19 settembre 2013

IL MIGLIOR D'ARRIGO

Paul  Klee


Questo saggio è tratto da Per commento e per chiosa. Saggi, avvicinamenti e fantasie, l'ultimo libro di Flavio Santi apparso qualche mese fa (2013) per le Edizioni Joker di Novi Ligure. Questa mattina è stato pubblicato nel sito http://www.leparoleelecose.it/ e da qui lo riprendiamo.

FLAVIO SANTI – IL POETA ASSASSINATO. IL MIGLIOR D’ARRIGO

La letteratura? Che stai dicendo? A che serve? Dove la mettiamo?
Per piacere, sto creando un universo, io, mica un’università. Niente letteratura
Philip Roth

La poesia del Novecento siciliano è un mistero, a ben pensarci: l’unico rappresentante parrebbe Quasimodo; e poi in dialetto Ignazio Buttitta[1]. Possibile che una regione così vivace, la Russia d’Italia secondo una felice intuizione di Massimo Onofri, la chiave di tutto il Paese secondo Goethe, sia nel Novecento un’isola depauperata di poeti? Una regione con la stessa superficie come la Lombardia ne ha prodotti a decine nel Novecento – mi si passi una valutazione puramente tappezzieristica. E se invece si provasse a cambiare prospettiva? Si rovesciasse l’assunto e si considerasse D’Arrigo un poeta a ventiquattro carati prima che un romanziere? Il Novecento, più di ogni altro secolo, ci ha abituati a unicità e singolarità: un grande poeta come Saba che concepisce un unico romanzo, e guarda caso uno dei più lucidi di tutto il secolo appena trascorso; uno dei più interessanti romanzi è un’opera interrupta, Petrolio, e via di seguito, di eccezione in eccezione. Il Novecento è stato il secolo dove l’apparentemente secondario, marginale, l’incompiuto diventa fondante, angolare, focale.
L’eccessivamente compiuto può tramontare. Sappiamo tutti la storia dell’Africa di Petrarca, e delle speranze di immortalità a essa legate; poi vennero – per sua e nostra fortuna – i fragmenta. Ora, nel Novecento italiano la storia per eccellenza del eccessivamente lavorato va sotto il nome di D’Arrigo e di Horcynus Orca, un’ossessione che ha del calvinista e del luddistico, sfociante sovente in un’opera «ansimante, indigesta, opaca»[2].
Vengo subito alla tesi: il miglior D’Arrigo è il poeta. Quindi le poesie (Codice siciliano, prima Scheiwiller 1957, e poi, ampliato, Mondadori 1978) non sarebbero semplicemente, come scrisse Giuseppe Pontiggia, «archetipo e insieme incunabolo di Horcynus Orca» (riprendendo del resto l’opinione dello stesso autore che il romanzo era «tutto in questo libretto di liriche»), ma si configurerebbero come l’esito più alto dell’intero corpus. Come si può capire, qua non si tenta una critica delle fonti e degli intertesti, tesa a verificare i travasi da un testo all’altro, bensì qualcosa che si avvicini a un’approssimazione di giudizio di valore, perché comunque è che si accasa in ultima istanza ogni gesto critico, spogliato dalle vanità di scuole e correnti: esso, infatti, non essendo formalizzabile in un numero o in alcunché di misurabile e quantificabile, quindi di “oggettivo”, alla fine qualcos’altro deve dirci. Da questo punto di vista Manzoni nella prefazione al Carmagnola fornisce il più onesto (e crudele) criterio di valutazione dell’opera letteraria: «ogni componimento presenta a chi voglia esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio; e a mio avviso sono questi: quale sia l’intento dell’autore; se questo intento sia ragionevole; se l’autore l’abbia conseguito».
Le poesie sono il luogo dove le tematiche più ossessive (il tema del nostos, dell’equoreo, delle radici greco-romane, dell’eros selvaggio ecc.) hanno trovato pieno compimento, senza indulgere in vizi catalogatori sfibranti, in perniciose ecolalie e catene di sant’antonio semantiche. Il D’Arrigo romanziere appartiene a quegli scrittori che, come scriveva Ernesto Sabato, cercano di «sbalordire con un avverbio quando è in gioco la vita o la morte di uno dei [...] personaggi», e ciò – al di là dei gusti personali – è più che lecito: importa però che esistano una rispondenza e una funzionalità d’intenti, e quando queste vengono meno è l’intrinseca natura dell’opera a cedere. Sintetizza mirabilmente il concetto Pietro Citati: «ha rovinato il suo bellissimo libro perché si è inconsciamente convinto che l’ispirazione poetica sia una forma di ossessione o di droga, con la quale intontire il lettore e se stessi»[3].
