12 settembre 2013

QUELLO CHE DOBBIAMO A KAFKA E A BECKETT







Riprendo con particolare piacere da    http://rebstein.wordpress.com/2013/09/12/scrittura-e-liberta-in-beckett-e-kafka/     il seguente documento:

Questo post contiene parte della nota introduttiva e i primi di due paragrafi di un più articolato saggio di Gianmarco Pinciroli sull'opera di Samuel Beckett (e di Franz Kafka, in parallelo), in particolare sulle opzioni teoriche e le scelte stilistiche entro le quali si dispiega l'universo creativo dello scrittore e drammaturgo irlandese. Vi si presenta l'ipotesi interpretativa avanzata dall'autore, cui seguirà il lavoro completo, disponibile a breve nel volume XXXIII dei Quaderni delle Officine. Con la consapevolezza che fuori dal perimetro della critica accademica e dell'editoria di riferimento esiste una produzione saggistica di altissimo profilo che andrebbe finalmente valorizzata e diffusa. fm


Considerazioni su scrittura e libertà
(Kafka e Beckett tra narratività e nichilismo)

Nessun mezzo migliore di sfuggire al mondo, che l’arte; nessun
mezzo migliore di entrare in contatto col mondo, che l’arte.
Della realtà, alla fine, rimane tutto, e nulla ad un tempo.
Johann Wolfgang Goethe

Questo lavoro non è e non intende essere un contributo critico in senso stretto rispetto all’opera letteraria e drammatica di Beckett; intende, invece, provare a render conto di un’ipotesi interpretativa, circa il suo progetto di scrittura, emersa dalla lettura diretta di alcuni suoi testi, sia narrativi che drammatici, utilizzando allo scopo anche un confronto con l’opera di Kafka. A tale fine chi scrive ritiene di avere rinvenuto le pezze d’appoggio dimostrative, per quanto riguarda Beckett, attraverso l’esame di alcune testimonianze biografiche che ci hanno raccontato, tra le tante altre cose in esse contenute, che cosa pensava Beckett di sé come scrittore e del suo progetto generale di scrittura che lentamente si sviluppava nei decenni. Malgrado le assai scarse interviste rilasciate in vita dall’autore, è stato in tal modo possibile ricostruire (o per lo meno qui si ritiene di averne delineato qualche tratto) lo sfondo teoretico/progettuale che innerva il senso complessivo della sua opera. [...]

     Comunicazione e formalità di comunicazione: una scrittura senza mondo?
     La libertà con la quale, date certe condizioni, ci si appresta a scrivere, è sempre una difficile conquista. Di solito, si pensa che chi scrive abbia prima di tutto qualcosa d’immediato da comunicare, e per lo più accade che chi ha qualcosa d’immediato da comunicare lo comunichi proprio scrivendo, non potendolo magari fare per via orale. Ma colui che si avvicina alla scrittura non sempre ricade sotto quelle certe condizioni cui il bisogno urgente di comunicazione lo costringe giustificando in tal modo il gesto stesso di scrivere; si danno casi, infatti, in cui la comunicazione di qualcosa nell’immediatezza non è affatto il movente del fatto di scrivere, si danno casi in cui il fatto di scrivere giace senza la riconoscibilità immediata di un movente, di un qualcosa d’immediato da comunicare.
     La libertà cui sopra si accennava ha allora forse a che fare, va da sé pensarlo, con situazioni-limite di un genere a tal punto anomalo che, per comprendere che cosa succede quando si versa in uno di tali frangenti apparentemente insoliti, dobbiamo sospendere alcune ovvietà, prima fra tutte quella che identifica, appunto, il fatto di scrivere col dovere di comunicare l’immediatezza di qualcosa. Ma anche così, ammettiamolo, si capisce poco di ciò che intendiamo porre in questione.
     È necessario quindi approfondire, articolandone i termini costituenti, la sospensione genericamente progettata sopra, sospendendo prima di tutto la più imponente di queste ovvietà, vale a dire l’ovvietà del termine stesso di ‘comunicazione’, e assumere il termine secondo un’accezione che includa anche e soprattutto questo frangente anomalo di scrittura che andiamo cercando, impostando in tal modo una sorta di comunicazione, bisogna pur dirlo, paradossale, di comunicazione senza qualcosa di ‘oggettuale’, o di ‘reale’, di immediatamente riconoscibile da ‘comunicare’; una sorta di comunicazione che, grazie a tale sospensione semantica che la riguarda, manifesti la trama di una essenziale formalità di senso, una comunicazione, aggiungiamo, che, se pure ad uno sguardo ingenuo sembra prima di tutto presentarsi ‘vuota’ e insensata, con apparente arroganza intende bastare a se stessa, priva soltanto in superficie di quel ‘qualcosa’ di ‘reale’ che di solito l’accompagna, e priva, sempre in superficie, corrispondentemente di una possibilità di ricezione in attesa di quel ‘qualcosa’ come dell’unico senso che sia stato promesso. Una comunicazione dunque che, sganciata, come stiamo sostenendo, dal dovere di riferirsi per forza a ‘qualcosa’ di ‘concreto’ da tutti subito riconoscibile per ‘quel’ qualcosa, in prima istanza appaia, in quanto formalità di senso, fare di se stessa, soltanto di se stessa, contenuto. Una comunicazione, allora, che si liberi – ecco che finalmente si torna al termine chiave – di tutti i ‘contenuti’ per così dire ‘realistici’, di tutti quelli che non siano riconducibili, rispetto ad ogni altra esigenza, alla pura eminenza di sé, al farsi ragione necessaria e sufficiente del proprio ‘vuoto’ scritturale così realizzato, un vuoto che si renda funzionale come il luogo in cui – come spesso il novecento scritturale più difficile e autentico ha dolorosamente insegnato – si fa presente l’assenza.
     Già, l’assenza, ma l’assenza di che cosa? nientemeno che: l’assenza del simulacro del mondo. L’assenza del simulacro del mondo? Che cosa rappresenta, agli occhi di un mondo come il nostro che vive in ogni attimo della più ‘concreta’ quotidianità di ‘comunicazione’, una scrittura che, fuggendo ciò che ora abbiamo chiamato il ‘simulacro’, comunica in prima istanza (e anzi: comunica la necessità di tale istanza) soltanto se stessa, e che lo fa, nell’opera di scrittura che eventualmente ne risulta, proponendosi riflessivamente magari quale grande metafora epocale, o immagine-rappresentazione di uno stato inapparente delle cose, o addirittura come diretto, esplicito riferimento d’assenza rispetto a un mondo (paradossalmente, e comunque) scritto, che di solito invece viene inteso, semplicemente e indiscutibilmente, come vera ‘copia’ del mondo ‘reale’?
     Ma precisiamo meglio la perplessità: è possibile davvero una scrittura senza mondo (concesso che ciò che chiamiamo mondo ne sia soltanto un simulacro), dunque una scrittura senza un ‘mondo’ di cose, di persone, di situazioni da ‘descrivere’, da utilizzare indiscutibilmente nella costruzione del simulacro di realtà che qui stiamo valutando come figura illusoria di ciò che intendiamo ‘normalmente’ come mondo, e che l’arte tradizionale della scrittura sembra così ben attrezzata a raccontarci?
     Una comunicazione senza ciò che chiamiamo ‘mondo’? Che cosa farsene, in ultima analisi, di una tale ‘libertà’, conquistata negando ciò che appare innegabile ad ogni passo di buon senso comune, ogni volta che ci si appresti a scrivere, o a leggere?
     E infine: è valsa in fin dei conti la pena faticare per conquistare, e a fatica, una tale libertà?

