12 settembre 2013

MATISSE SEGRETO


Esce per la prima volta la lunga intervista che il pittore poi censurò. Ansie e passioni dell'artista che avrebbe voluto essere un pesce rosso

Vincenzo Trione - Matisse, la confessione segreta

E se fossimo dinanzi al testamento dell'avanguardia? Aprile 1941. Henri Matisse è stato appena dimesso dall'ospedale, dopo un'operazione per un cancro all'intestino. Ora è a Lione presso il Grand-Nouvel-Hotel, per un periodo di convalescenza. Sulla via della guarigione, avverte il bisogno di ritornare a «fare». È pronto per una nuova vita: per la «resurrezione». Vuole ricominciare a dipingere.

Sorpreso da questa vitalità, l'editore Albert Skira lo sollecita a ripercorrere le tappe del suo itinerario: amici, viaggi, passioni, idiosincrasie, città, ragioni poetiche. Matisse accetta di confessarsi. Decide di raccontare: la sua idea del dipingere, la sua estetica del colore. E, poi: il postimpressionismo, il fauvisme. I soggiorni ad Haiti e in Marocco. La giovinezza, la vecchiaia. Le speranze, le angosce. Ad ascoltarlo e a ordinare il suo flusso di coscienza è il critico Pierre Courthion. In pochi mesi viene redatto un manoscritto di più di 300 pagine. A causa dei costi di produzione, Skira riduce quel materiale a 260 pagine. Il pittore non accetta l'editing, e minaccia di non portare avanti quell'avventura: «Voi volete mutilare il mio lavoro», afferma. Ma i problemi sono altri, come capiscono subito Skira e Courthion. Sempre volubile, Matisse ha cambiato idea.

Adesso ha timore a svelarsi. Non vuole dire con chiarezza cosa pensa di tanti suoi compagni di strada: amici, artisti, galleristi. E inizia a limare il testo. Rimodula passaggi, precisa profili, elimina commenti su collezionisti. Riscrive molte pagine. Sembra essere giunto a un equilibrio. L'epilogo della vicenda è inaspettato. Alla fine, Matisse decide di non dare alle stampe il volume. Si autocensura. Per pudore o per intelligenza strategica?

Quel brogliaccio è rimasto inedito. Si tratta di un documento di straordinario rilievo, che finora nessuno ha avuto la possibilità di leggere nella sua interezza. A distanza di settant'anni, un fine storico dell'arte, Serge Guilbaut, ha ritrovato quei fogli tra le carte di Courthion, custodite nell'archivio del Paul Getty di Los Angeles. E, dopo aver convinto gli eredi di Matisse, ha avviato una lunga verifica filologica. L'esito: Chatting with Henri Matisse: The Lost 1941 Interview, che presenta l'intervista insieme con un ampio regesto di appunti, di annotazioni e di cancellature.



Si sfoglia questo libro, ed è come ascoltare la parola di Matisse. Certo, siamo di fronte a un memoir. Ma siamo anche di fronte a un ricettario in cui si spiega come si dipinge: un manuale ad uso dei giovani artisti. Ma forse pure a un epicedio, che lascia intuire ferite, inquietudini. The Lost 1941 Interview è innanzitutto un'autobiografia. Nelle intenzioni dell'autore, doveva essere un volumetto di «chiacchiere» (in nove «conversazioni»). La formazione. I primi incontri. Le intuizioni giovanili. La lezione di Moreau. La scoperta di Picasso. Gli anni delle difficoltà. Parigi: la stagione bohémienne. Le visite al Louvre. Le meditazioni sulla storia dell'arte.

Ma The Lost 1941 Interview è anche un rapsodico trattato di tecnica pittorica, in cui, sottraendosi a ogni finalità didattico-normativa, Matisse enuncia artifici e stratagemmi. In maniera spesso aforismatica. Si rivolge ai pittori delle nuove generazioni, per spiegare ciò che egli ha scoperto nella sua pratica quotidiana. L'artista, per lui, non deve guardare il mondo esterno. Piuttosto, deve parlare di sé solo dipingendo. Non narrare il visibile. E non preoccuparsi del gusto e delle attese dei galleristi e dei mercanti: «Se lavori per gli altri, non otterrai niente». Egli deve imparare a saldare «energia e curiosità». E — da «esibizionista» — esprimere se stesso attraverso il pennello. Per concentrarsi su quella che deve essere la sua unica ossessione. Il suo pensiero dominante. Il colore.