Lo sguardo di D’Arrigo è barocco, questo è chiaro, e di per sé non è né un bene né un male: è una scelta di poetica. Ma bisogna far sì che questa propensione, naturale, radicata, crei quello che gli aristotelici chiamerebbero sinolo, l’unità di materia e forma, cioè dunque che contenuto e lingua si fondano e si compenetrino. Spesso in Horcynus Orca una delle due componenti prevarica sull’altra – di solito la lingua –, sortendo effetti di disorientamento. In Codice siciliano questo rischio è quasi sempre sventato, con risultati più evidenti e stabili. Innanzitutto risulta subito chiaro un aspetto (che spesso il gorgo orcinico disarcionava): è dominante il senso di sgomento e deprivazione per una lingua che tende alla deriva e allo smembramento, all’azzeramento infine: le varie possibilità, che poi si rivelano per quello che sono, vere e proprie impossibilità, vengono declinate in uno dei testi maggiormente indiziari, In una lingua che non so più dire:
Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga.
O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d’anfora, a quartara.
O in una lingua che alla pece affida
l’orma sua, l’inoltra a sera nell’estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d’Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.
O in una lingua che le pone in capo
una corona, un cercine di piume,
un nido di pensieri in cima in cima.
O in quella lingua che la mormora
sul fiume ventilato di papiri,
su una foglia o sul palmo della mano.
O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d’Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,
nel verso tenebroso della quaglia.
O in una lingua che non so più dire.
“La lingua non sa”, ecco il vero assunto darrighiano, tragicamente limitante e suicidario. La lettera, se non è in grado di suggellare in memoria, uccide: «Morire forse nei libri di scuola» recita la lirica eponima. Il vero barocco è funereo, non celebra la vitalità della parola ma il suo ultimo spasmo, conscio della «breve vita» e della «lunga morte» (Versi per la madre e per la quaglia, 7, vv. 7-8). Le parole come residui seborroici della vita, «squame» che «galleggiano» (Dove galleggiano squame), l’accessus ad Parnasum non può che condurre ai «prati, ora in cenere, d’Omero» (Sui prati, ora in cenere, d’Omero): la lingua come «alfabeto di morti / emigranti» (Pregreca), dunque sistema morto, e per morti, e rivolto a morti. Beata perciò la madre del poeta che può «rimare, analfabeta» (Versi per la madre e per la quaglia, 8, v. 2), portatrice in sé di quella «aurea / semplicità di un poeta che si chiama / Saba» (ivi, vv. 4-6). Da notare che Saba è l’unico poeta italiano menzionato nel corso di tutta la raccolta, e si pone come idolo paradossale di D’Arrigo. Come dire: l’autore è barocco malgré lui. Questo essere D’Arrigo contro D’Arrigo, in perenne contraddizione con sé, non scegliere ma essere scelti, è la cifra più proficua su cui indagare. In Horcynus la morte è estroflessa, oggettivata nell’Orca, il «ferone carognone», e dunque per reazione circondata dalle parole nel tentativo estremo di neutralizzarla con la scrittura: il romanzo è un immenso avatar apotropaico. Ma il vero dramma è quello che emerge in Codice siciliano e che l’autore sembra aver rimosso nel romanzo: la tragedia, come si diceva sopra, della lingua che “non sa”, dove la putrefazione è già in atto, ma non è il corpo a fetere – per usare vocabolo caro a D’Arrigo –, è la lingua. È la lingua che fete, «fete per morte, non si tratta più di fetore suo di vivo, di fetente vivente»”[4].