     Beckett e il peso del farsi vuoto del mondo
     Samuel Beckett è colui che, all’interno della scrittura novecentesca, ha dimostrato la legittimità, e forse la necessità, di una comunicazione di tal genere, e per dimostrare la possibilità di una scrittura capace di farsi carico di un peso così grande, il peso del farsi vuoto del mondo, ovvero il peso del mondo pensato tout court tutt’intero oltre le proprie apparenze ingenuamente descrittive, ebbene, ha ‘deciso’ di scrivere, per così dire, fenomenologicamente, ovvero: dopo l’opportuna epoché nei confronti del ‘realismo’ narrativo predominante, di scrivere quello che ha inteso, secondo una tale intenzionalità decostruttiva, di scrivere, e non altro. Quest’ultima osservazione può sembrare peregrina nella sua insignificanza, ma non è così.
     Infatti, la libertà di scrivere di un mondo ‘senza contenuti’ che non siano quelli intenzionali rappresentati da questa stessa scrittura fenomenologica nel suo farsi (da intendersi come rappresentazione del farsi scritturale che poi, nel caso di Beckett, secondo intenzionalità narrativa o drammatica, si fa racconto), date le condizioni eccezionali accennate sopra e che proprio in questo atteggiamento consistono, in verità si presenta fin da subito per Beckett come una necessità inderogabile, un dovere, un obbligo, un’etica intellettuale minima che non può essere rimandata ad altro tempo (di scrittura): l’ultima spiaggia di un uomo consapevolmente ‘novecentesco’ che, scrivendo, ha deciso di fare i conti, grazie alla sua esperienza complessiva di intellettuale formatosi nel clima culturale della prima parte di secolo, con quello che gli appare senza infingimenti, nella seconda metà del secolo, lo stato profondo delle cose.
     A tal punto questo è vero presso altre esperienze di scrittura novecentesca, e dunque non solo in Beckett, che si potrebbero leggere molti altri scritti europei di valore come esperienze altrettanto ultimative, altrettanto in grado di sospendere dolorosamente, e tragicamente, la comunicazione dell’ovvio, in quanto esperienze di una fatalità (storicamente determinata?) che trasmette la sua tragica necessità storica alla comunicazione stessa. La fatica, per noi che ci rigiriamo certi libri tra le mani (quelli di Beckett, per esempio), di una lettura del genere, che va contro tutte le abitudini consolidate sia da una generica passione per la ‘letteratura’ che soprattutto dalla pratica ermeneutica scolastica, anche accademica, rivela però, come premio insperato, il valore della fatica che è costata di tutto, allo scrivente la conquista di una tale posizione scritturale anomala, che abbiamo già da subito coniugato alla parola ‘libertà’. È questa, dunque, la struttura teoretica della libertà di scrittura portata, secondo quanto si sostiene in questo lavoro, alle estreme conseguenze appunto da Beckett.

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