa era svolto da spregiudicati banchieri d’affari, oggi il compito di racimolare soldi presso piccoli risparmiatori e di spennarli con investimenti sbagliati è distribuito tra una miriade di società finanziarie protette dallo Stato. Su questi temi ho chiesto a Gian Enzo Duci, giovane Presidente degli Agenti marittimi genovesi e docente all’Università di Genova, di scrivere qualcosa anche in contraddittorio con le mie opinioni. Lui è uno del mestiere, che sta dentro le cose, un operatore, non un osservatore esterno come, malgrado tutto, sono io. Ma ha sempre dimostrato interesse per quello che scrivo, pronto a rimettere in discussione qualche sua opinione consolidata e io ho imparato parecchio da lui. Lo ringrazio di aver accettato.

Mi si può dire che dietro i miei scritti di allora c’era l’offensiva operaia, era quella che mi dava la credibilità. Mi si può dire: “il valore delle tue analisi non era dato dal metodo o dall’ispirazione marxista, bensì da una congiuntura di particolare contestazione del sistema capitalistico. Oggi chi lo contesta? Oggi dove sono le lotte operaie? Oggi dov’è la classe operaia? Proprio tu con i tuoi scritti sul postfordismo ci hai riempito la testa sul tramonto della classe operaia!”
Un momento. Sarà finita la classe operaia come soggetto politico importante, ma non la forza lavoro da cui estrarre qualcosa che avevamo chiamato plusvalore. E poi chi vi dice che la lotta operaia nelle sue forme tradizionali è estinta? Proprio lo sciopero dei portuali di Los Angeles del dicembre 2012, di cui parlo nel secondo dei due scritti, dovrebbe far riflettere, soprattutto per alcune sue modalità non meramente “difensive”. Dalla California l’agitazione nei porti americani si è estesa alla costa orientale ed è andata avanti per mesi. Il 28 marzo di quest’anno sono entrati in sciopero i portuali di Hong Kong ed hanno tenuto duro per un mese, accampandosi davanti ai terminal, così, senza una dirigenza sindacale, senza un comitato di lotta formalmente costituito. E se qualcuno avesse la pazienza di seguire le riviste di settore dei trasporti che informano settimanalmente o giornalmente su quanto succede nel mondo, si accorgerebbe che la conflittualità nei porti, negli aeroporti, sulle autostrade, sui traghetti, nelle piattaforme logistiche, è molto elevata, senza confronti con gli altri settori industriali o commerciali. In questo filone s’inseriscono anche i due scioperi generali, ben riusciti, indetti dai Cobas nei magazzini e nelle piattaforme della logistica in Italia nei primi mesi di quest’anno 2013. Non si tratta soltanto di “segnali” ma di una condizione strutturale propria di un settore dove lo sciopero, ancora, per ragioni tecnico-organizzative, può “far male” e dove la forza lavoro ha ancora un potere d’interdizione quasi intatto. Non è fantascienza dire che uno sciopero dei trasporti e della logistica bene congegnato, anche con poche forze, può mettere in ginocchio un paese nel giro di un paio di giorni.
Trasporti e logistica non li ho scoperti adesso o quando, espulso dall’Università, mi sono messo a fare il consulente. Erano già un tema all’ordine del giorno della rivista “Primo Maggio”, che nel 1978 pubblica un articolo sulla storia del container e nello stesso anno un intero Dossier sulle lotte nel settore dei trasporti di merce. Un secondo Dossier della rivista sarà dedicato alla moneta. Finanza e trasporti, i due filoni del discorso di Marx negli articoli per la ‘Tribune’, ci hanno dettato l’agenda.
Non c’è molto altro da dire. Spero con queste righe di aver dimostrato che i saggi qui pubblicati, benché i loro titoli possano far pensare il contrario, non sono scollegati tra loro, anzi, per certi versi sono interdipendenti. Il che non li rende migliori ma almeno fa capire benissimo l’autore da che parte sta. “Dalla parte del torto”, direbbe Piergiorgio Bellocchio, che con Grazia Cerchi ha fondato e diretto i “Quaderni Piacentini”, una splendida rivista, dove l’intellettualità italiana ha avuto, per un ventennio, modo di riscattarsi.



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