Siamo al fondo di uno dei problemi che travaglia la letteratura, di sempre e del Novecento, e che già Joseph Conrad («Le parole sono il grande nemico del reale») e Hugo von Hofmannsthal («Le parole pronunciate lasciano il sapore di funghi ammuffiti»), fra gli altri, presentirono: l’inadeguatezza congenita del mezzo espressivo. In Horcynus questo manque pare svanire sotto il manto di una proliferazione verbale vitalistica ed energizzante, che rigetta via da sé ogni patologia di morte rendendola emblema esterno, simbolo araldico: siamo di fronte, per così dire, al frutto estremo del dannunzianesimo innestato in pieno Novecento, alla sua irrimediabile metastasi; cosa che, invece, non accade in Codice siciliano, dove la morte si sconta scrivendo, si sconta nel verbo, e tale senso del limite si confà alla categoria di barocco elaborata da George Uscatescu: «in forma ambivalente il punto estremo di dilatazione culturale [...] e al tempo stesso la morfologia poetica della decadenza e della disillusione». Tenere in piedi un testo barocco, insomma fare in modo che non sia il proverbiale gigante dai piedi d’argilla, è impresa ardua: è come far correre a un lottatore di Sumo i 100 metri in 9 secondi e rotti, a tempo cioè di record mondiale. Arduo ma non impossibile nelle dinamiche agonistiche di quella forma distorta di sport che è la letteratura. Qualche esempio? Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, L’osceno uccello della notte di José Donoso, L’ordine naturale delle cose di António Lobo Antunes, e per uscire dallo steccato dei soliti noti il misconosciuto qui da noi – mai tradotto – ma veneratissimo nel mondo anglosassone Lanark dello scozzese Alasdair Gray. Superfluo aggiungere che i recenti tentativi italiani di scrittura grassa – come direbbe Stendhal – rasentano per lo più il puerile ventriloquismo.
L’esistenza come condizione mortuaria, questo il fulcro dell’ispirazione; ed eccone una brevissima campionatura: «la vita un’eco / lasciò fuggendo», «mani di vivi con occhi / di morti», «Così tu muori inerme», «tu morivi a volte per noi», «ogni eternità finisce».
Come si sarà intuito dalle citazioni, D’Arrigo poeta non ricorre alla patina dialettale, la quale in Horcynus si risolve nella sostanza in – e adesso farò schiumare di rabbia i darrigofili – uno specchietto per allodole, un pastone d’ingrasso buono al massimo per gli stomaci di curiosi rigattieri della storia della lingua: gonfia ma non nutre. Dunque una patina “senza necessità né spessore, tanto che noi l’aboliamo leggendo, sostituendo mentalmente la parola siciliana con quella italiana” (ancora Citati: il suo articolo sul “Corriere della Sera” è, a mio modestissimo avviso, il giudizio critico più accorto – e forse centrato – su Horcynus, sapientemente equidistante dai fanatismi acritici come dalle reprimende pregiudiziali. Che dice in soldoni Citati? dice che vi sono in pratica due libri che convivono, uno di straordinaria bellezza, lirico e intenso, teso a cogliere le molteplici sfaccettature dell’universo, l’altro invece ipertrofico e ripetitivo).
Morire è un’arte, e la morte è una cosa troppo seria per sprecarla in barocche catalogazioni.

[1] Ma altri importanti poeti vi sarebbero, misconosciuti o dimenticati troppo presto: citiamo almeno il lavico Santo Calì, dialettale di Linguaglossa, il barocco, nonché cugino di Tomasi di Lampedusa, Lucio Piccolo, e il grande vecchio Giuseppe Bonaviri (narratore tra i migliori del secondo Novecento, ma anche poeta di livello non trascurabile).
[2] E. Siciliano, L’isola. Scritti sulla letteratura siciliana, Lecce, Manni, 2003, p. 153.
[3]“Corriere della Sera”, 4 marzo 1975.
[4] Horcynus Orca, Milano, Mondadori, 1994, vol. II, p. 733.

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