Sorretto da una sincera attitudine analitica, Matisse concepisce la pittura come una «forma di comunicazione»: una grammatica con un preciso funzionamento, un linguaggio dotato di regole specifiche. La sua sfida: ridurre la sintassi pittorica alla sua essenza. Per un verso, egli lascia al quadro la sua presenza documentaria. Per un altro verso, afferma i diritti propri del dipingere, inteso come sistema autonomo di segni. Negli anni giovanili, scriveva: «Riuscii a studiare ogni elemento della costruzione isolatamente: il disegno, il colore, i valori della composizione. Cercai di scoprire come si possono riunire i singoli elementi figurativi in un tutto (…). In altre parole, badavo alla purezza dei mezzi».

Matisse lavora solo sui colori. Dice di sentire «con» i colori. Che non sono mezzi per evocare qualcosa. Sono sostanze. Impalcature che sostengono ogni architettura iconografica. Sono qualità originarie. Posseggono una pura fisicità. Non rinviano ad altro che a sé; il verde o il blu rimandano solo a se stessi. Dotati di una intrinseca bellezza, seguono criteri interni. Talvolta, si concedono a una danza di minime variazioni. «Hanno il loro potere e la loro eloquenza solo se usati allo stato puro, quando lo smalto e la purezza non ne sono alterati, attenuati da mescolanze contrarie alla loro natura».

Muovendo da queste convinzioni, Matisse vuole portarsi al di là dei principi del Postimpressionismo («conveniente» sul piano teorico, ma «inadeguato» per cogliere la spiritualità). Perciò, nelle conversazioni con Courthion, sostiene che occorre esaltare l'«espressività» e la «forza» dei colori. Che sono come note musicali: da organizzare e combinare. Ciascun tono, infatti, non deve essere dato in sé, ma deve «suonare» insieme con gli altri. In modo da suggerire armonie seduttive. Sinfonie governate da accordi calcolati: a tal punto complesse da apparire necessarie. In questa prospettiva, Matisse pensa l'arte come tentativo per «riconciliare l'inconciliabile». E parla dei suoi quadri come di arene nelle quali entrano in collisione quattro o cinque cromie. Fino a emozionare colui che guarda. Quel pubblico che non è fatto di meri acquirenti, ma è come una «materia sensibile nella quale lasciare un'impronta».



Infine, The Lost 1941 Interview è altro. Un addio. Si dà a noi come una sofferta uscita dal mondo. Matisse, qui, non è l'elegante padre dell'Astrattismo, circondato di lusso, bellezza e voluttà. E non è neanche il pittore che ha inventato inconfondibili cosmogonie, capaci di trasmettere gioia di vivere. Ma è un solitario, che mostra il lato più perturbante della sua personalità. Un vecchio maestro, combattuto tra mille contraddizioni. Che sceglie di confessarsi, ma alla fine non riesce a farlo: non ha la forza di farlo. Ecco: il suo è il diario di un recluso.

Matisse non si riconosce più nel tempo che ha attraversato da protagonista. E, in filigrana, lascia intravedere tormenti, ansie. Anzi, si descrive come «incline alla depressione», spesso portato a «vedere ogni cosa in nero». Dichiara il suo male di vivere. Ci appare come un eremita. Oramai solo, forse inadeguato a stare dentro il Novecento. Egli sembra non riuscire più a comprendere un'epoca in cui l'avanguardia si apprestava a diventare una replica stanca dei suoi riti.

Un ripiegamento? No. Perché Matisse è sempre stato una voce isolata. Non ha mai aderito fino in fondo a gruppi e a tendenze. Non a caso amava identificarsi con i pesci rossi, prigionieri dentro bocce di vetro. Quegli animali veloci che egli ha rappresentato più volte. Ad esempio, in un dipinto del 1914, li ha trattati come immagini differite di se stesso. Una volta Matisse disse che, in un'altra vita, avrebbe desiderato essere proprio un pesce rosso. Per poter osservare il mondo dall'esterno, separato da uno schermo trasparente.


(Da: Il Corriere della sera 1/9/2013)

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